agosto 2020

Mascherina a lezione e non solo; distanziamento di un metro in aula con un margine concesso del 10 per cento in meno o in più; prenotazioni per il posto e didattica a distanza per chi non può seguire in presenza. Sono queste le linee guida previste dal ministero dell’Università e della Ricerca. Oggi dal “Giffoni Film Festival” il ministro Gaetano Manfredi ha ribadito la volontà e l’impegno di dare avvio ad un anno accademico in sicurezza: “A settembre riprenderemo le lezioni in presenza e questo è il risultato di un lavoro organizzativo molto intenso. Avremo il riempimento al 50% delle aule con un’integrazione tra didattica a presenza e didattica a distanza. Ovviamente ci sarà distanziamento e utilizzo della mascherina in aula. Il nostro obiettivo è privilegiare le matricole perché vivono un momento di passaggio e devono avere la possibilità di capire come si frequenta un’università”. L’unico nodo ancora da sciogliere resta quello dell’intervento in caso di contagio di uno studente. Il ministero ha predisposto un documento che è stato condiviso con la Conferenza dei rettori ma ora attende l’approvazione del Comitato tecnico scientifico.

La cornice indicata da Roma è chiara. Il distanziamento tra uno studente e l’altro dovrà essere di un metro e la capienza delle aule andrà ridotta di almeno il 50 per cento indicando i posti dove sarà possibile sedersi. Non solo. Per seguire le lezioni bisognerà prenotare attraverso le app che gli atenei stanno mettendo a disposizione. La mascherina sarà obbligatoria per tutto il tempo di permanenza nell’università e solo il professore potrà abbassarla durante la spiegazione. “Per i più grandi – ha spiegato Manfredi – ci sarà maggiore didattica a distanza. Ovviamente abbiamo avuto grande attenzione per le tecnologie con il cablaggio di tutte le aule. Questo consentirà di seguire le lezioni anche a tutti gli studenti stranieri che per le limitazioni negli spostamenti non potranno essere in Italia”. Infine la febbre dovrà essere misurata a casa. Indicazioni che ogni ateneo sta applicando in piena autonomia com’è previsto dall’ordinamento.

La didattica a distanza divide i docenti – A manifestare qualche critica ora sono proprio i docenti che nei mesi scorsi avevano promosso un appello per chiedere lo stop della didattica online e il ritorno in aula. “Il ministro è arrivato tardi. Gli atenei da tempo – spiega Emilio Santoro, professore filosofia e sociologia del diritto all’Università di Firenze – si sono già organizzati. Ora bisogna capire se adegueranno le loro scelte alle disposizioni del ministero”. Santoro è particolarmente polemico sulla didattica a distanza: “Vedere su uno schermo la didattica in presenza è un insulto a quest’ultima. Si poteva fare molto di più: allungare gli orari di lezione fino alla sera alle 23; andare in università di sabato; usare la risorsa dei ricercatori”. Promossa, invece, la mascherina: “Se non si fanno test sierologici ogni quindici giorni la mascherina è necessaria. Bisogna distinguere la sicurezza dalla messa in scena della sicurezza”.

Alessandro Ferretti, docente di Torino è drastico: “Il gioco non vale la candela. Bisognava almeno per il primo semestre proseguire con la didattica a distanza evitando anche lo spostamento da regione in regione di migliaia di giovani”. Ottimista, invece, il professor Paolo Ferri in forza alla “Bicocca” di Milano: “Nel nostro ateneo si sono già organizzati. Si misura la febbre ad ogni persona che entra, ci sono turni per lezioni in modo da avere 30-40 studenti per aula, avvengono puntuali sanificazioni degli ambienti. Da noi il primo semestre sarà fatto in presenza per le matricole mentre gli altri ragazzi seguiranno da casa”.

Secondo gli studenti manca un progetto comune Infine la voce degli studenti. Enrico Gulluni, coordinatore nazionale dell’Unione degli Universitari, è insoddisfatto del lavoro del ministro Manfredi: “Non c’è una politica univoca, un progetto comune. Ogni ateneo fa di testa sua. Noi avevamo suggerito al ministero di fare un accordo con l’Associazione nazionale dei comuni per trovare spazi alternativi ma non si è fatto nulla di tutto ciò”. Sui test d’accesso ai corsi Manfredi ha pronta una soluzione: “Ci potranno essere dei casi particolari, cioè di studenti che non potranno partecipare per una disposizione dell’autorità sanitaria. Stiamo valutando la possibilità di trovare una data alternativa per consentire anche a loro di poter sostenere il test. È un aspetto giuridico molto complesso, però sicuramente abbiamo grande attenzione perché non vogliamo far perdere opportunità a nessuno”.

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E noi che ci lamentiamo delle “task force”. Per carità, magari anche a ragione, ma non è che altrove se la passino sempre molto meglio. Il governo britannico sta ad esempio firmando contratti a raffica con i colossi della consulenza come PwC, Deloitte, McKinsey per farsi consigliare su tutto quanto ha a che fare con il Covid. Dalle attrezzature di protezione individuale, all’organizzazione delle campagne di test e all’acquisto di respiratori.

Ne dà notizia in questi giorni la stampa britannica, Guardian e Financial Times in particolare, secondo cui, sinora, il governo britannico ha staccato assegni per 109 milioni di sterline (121 milioni di euro) per 106 contratti di consulenza. Molti di questi contratti, alcuni dei quali siglati già in marzo, stanno venendo alla luce soltanto adesso, in contrasto con la normativa britannica che prevede una comunicazione entro 30 giorni. A guardare il contenuto di alcuni accordi ci capisce anche il motivo per cui Downing Street non avesse tutta questa fretta di renderli pubblici. Da quanto emerge, sfruttando l’emergenza, molti di questi contratti sono stati assegnati senza concorso.

McKinsey ha ad esempio ottenuto un contratto da 564mila sterline per sei settimane (14mila sterline al giorno) per aiutare il servizio sanitario a definire “visioni, obiettivi e narrativa”. La società Public First ha incassato 1 milione per aiutare i ministri britannici “a trarre vantaggio dalle lezioni della crisi del Covid”. Deloitte ha siglato accordi per circa 7 milioni di sterline. Tra i compiti il supporto nell’organizzazione di siti per i test di massa. Esiti fallimentari con risultati smarriti o inviati alle persone sbagliate, critiche in tutto il paese ma la società passa comunque all’incasso spiegando che il suo compito era solo quello di aiutare il governo a velocizzare l’esecuzione dei test. Il record di incassi e contratti va a PwC che grazie all’emergenza Covid ha intascato più di 20 milioni di sterline spalmati su 11 contratti. PA Consulting ha incassato 18 milioni di sterline per una consulenza sul programma di acquisto di respiratori. EY, attualmente nell’occhio del ciclone per la vicenda della bancarotta del gruppo tedesco Wirecard, ha portato a casa accordi per 5 milioni per suggerimenti sul tracciamento dei contagiati, Kpmg per 4,5 milioni. Altri 8 milioni sono andati a Boston consulting group per aiutare a sostenere i paesi poveri colpiti dal virus.

Sullo sfondo si rafforzano i dubbi sulle conseguenze dei continui tagli ai budget della sanità pubblica britannica. Il Guardian riporta l’opinione del ricercatore del centro studi Institute for government Tom Sasse: ” Mentre le risorse del servizio pubblico sono state significativamente ridotte negli ultimi anni, abbiamo assistito a dipartimenti pubblici che fanno sempre più affidamento sulla consulenza privata. Ma non è affatto chiaro se questi servizi siano stati usati bene e se abbiano portato qualche miglioramento”. In queste anni molte di queste stesse società, a cominciare da McKinsey, hanno fornito consulenze al governo britannico su come procedere più speditamente nel percorso di privatizzazione del servizi sanitario pubblico.

Proprio in questi giorni migliaia di dipendenti del servizio sanitario pubblico britannico hanno manifestato in difesa, appunto, della sanità per tutti e anche per un riconoscimento economico dopo gli sforzi sostenuti durante la pandemia. Novecentomila addetti del servizio sanitario sono infatti rimasti esclusi dagli aumenti salariali decisi dal governo poiché con un’anzianità di lavoro insufficiente. La pandemia ha causato oltre 500 vittime tra i dipendenti del servizio sanitario nazionale a causa della continuata esposizione al contagio.

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Gli studi alla Bocconi e un’azienda specializzata nella produzione di fragole, lamponi, mirtilli e more. Tutto a 15 chilometri dal Duomo di Milano grazie a delle sofisticate serre riscaldate da pannelli fotovoltaici. Raccontata così quella del 31enne Guglielmo Stagno D’Alcontres sembrava una storia di successo e grandi intuizioni, tanto da meritarsi premi di Coldiretti, copertine e servizi. Un giovane prodigio del mondo imprenditoriale che, secondo la procura meneghina e la guardia di finanza, avrebbe costruito le sue fortune applicando un “sistema del terrore” tra i suoi lavoratori. Circa cento braccianti, in larga parte provenienti dall’Africa, sottopagati e sfruttati da colui che si autoproclamava, senza sapere di essere intercettato, “il maschio dominante” che applicava un metodo di lavoro “tribale”. Nell’inchiesta, come emerge dagli atti che hanno portato al sequestro di Straberry, sono sette le persone coinvolte, tra cui Fabrizia Carolina Pilla, mamma dell’imprenditore e socia nell’azienda del figlio.

Il 31enne Stagno D’Alcontres è un rampollo di nobili origini siciliane. Messina e dintorni sono una sorta di feudo per una famiglia finita spesso sulle prime pagine dei giornali, tra incarichi politici e scandali. L’imprenditore trapiantato a Milano ha perso il padre – Ferdinando Stagno D’Alcontres – quando aveva due anni nell’estate del 1990. Il giorno dopo tutti i quotidiani siciliani, compresa La Sicilia con Mario Ciancio Sanfilippo in prima linea, ricordarono l’uomo con commossi necrologi. Era stato al vertice dell’istituto autonomo case popolari di Messina, dirigente della Democrazia cristiana ma anche assessore e consigliere provinciale.

Lo zio del fondatore della Straberry, invece, anche lui di nome Guglielmo, è noto per essere stato – durante il governo di Totò Cuffaro – il presidente della Croce Rossa e della Sise 118, l’azienda che gestiva il servizio ambulanze per conto dell’associazione. Incarichi d’oro di cui si occupò la trasmissione Report e che lasciarono anche degli strascichi giudiziari con l’ex presidente che nel 2015 patteggiò una condanna a due anni per peculato.

Gli intrecci familiari però non finiscono qui. Tra i parenti del 31enne c’è anche Francesco Stagno D’Alcontres, per quattro legislature parlamentare alla Camera dei deputati. Con Forza Italia, Popolo delle Libertà e nel 2012 con il gruppo Grande Sud di Gianfranco Micchiché. D’Alcontres è anche cugino dell’ex ministro berlusconiano Antonio Martino. La mamma di quest’ultimo, nemmeno a dirlo, di cognome fa Stagno D’Alcontres. Ad aprire le danze in politica tuttavia ci pensò l’ormai defunto Ferdinando Stagno D’Alcontres. Banchiere e padre di Francesco – l’ex parlamentare forzista – è stato presidente democristiano dell’Assemblea regionale siciliana negli anni ’50.

Gli avi dell’imprenditore che ha fatto fortuna con fragole e mirtilli sono legati anche al mondo dell’università. Un centro di potere che rimanda al prozio Guglielmo Stagno D’Alcontres, morto a 86 anni nel 2003 e per 15 anni rettore dell’ateneo di Messina. L’allora Magnifico fu coinvolto, e poi assolto, in una vicenda legata a Tangentopoli. Suo genero, il professore universitario Matteo Bottari, fu ucciso nel 1998 nell’ambito del cosiddetto Caso Messina. Dietro quel delitto mai risolto si sarebbe nascosto un verminaio di interessi legato al mondo delle forniture nell’ateneo. Un quadro inquietante, con la città sullo stretto che sarebbe stata tenuta in pugno da un sistema affaristico fatto da colletti bianchi. Più di recente, a tentare di replicare l’esperienza di rettore è stato anche Francesco Stagno D’Alcontres. L’ex parlamentare forzista è stato candidato alle elezioni universitarie del 2018, uscendo però sconfitto.

L'articolo Chi è il nobile Stagno D’Alcontres indagato per Straberry: dai parenti nella Dc al deputato forzista, fino al prozio rettore a Messina proviene da Il Fatto Quotidiano.



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Dalla privacy, alle modalità di utilizzo, dai falsi positivi alla sua effettiva finalità. Sono diversi i dubbi (non tutti giustificati) che molti cittadini ancora nutrono rispetto a Immuni, l’app di notifiche di esposizione scelta dal governo italiano per contrastare i contagi da Covid-19 e sviluppata con il coordinamento del commissario straordinario per l’emergenza, in collaborazione con i ministeri della Salute e per l’Innovazione tecnologica e la Digitalizzazione. Una parte consistente di utenti che ha deciso di scaricarla, l’ha fatto appena è stato possibile, a giugno: 500mila download in un solo giorno e due milioni in una settimana. Sono quelli che, dicono gli esperti, l’hanno fatto spinti dalla volontà di contribuire a contrastare il diffondersi del virus. Poi c’è stata una battuta d’arresto, ma proprio in questi giorni si sta registrando un nuovo trend. Governo e Comitato tecnico scientifico, intanto, continuano a ribadire che è uno strumento fondamentale di prevenzione. Di fatto ha bloccato almeno quattro focolai. Non sconfiggerà da sola il Covid-19, ma di certo lo strumento di contact tracing rappresenta un’arma in più. Partiamo dunque dall’inizio, per cercare di capire come funziona Immuni.

COS’È IMMUNI – L’app si propone di avvertire gli utenti potenzialmente contagiati il prima possibile, anche quando sono asintomatici, in modo che possano isolarsi e contattare il proprio medico prima di eventuali complicanze. Non c’è nessun obbligo, è bene sottolinearlo, di seguire le indicazioni che l’app fornirà, anche se viene fortemente consigliato. Ad ogni modo, da fine luglio è attivo un numero verde numero gratuito (800-912491) per ricevere assistenza o supporto, che si rivolge sia a cittadini che a operatori sanitari. Il servizio è attivo dal lunedì alla domenica (dalle 7 alle 22). Ilfattoquotidiano.it ha provato a contattarlo più volte e in diversi giorni della settimana e i tempi di attesa sono stati sempre molto veloci, da qualche secondo a poco più di un minuto. Tutte le informazioni utili sul funzionamento del sistema sono poi disponibili sul sito immuni.italia.it. Appena scaricata su uno smartphone, Immuni fa sì che il dispositivo emetta continuativamente un segnale Bluetooth Low Energy che include un codice. Si tratta di codici generati del tutto casualmente, senza contenere alcuna informazione sul dispositivo o l’utente e vengono modificati diverse volte ogni ora, proprio per proteggere ulteriormente la privacy degli utenti.

COME FUNZIONA LA APP – Quando due smartphone su cui è installata l’app sono a distanza di qualche metro tra loro iniziano a scambiarsi questi codici, per tenere traccia dell’avvenuto contatto. Se uno dei due utenti risulta positivo al SARS-CoV-2, con l’aiuto di un operatore sanitario, potrà decidere di caricare sul server di Immuni le chiavi crittografiche associate al suo dispositivo, dalle quali è possibile ricavare i suoi codici casuali. L’utente dovrà quindi dettare il codice Otp (la password temporanea) che si trova in un’apposita sezione dell’app all’operatore sanitario che gli ha comunicato l’esito del tampone. Il codice verrà validato e l’utente potrà procedere al caricamento, che serve solo se si risulta positivi al virus. L’assistenza dell’operatore sanitario aiuta a evitare casi di falsi positivi. Per ogni utente, l’app scarica periodicamente dal server le nuove chiavi crittografiche inviate dagli utenti risultati positivi al virus per risalire ai codici casuali e controllare se qualcuno di essi corrisponde a quelli registrati nella memoria dello smartphone nei giorni precedenti.

QUANDO SI RICEVE LA NOTIFICA – Perché una persona riceva una notifica di esposizione non è sufficiente che il suo smartphone abbia registrato un contatto con un utente risultato positivo al Covid-19. Intanto quest’ultimo deve aver caricato le sue chiavi crittografiche sul server di Immuni per consentire di avvertire gli utenti a cui è stato esposto e, inoltre, l’esposizione deve essere avvenuta a una distanza inferiore ai 2 metri per un tempo superiore ai 15 minuti. A quel punto in molti si chiedono cosa avvenga. Come chiarito sul sito di Immuni, la app non può fare diagnosi ma “sulla base dello storico della tua esposizione a utenti potenzialmente contagiosi”, elabora alcune raccomandazioni su come è necessario comportarsi. Poiché il segnale Bluetooth Low Energy è influenzato da vari fattori di disturbo, “la valutazione non sarà sempre impeccabile” si spiega. Va da sé, dunque, che se l’app raccomanda a un utente di isolarsi, non significa che sicuramente la persona in questione abbia contratto il Covid-19, ma che è meglio consultare un medico. Anche se ci sentiamo bene, d’altronde sono molte le persone asintomatiche che hanno diffuso il virus senza rendersene conto.

IMMUNI NON SA CHI SEI, NÈ IDENTIFICA GLI SPOSTAMENTI – Il sistema è dunque basato sulla tecnologia Bluetooth Low Energy (il Bluetooth deve essere sempre attivo perché il sistema possa rilevare i contatti con gli altri utenti) e non utilizza dati di geolocalizzazione di alcun genere. Sugli smartphone Android, per ragioni tecniche, il servizio di geolocalizzazione deve essere abilitato per consentire al sistema di notifiche di esposizione di Google di cercare segnali Bluetooth Low Energy e salvare i codici casuali degli smartphone ma, come è facilmente verificabile dalla lista di permessi richiesti da Immuni, l’app non è autorizzata ad accedere ad alcun dato di geolocalizzazione (inclusi i dati del GPS). L’app non raccoglie dati identificativi, come nome, cognome, data di nascita, indirizzo, numero di telefono o indirizzo email. Immuni determina che c’è stato un contatto tra i due utenti, senza identificarli, né sapere dove si siano incontrati, perché non traccia gli spostamenti. Sono, inoltre, cifrati sia i dati salvati sugli smartphone, sia le connessioni tra l’app e il server. Sugli smartphone Android, per ragioni tecniche, il servizio di geolocalizzazione deve essere abilitato per consentire al sistema di notifiche di esposizione di Google di cercare segnali Bluetooth Low Energy e salvare i codici casuali degli smartphone ma, come è facilmente verificabile dalla lista di permessi richiesti da Immuni, l’app non è autorizzata ad accedere ad alcun dato di geolocalizzazione (inclusi i dati del GPS) e non può quindi sapere dove ti trovi.

IL GARANTE DELLA PRIVACY – Tutti i dati, siano essi salvati sul dispositivo o sul server, saranno poi cancellati non appena non saranno più necessari e, in ogni caso, non oltre il 31 dicembre 2020. I dati sono controllati dal Ministero della Salute, verranno utilizzati solo per contenere l’epidemia o per la ricerca scientifica e in nessun caso potranno essere venduti o usati per scopi commerciali, inclusa la profilazione a fini pubblicitari. Di fatto è arrivato anche il via libera del Garante della Privacy: “Sulla base della valutazione d’impatto trasmessa dal Ministero, il trattamento di dati personali effettuato nell’ambito del Sistema può essere considerato proporzionatoha scritto nel provvedimento di autorizzazione – essendo state previste misure volte a garantire in misura sufficiente il rispetto dei diritti e le libertà degli interessati, che attenuano i rischi che potrebbero derivare da trattamento”. Mentre, il 10 agosto scorso, sempre il Garante ha messo in allarme sulle app di Contact Tracing illegittime, sottolineando che l’unica app legittimata a operare in questo contesto è proprio Immuni.

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“Qualcuno ha cambiato idea sull’utilizzo della mascherina. Ebbene, se domani mattina vedessi Matteo Salvini utilizzare e invitare a scaricare Immuni, sarei la persona più felice del mondo nel riscoprire l’Italia unita, pronta a combattere contro la diffusione del Covid-19”. Il viceministro della Salute Pierpaolo Sileri spiega a ilfattoquotidiano.it perché considera “profondamente sbagliata” quella che definisce “l’opera di demonizzazione di Immuni”, che poi ha spinto molti italiani a non scaricarla, anche tra i giovani. Da esponente del governo, oltre che medico, chiarisce il suo punto di vista sull’applicazione presa di mira da mesi e che, invece “molto avrebbe potuto fare nel contact tracing, proprio nei mesi estivi e soprattutto per i giovani, limitando il rischio quotidiano di contrarre il virus. Non è andata così. Ad oggi il numero di download è di circa 5,3 milioni, anche se tutto sommato in linea con diversi Paesi europei. Ma non è finita e se finora al boom iniziale non ha fatto seguito una diffusione capillare nel nostro Paese, qualcosa può ancora cambiare.

Viceministro, come spiegherebbe Immuni a chi non l’ha ancora scaricata?
“Con un esempio semplice. Se io un giorno venissi a trovarvi in redazione e incontrassi il direttore e qualche altro giornalista, prendessi il caffè al distributore e dopo 12 giorni scoprissi di essere positivo, farei fatica a ricordare nel dettaglio, dopo quasi due settimane, tutti i colleghi incontrati e, di questi, quanti per circa 18 minuti e quanti mi sono stati a meno di un metro di distanza. La sede della redazione dovrebbe chiudere il giorno dopo. Immuni, invece, se fosse scaricata da tutti, sarebbe in grado di dircelo. In questo modo, chi non ha avuto contatti ‘a rischio’ con il sottoscritto sarebbe liberato da una quarantena forzata. Per me la app è proprio uno strumento di libertà”.

Riportando l’esempio circoscritto della redazione al caso della Sardegna….
“Appunto. Difficile ricordare dopo 12 giorni vicino a chi sei stato e per quanto tempo. Magari te lo ricordi dopo 18 giorni e, nel frattempo, il virus ha continuato a diffondersi, creando nuovi focolai. Immuni è un sistema immediato di segnalazione, che arriva con un semplice messaggio sul proprio smartphone e nella massima privacy”.

In realtà non c’è alcun obbligo di segnalare la propria positività.
“Sì, ma è chiaro che si consiglia di farlo e confidiamo nel fatto che chi scarica Immuni, è evidentemente propenso a fermare concretamente un eventuale contagio, con la consapevolezza del massimo rispetto dei suoi dati personali”.

In questi giorni tutto il Paese è concentrato sulla ripartenza, dopo i mesi estivi. C’è molta preoccupazione per la ripresa delle lezioni e si è acceso anche il dibattito sui trasporti. In particolare sui posti a sedere nei bus. Cosa può fare Immuni in questi contesti?
“Il discorso che si faceva sulla Sardegna vale ancora di più per i trasporti. Perché è davvero impensabile poter ricostruire la rete dei contatti su un bus in modo efficace e, soprattutto, allertando solo chi si è trovato a un raggio di un metro da una persona risultata positiva al test. Anche in questo caso, se scaricata da tutti, in maniera chirurgica e in totale anonimato, escluderebbe dalle notifiche le persone che non si sono incrociate con chi è contagiato. Con un vantaggio economico per tutti”.

Ci spiega perché?
“Quando sento parlare di 100mila tamponi, penso al fatto che vengono eseguiti seguendo un protocollo spesso basato sul ricordo delle singole persone. Nel dubbio, lo fai, per scongiurare eventuali complicazioni. In molti casi, però, si tratta di tamponi che si sarebbero potuti evitare, perché quella persona non ha mai corso rischi effettivi. Immuni lo avrebbe rilevato e avrebbe fatto risparmiare cifre importanti al nostro sistema sanitario nazionale. È ancora in grado di farlo”.

Per quanto riguarda le scuole, invece, in questi giorni lei ha suggerito di inserire l’app nei protocolli operativi. Si può fare?
“Lo può fare il Comitato tecnico-scientifico. Può essere un suggerimento. Credo che Immuni sia uno strumento adatto soprattutto in contesti come quelli delle scuole superiori o delle università. È il momento di spingere per aumentare i download. Se quegli oltre 5 milioni di smartphone diventassero 10 milioni, con un incremento soprattutto tra i ragazzi, saremmo sicuramente davanti a un cambiamento notevole nella prevenzione di nuovi contagi”.

L'articolo “Al Cts dico: è il momento di spingere l’app Immuni, far crescere i download tra i ragazzi che andranno a scuola. Risultati di prevenzione e risparmio” proviene da Il Fatto Quotidiano.



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di Alessandro Pontone

La ricetta vincente per battere il Covid-19? Semplice, collaborando. È quel succede in una partita a Pandemic (in italiano: Pandemia). Creato nel 2007 da Matt Leacock, il gioco da tavolo inizia a mietere riconoscimenti da subito e, nel 2009, si aggiudica il Golden Geek Award nella sezione Family Board Game (l’espansione On the Brick vince intanto il premio come migliore board game expansion). Nello stesso anno sale sul gradino più basso del podio al Deutscher Spiele Preis.

Tradotto (a partire dagli esordi) in una decina di lingue, nel 2013 Pandemic viene riedito con una grafica più accattivante e l’inserimento di nuovi personaggi. Gli ingredienti per il successo ci sono ancora, e nel 2015, con l’espansione Pandemic: Legacy (negli anni le espansioni raggiungeranno il numero di 15), viene premiato come il miglior gioco dell’anno dal sito boardgamegeek.com.

Il gioco

Pandemic è giocabile da 2 a 4 giocatori, ha una durata media per partita di circa 45 minuti e vede i partecipanti collaborare al fine di riuscire a debellare quattro pericolosissime malattie che minacciano il mondo. Ogni giocatore veste i panni di un membro dell’organizzazione antibatteriologica CDC (Centers for Disease Control and Prevention, con sede ad Atlanta), chiamata a debellare le epidemie che imperversano sull’intero pianeta cercando di arginarne la diffusione.

Sono le carte il vero motore del gioco. Ce ne sono tre mazzi.

Il primo mazzo è quello delle “carte personaggio”, che consentono di selezionare i panni da vestire per sconfiggere il virus (si può scegliere tra responsabile trasporti, Medico, Scienziato, Ricercatore ed Esperto delle Operazioni). Ogni personaggio ha un potere speciale, che va sfruttato e combinato al meglio con quello degli altri per la buona riuscita della missione.

Il secondo mazzo è quello delle “carte giocatore”, che si dividono in “carte città” e “carte epidemie”. Le prime rappresentano le principali risorse dei giocatori, sono gli strumenti per effettuare spostamenti più veloci e le chiavi per trovare le cure alle epidemie. Se si pesca una carta del secondo tipo vuol dire che nel mondo si stanno diffondendo mortali pandemie che, da questo momento in poi, attaccheranno l’umanità senza tregua.

Compongono il terzo mazzo le “carte del contagio”, che decidono quali città saranno focolai di diffusione epidemica. È un po’ come per il virus che, da Wuhan, si è propagato ovunque. Lasciare una città in balia dei contagi potrebbe farne un pericoloso focolaio, con tutte le ripercussioni che abbiamo visto nella realtà negli ultimi mesi. Un evento che, ripetuto un certo numero di volte, porterà inevitabilmente alla nostra sconfitta.

I giocatori dispongono di vari strumenti per evitare la fine del mondo. Tutti i personaggi hanno opzioni diverse per spostarsi da una città all’altra: possono guidare (o volare) da un certo punto fino a un punto adiacente, per esempio, o possono scartare carte città per spostarsi sul luogo prescelto. Le carte città, oltre a consentire gli spostamenti, sono anche un importante “ingrediente” per scoprire la cura. Spendendo un’azione in un centro di ricerca, e scartando cinque carte dello stesso colore, è possibile scoprire la cura per una determinata malattia liberando il pianeta.

La vittoria si raggiunge solo quando si riescono a debellare tutte e quattro le malattie di cui sopra prima che si sviluppino otto focolai. Se ciò accade la situazione è irreversibile (ma si perde anche per situazioni meno “romantiche”, come l’esaurimento delle carte del mazzo dei giocatori o dei “cubetti malattia” da piazzare sulla mappa).

In coda

Quali sono i segreti di un gioco quasi perfetto come Pandemic? Innanzitutto l’ambientazione, coerente e molto coinvolgente: lascia i giocatori in uno stato di ansia continua, degna di un film post-apocalittico. Attrattiva anche la componente cooperativa, perfettamente in linea con la situazione mondiale in corso, contribuisce per il resto un regolamento semplice e alla portata di tutti.

Una certa aleatorietà potrebbe far storcere il naso a quei giocatori che non amano molto vedere i propri piani mandati in fumo da una pescata sfortunata. In fondo, però, nessun piano prestabilito e nessun calcolo matematico possono fermare l’avanzata di una pandemia incalzante e implacabile, pronta ogni volta a mietere, cinica e indifferente, vittime su vittime.

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A due settimane dal rientro a scuola, si definiscono più nel dettaglio le strategie per fare lezione in sicurezza: distanze, mascherine, ingressi. E cosa fare nell’eventualità di un contagio. “In caso di una positività di un alunno – ha spiegato il viceministro della Salute Pierpaolo Sileri – la quarantena per la classe è un possibilità, ma si preferirà un tampone a tutti per un ritorno più veloce a scuola“.

Oggi anche Massimo Galli, responsabile di Malattie infettive dell’ospedale Sacco di Milano, è intervenuto sulla ripresa delle lezioni in un’intervista al Messaggero: “Mi pare sacrosanto: dobbiamo riaprire le scuole, non gli stadi“, ha detto, spiegando che la presenza di pubblico negli impianti sportivi potrebbe generare gli stessi effetti osservati nelle discoteche. Per quanto riguarda i tempi, ha aggiunto: “Non sarei stato scandalizzato e non lo avrei ritenuto un fallimento se le scuole avessero aperto solo il primo ottobre, In una situazione in cui tutto fosse stato sistemato a dovere”. Appena sette giorni dopo la prima campanella, infatti, le elezioni imporranno un nuovo stop. “Se devi aprire le scuole per poi chiuderle per le elezioni, le devi pulire e poi riaprire… Insomma, valeva la pena aspettare“.

Ma la sua preoccupazione maggiore, spiega, è garantire il distanziamento. “Bisognerebbe valutare sistemi alternativi, magari a rotazione fare lezione da remoto per un terzo degli scolari di una classe. Infine, avremmo bisogno di più test e presenza sanitaria nelle scuole”. Un altro nodo è la misurazione della febbre: “Farlo a casa mi lascia perplesso”. Poi c’è l’incognita influenza stagionale: “Avremo problemi quando cominceranno a esserci tutte le altre infezioni alle vie respiratorie, non mi è chiaro cosa succederà nelle varie regioni per il vaccino anti influenzale rivolto a bambini e ragazzi”. Quanto alla possibilità di fare più tamponi agli studenti, Galli spiega: “Noi stiamo studiando un sistema che velocizza i tempi: prelievo della saliva per gruppi, per classi, in modo da velocizzare i test. Se in una classe emergono tracce di coronavirus, allora si fanno i tamponi ai singoli studenti di quella classe. Si chiama pooling, ci stiamo lavorando”.

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GLB è l’ottavo modello della famiglia di compatte che condivide la piattaforma Mfa, con motori trasversali e trazione anteriore o 4matic. La lunghezza di questo modello è 463 cm, poco meno della sorella maggiore GLC. Qualcuno la definisce la Baby G, e su questo non siamo d’accordo. GLB ha la sua personalità e se proprio dobbiamo fare un paragone ci viene in mente la borsa di Mary Poppins: sembra piccola ma non lo è. Perché, ad esempio, può essere equipaggiata con tre file di sedili per sette persone, a patto naturalmente che gli ultimi due passeggeri abbiano una altezza non superiore a 1,68 m.

Le linee sembrano riprendere la sua antenata GLK, spigolosa, frontale imponente e fari incisivi. Le portiere che scendono a coprire i sottoporta offrono maggior comfort a chi sale a bordo (oltre a proteggere il vano porta dalla sporcizia) e aumentano la protezione in caso di impatto laterale.

Gli ingegneri di Stoccarda hanno lavorato molto per dare alla vettura un orientamento off-road, con sbalzi corti e protezioni per gli urti frontali e posteriori. Per gli appassionati è inoltre disponibile un pacchetto accessori dedicato: luci, programma di marcia aggiuntivo e nel display multimediale un’animazione della situazione di marcia, la rappresentazione realistica del grado di pendenza, dell’angolo d’inclinazione e delle impostazioni tecniche che aiutano nelle valutazioni di guida oltre al Downhill Speed Regulation (DSR), che può essere regolato per una velocità stabilita compresa tra i 2 e i 18 km/h.

A bordo, davanti al conducente trova posto la plancia con display widescreen, i comandi possono essere impartiti attraverso touch screen, volante, tavoletta posta davanti al tunnel centrale o vocalmente con la famosa formula magica “Ehi Mercedes!”, seguita dal nome del comando da attivare o dalle informazioni da richiedere. Il sistema Mercedes-Benz User Experience (MBUX) è sempre più interattivo e ora anche connesso con il programma “Mercedes me”. Tutte le grafiche degli strumenti possono essere personalizzate cosi come si possono scegliere le informazioni da tenere sotto controllo durante la guida.

Tessuti, materiali, disegni e accoppiamento dei componenti tradiscono una qualità fuori dall’ordinario. Bello da vedere, ma soprattutto funzionale anche con temperature estreme, l’impianto di climatizzazione: bocchette a centro plancia con sotto i relativi comandi i cui tasti sembrano ricavati per fresatura da un cilindro di alluminio. Bagagliaio capiente a (più che) sufficienza: da 565 a 1.800 litri reclinando i sedili.

Alla guida è divertente ed agile, la GLB 200 della prova era equipaggiata con motore quattro cilindri benzina da 1.332 cc capace di erogare 162 Cv e cambio 7G-DCT automatico (tutte le altre motorizzazioni montano l’8G-DCT). Convoncente il comportamento su strada e anche in off-road. Il mantenimento di corsia che agisce sui freni invece che sul volante è brusco. Questo dovrebbe consentire anche ai più distratti o ai “belli addormentati” al volante di riprendere in mano la situazione.

I consumi si sono assestati intorno ai 16 Km al litro. Sempre con l’alimentazione a benzina sono disponibili le versioni 250 4matic e AMG da 306 Cv; diesel con power unit da 1.951 e 116 Cv, 150 Cv (due o quattro ruote motrici) o 190 Cv quattro ruote motrici. Tutti i motori sono 4 cilindri. Cinque gli allestimenti: Executive, Business, Sport, Sport Plus, Premium. Prezzi a partire da 35.390 per la 180d a due ruote motrici.

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Come a ogni appuntamento alle urne, anche per il referendum sul taglio degli eletti è iniziata la guerra tra sondaggisti per prevederne l’esito. Per ora l’unica cosa certa è che il Sì è in vantaggio: secondo la rilevazione condotta da Demos & Pi per Repubblica, l’82% degli italiani è favorevole a ridurre i parlamentari. La direttrice di Euromedia research Alessandra Ghisleri, però, a La Stampa dà dei numeri diversi. In base ai suoi calcoli, il 42% è schierato per il Sì, mentre il No si ferma al 15,8%. Tutti gli altri, cioè quattro cittadini su dieci, non sanno ancora cosa votare.

In realtà, stando al grafico comparso sul quotidiano torinese, di questo 40% circa il 16,7% si dichiara indeciso, mentre il 24,5% intende astenersi. Se le previsioni di Ghisleri fossero confermate e così tanti italiani decidessero di non schierarsi, in termini di voti validi il risultato si tradurrebbe in una vittoria del Sì pari al 72,7% contro il 27,3% del No. “Una distanza importante”, spiega la sondaggista, “che mostra tuttavia nell’arco degli ultimi 6 mesi una flessione del Sì di quasi 10 punti percentuali”. Scenario che potrebbe cambiare ancora qualora quella fetta di indecisi decidesse di prendere una posizione netta.

Per quanto riguarda le intenzioni di voto degli italiani, invece, le differenze tra le rilevazioni degli istituti di statistica non sono così ampie. Anche per Euromedia research la Lega è al primo partito con il 25,2% di consensi (in forte calo rispetto alle Europee 2019), mentre si conferma l’ascesa di Fratelli d’Italia nel campo del centrodestra (14,3%) a discapito di Forza Italia (7,2%). Sul fronte del centrosinistra tiene il Partito democratico, dato al 20,4%, ma la novità più importante riguarda i partiti minori. Per la prima volta Azione di Carlo Calenda supera Italia viva di Matteo Renzi, con un 4,2% contro il 3,3% del partito dell’ex premier. Il Movimento 5 stelle è fermo al 15,3%.

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Un violento nubifragio e una grandinata, con grossi chicchi e lastre di ghiaccio, si sono abbattuti su Ancona nel primo pomeriggio di domenica 30 agosto. Pioggia, grandine e vento hanno spazzato le strade. La violenza della grandine, e anche la grandezza dei chicchi, ha danneggiato anche grondaie, tapparelle, carrozzerie e vetri di alcune auto in sosta. Con il temporale anche una serie ininterrotta di tuoni e fulmini. L’ondata di maltempo ha colpito anche buona parte del litorale marchigiano. Molti gli interventi dei vigili del fuoco per alberi caduti e allagamenti

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Il fiume Adige è esondato domenica 30 agosto a Egna, nella Bassa Atesina, a causa del maltempo che ha colpito la zona. I residenti di alcune strade del Comune sono stati evacuati e invitati a trovare riparo presso parenti. È stato anche messo a disposizione come alloggio d’emergenza la palestra della scuola media. L’autostrada A22 del Brennero è stata riaperta questa mattina presto al traffico nel tratto da Bolzano Sud a San Michele all’Adige

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Subito dopo il post gara nella riunione di redazione di F1Sport.it abbiamo voluto titolare il nostro consueto approfondimento di analisi sulla Ferrari, con il collega Francesco Svelto: Ferrari ha “sfondato” il fondo.

Sì, perché “toccato il fondo” sembrava poco, quasi troppo delicato, rispetto alle sensazioni di dolore e sofferenza sopportate dai tifosi della Rossa nel vedere una SF1000 così vergognosamente lenta.

Sorpassata da tutti, anche dall’Alfa Romeo di Kimi Raikkonen, dall’Alpha Tauri, battagliare per le retrovie con le Haas. Una qualifica da settima fila e zero punti in gara. Un’umiliazione tremenda. Ed ora si va a Monza e poi Mugello e con quali aspettative? Chi ci ha traghettato in questo situazione?

Magari si dovrebbe guardare a chi sceglie gli uomini, a chi decide le metodologie di lavoro o l’organizzazione. Chi forse l’anno scorso ha voluto “provarci” spingendosi nel campo motoristico oltre quel limite, non del tutto chiaro, per poi farsi bacchettare dalla Federazione e sprofondare nei bassi fondi della classifica? Ma il Team Principal ne ha di responsabilità o è sempre esente?

Certo, responsabilità ne hanno anche i vertici dell’azienda come il Presidente e l’Amministratore Delegato nel non prendere forse decisioni che quanto mai ora sarebbero opportune.

Vogliamo far progettare la vettura 2022 (quella della rivoluzione tecnica) a chi non ha saputo sviluppare il progetto quasi vincente del 2018? Perché nel 2019 lo sviluppo è stato il “motorone” poi scomparso. In questo 2020 lo sviluppo è stato negativo con la Ferrari unico team a girare con tempi più alti rispetto all’anno prima…

Vi lascio con una domanda: cosa altro deve succedere o si deve sopportare prima di vedere qualche testa rotolare?

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Gli studenti erano appena tornati a scuola per partecipare ai corsi del Programma operativo nazionale (“Pon”), un progetto promosso dal Ministero e finanziato dall’Europa, ma dopo pochi giorni l’istituto ha dovuto chiudere per un caso di Covid. È successo a Verbania, dove la dirigente dell’ISS Cobianchi, Vincenza Maselli, ha dovuto annunciare la sospensione delle attività didattiche “per consentire lo svolgimento di un intervento di sanificazione dei locali”.

Sul sito dell’istituto la preside ha spiegato che si è reso necessario l’intervento poiché “un utente, entrato recentemente in Istituto, è risultato positivo al virus Covid-19“. Quindi, aggiunge la dirigente, “la riapertura della scuola avverrà quando saranno terminati i lavori di sanificazione e si potrà così garantire l’accesso in totale sicurezza. Tale data verrà comunicata il prima possibile”.

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Una sagoma sbuca improvvisamente dalle tenebre. Alle sue spalle non c’è nessuno. Solo buio, silenzio e polvere. Per un momento gli spettatori sulle tribune davanti all’Arco di Costantino restano spaesati. Si aspettavano di vedere il sovietico Sergey Popov. Era lui che doveva vincere la maratona nei Giochi olimpici del 1960. E invece quella sagoma indossa una canottiera verde e degli aderentissimi pantaloncini rossi. Ma, soprattutto, non ha le scarpe. Le ha tolte venti minuti prima della partenza, perché quelle che aveva comprato gli avevano procurato delle vesciche ai piedi. Quel ragazzo con un gigantesco numero 11 appiccicato sul petto sembra pattinare sull’asfalto, sui sampietrini che gli grattano via la pelle. Abebe Bikila è a pochi metri dal traguardo in quella serata del 10 settembre. Il mondo non conosce ancora quell’etiope dal fisico asciutto. Prima di farlo partite per Roma l’imperatore etiope Hailé Selassié lo aveva squadrato e aveva domandato al suo seguito:”Ma come può vincere se è così magro?“.

Quando si iscrive alla maratona di Roma deve dichiarare il suo tempo migliore. L’etiope obbedisce ma gli organizzatori pensano che si tratti di uno scherzo. In patria ha un lavoro da soldato. È una delle guardie personali di Selassié. Abebe Bikila si sveglia alle 4 e corre per due ore. Poi si lava e va in caserma. Ogni santo giorno. Un campione costretto a restare un dilettante a vita. Ora è diverso. Perché mentre taglia il traguardo, mentre gli organizzatori si preparano a far volare le colombe bianche per annunciare al mondo il nuovo record di 2 ore e 15 minuti, tutti cominciano a prenderlo sul serio. Qualcuno si sporge dalle barriere per battergli le mani, uno prova addirittura ad abbracciarlo poco dopo la linea di arrivo. È la prima medaglia olimpica dell’Africa.

Un concetto che lo stesso Bikila tiene a sottolineare. “L’Italia ha avuto bisogno di un esercito di un milione di uomini per sconfiggere l’Etiopia, mentre un solo soldato etiope è stato in grado di conquistare Roma”, dirà dopo essere tornato ad Addis Abeba. Ma la maratona è una disciplina crudele. Quattro anni più tardi Abebe Bikila vince la maratona anche alle Olimpiadi di Tokyo. Selassié decide di regalargli un maggiolino bianco per ringraziarlo della gloria procurata alla nazione. Nel febbraio del 1967 il corridore scalzo dice di essere ancora il migliore. E che lo dimostrerà ai Giochi del ’68. Una promessa che non riuscirà a mantenere. Mentre guida sulle strade di Addis Abeba ha un incidente proprio con quel maggiolino bianco: lesione all’osso del collo. Abebe Bikila si salva ma non potrà più correre, neanche camminare. Nel 1972 partecipa alle paralimpiadi. Gareggia nel tiro con l’arco, l’importante è già essere lì. Sarà la sua ultima apparizione. Muore nel 1973 per un’emorragia cerebrale.

Durante i Giochi Roma le emozioni arrivano soprattutto dall’atletica. Il 3 settembre allo Stadio Olimpico si corrono i 200 metri. Il tartan arriverà solo qualche anno dopo, si corre sulla terra battuta. Livio Berruti ha appena 21 anni e sembra già spacciato in semifinale. La concorrenza degli specialisti americani è impossibile da battere. Così Livio si allaccia un paio di Adidas, inforca gli occhiali da sole e attende lo start. Nessuno riesce a stargli dietro, ferma il cronometro a 20’5. Ha appena eguagliato il record del mondo. Poco più tardi si corre la finale. Mentre gli altri si riscaldano lui se ne sta in disparte. Lo faceva anche quando era più piccolo, ai tempi delle giovanili. Ora studia per l’esame di chimica e si beve un’aranciata. Ma c’è qualcosa che non lo convince. Le tre righe sulle sue scarpe stonano con l’azzurro della canottiera. Così si infiala un paio di Valsport tutte bianche. Il risultato non cambia. Berruti fa 20’’5 anche in finale. È il primo uomo ad aver interrotto l’egemonia americana, è una leggenda in scarpe bianche.

Fra le donne Wilma Rudolph vince addirittura tre ori: nei cento, nei 200 e nella staffetta 4×100. Quella ragazza che aveva rischiato di non poter più camminare a causa della poliomielite ora era la regina dell’atletica. Tutti si accorgono di lei. Soprattutto Livio Berruti. E i due allacciano subito un legame stretto. Vengono fotografati mano nella mano, con le dita intrecciate. Un’immagine potentissima per l’epoca. Con lunghissimi sguardi si trasmettono tutto quello che le parole non riescono a esprimere. Ma Livio è timido. Ed è anche braccato dagli allenatori della spedizione statunitense. I due si scambiano un veloce bacio sulle labbra, poi qualcuno prende da parte Berruti. Gli americani gli spiegano che non può passare troppo tempo con Wilma. Perché c’è un giovane pugile che si è invaghito di lei ed è meglio non provocarlo. Quel giovane pugile si chiama Cassius Clay e a Roma vincerà l’oro nei pesi mediomassimi.

L’Italia può consolarsi con un altro successo storico. Il 5 settembre un ragazzo di 22 anni batte il sovietico Jurij Radonjak e diventa il campione olimpico dei welter e porta a casa anche la Coppa Val Barker, riconoscimento che premiava il pugile che aveva mostrato la tecnica migliore. La luminosa stella di Livio Benvenuti si è appena accesa. Quelle di Roma sono le ultime Olimpiadi romantiche, lontane dal professionismo esasperato degli anni successivi. Sono Giochi dove i campioni possono essere colti nel loro lato più umano, nella loro quotidianità, dove quello che succede lontano dalle gare, come Cassius Clay che beve una coca cola al bancone di un bar, diventa parte integrante della narrazione. Ma sono anche le Olimpiadi che verranno ricordate per il primo caso di doping. Mentre si corre la 100 chilometri a squadre, il ciclista danese Knud Enemark Jensen accusa un malore e cade a terra. L’impatto è così forte da rompergli il cranio. Poco dopo venne disposta l’autopsia. I medici dissero che si trattata di un’intossicazione dovuta all’assunzione di una serie di stimolanti, di farmaci vasodilatatori e di anfetamine. Il desiderio di vincere gli è stato fatale.

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“La comunità della scuola è risorsa decisiva per il futuro della comunità nazionale, veicolo insostituibile di socialità per i bambini e i ragazzi”. Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella torna a sottolineare l’importanza del sistema scolastico, e lo fa per celebrare il 150esimo anniversario della nascita di Maria Montessori, la scienziata e pedagogista che ha legato il suo nome a un metodo educativo adottato in tutto il mondo. Ricorrenza che arriva in un momento cruciale per la scuola, a due settimane dalla delicata riapertura dopo mesi di lezioni a distanza, mentre si discute di banchi, distanze, mascherine e scuolabus. “Comprendiamo ancor più l’importanza della scuola – sottolinea infatti il Capo dello Stato nel suo messaggio – dopo le chiusure imposte dalla pandemia. Esempi come quello di Maria Montessori esortano ad affrontare efficacemente le responsabilità di questo momento difficile”.

Nata a Chiaravalle, vicino ad Ancora, la Montessori fu la terza donna in Italia a prendere la laurea in Medicina: all’inizio del Novecento, cominciò a occuparsi dell’organizzazione degli asili: nel 1907 aprì la prima “Casa dei Bambini”, dove metteva in pratica le sue teorie educative. Nel 1909 le sue idee vengono raccolte in un volume, Il metodo della pedagogia scientifica, destinato a suscitare molto interesse anche oltreoceano, negli Stati Uniti. “La sua umanità, i suoi studi, la sua coraggiosa esperienza di educatrice, hanno impresso un segno profondo nelle scienze pedagogiche e indicato orizzonti nuovi per la scuola, a beneficio di milioni di giovani in ogni parte del mondo- ricorda Mattarella – Proprio negli anni più duri del Novecento Maria Montessori è riuscita a infrangere antichi pregiudizi, dimostrando la irragionevolezza di metodi di insegnamento basati sull’autoritarismo e contrastando pratiche di emarginazione ai danni di chi era sofferente o veniva considerato diverso, aprendo la strada a un percorso di crescita dei bambini basato sulla piena espressione della loro creatività, nella formazione responsabile alla socialità”.

Oggi nel mondo ci sono 22mila scuole Montessori tra nidi, materne, elementari, medie e superiori. Il suo “metodo”, afferma Mattarella, “ha varcato le frontiere e, nel suo nome, tantissime educatrici ed educatori, ragazze e ragazzi, hanno conferito alla scuola un valore di crescita nella conoscenza che, accanto al sapere letterario e scientifico, abbia lo sguardo rivolto allo sviluppo integrale della personalità degli alunni“. La Montessori si impegnò anche a favore all’emancipazione femminile: al Congresso Femminile di Berlino nel 1896, dove rappresentava l’Italia, pronunciò un famoso discorso sul diritto alla parità salariale tra donne e uomini, con oltre un secolo di anticipo sul tema del ‘gender pay gap’. Un aspetto ricordato anche da Mattarella, che definisce il suo percorso una “storia di libertà, di intelligenza, di creatività femminile”.

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Quest’anno più che mai “viva l’Italia” siamo noi, noi che abbiamo avuto la forza di ripartire. Viva l’Italia siete voi, clienti e amici che ci siete stati vicini in questi mesi… A voi va il nostro sentito grazie“. Le parole sono quelle apparse accanto a una foto posizionata nella vetrina di una erboristeria di Casalpusterlengo (Madre Natura), in provincia di Lodi. Il negozio è gestito dalla moglie e dalla suocera di Mattia Maestri, il “Paziente 1”, e insieme alle parole di rinascita e speranza compare una sua foto, bellissima, insieme alla moglie Valentina e alla figlia, nata poco dopo la fine del lungo periodo che Mattia ha trascorso in ospedale causa coronavirus. Si tratta del modo con il quale la famiglia Maestri ha deciso di partecipare a un concorso indetto a Casalpusterlengo per la festa patronale: “La miglior vetrina”. Un modo per la cittadina, duramente colpita dal covid, per provare a “rinascere”. Mattia Maestri è stato il primo paziente con Coronavirus diagnosticato in Lombardia nella notte tra il 20 e il 21 febbraio, primo caso “autoctono” in Italia oltre alla coppia di turisti cinesi che ricoverata per un lungo tempo allo Spallanzani di Roma. Quando lui è stato ricoverato, anche la moglie ha scoperto di essere positiva, per fortuna senza gravi sintomi: era incinta di otto mesi. Mattia è stata dimesso dopo un calvario durato diverse settimane, sua figlia è nata il 7 aprile.

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di Giuliano Checchi

Chiariamo subito, che questo post non vuole schierarsi per il “Sì” o per il “No”, né tanto meno convincere qualcuno (fatta salva la libertà di interpretazione). Questo post si propone di sgombrare il campo da un’idea completamente sbagliata che sta circolando da giorni. Non solo sui social, ma anche sulla stampa.

Spesso per bocca di persone, la cui provata competenza in materia, è un’aggravante del messaggio sbagliato che finiscono per trasmettere. Quale messaggio? Il fare della rappresentanza degli elettori, un fatto di aridi numeri. Il ridurre la democrazia rappresentativa, ad una specie di teorema matematico, secondo cui un rappresentante ogni 2000 elettori, rappresenta maggiormente di uno su 4000. E che quindi, togliendo 345 parlamentari, si toglie rappresentanza. E’ un errore madornale.

E’ un ridurre tutto al primo strato della superficie. Molto spesso in malafede. Malafede che porta, talvolta, a mettere sullo stesso piano gli organi elettivi con quelli che elettivi non sono; e che quindi, con la rappresentatività, nulla hanno a che fare. Come mischiare le ciliegie con i carciofi. Passi per chi non è esperto, ma chi lo è si dovrebbe solo vergognare. Che cosa significa “rappresentare”?

Significa avere un mandato da una comunità di persone, per agire a tutela e gestione di una serie di diritti ed interessi. E allora, i rappresentanti eletti, quali parametri dovrebbero rispettare, perché la loro rappresentanza sia efficace? Semplicemente quello di essere in numero più elevato possibile? Più rappresentanti ci sono, meglio è? Si riduce tutto a questo? Certamente no.

Perché, a parte il derivarne che nemmeno 2.000 parlamentari sarebbero sufficienti per la rappresentanza, passerebbero in secondo piano (se non in terzo o in quarto), i parametri veramente importanti per la democrazia rappresentativa; quelli sanciti nei principi costituzionali, e che vanno ben al di là di una mera cifra.

Parametri come essere scelti direttamente da un numero congruo di elettori (invece che dalle segreterie dei partiti); parametri come risiedere e conoscere bene il territorio in cui vengono eletti (invece che eleggere dei lombardi candidati in Calabria, o dei toscani candidati a Bolzano); parametri come garantire alle minoranze un’adeguata rappresentanza, fatti salvi naturalmente gli opportuni limiti per evitare un’eccessiva frammentazione.

Detto in termini brutali: sono più rappresentativi 945 parlamentari eletti con il sistema dei listini bloccati, o 600 parlamentari scelti con il vecchio sistema delle preferenze? Sono più rappresentativi 945 parlamentari eletti in Collegi non di residenza, o 600 parlamentari eletti nei territori di appartenenza? E’ il numero nudo e crudo che conta, o conta il parametro di rappresentanza alla base? A me la risposta pare scontata.

I parametri di rappresentanza, vengono stabiliti e fissati con le leggi elettorali. La cui approvazione, prevede un iter percorribile in tempi relativamente brevi. Se gli organi politici e di governo, davvero tengono alla democrazia rappresentativa, e non alla spartizione di poltrone, non hanno che da intervenire con una legge elettorale adeguata.

Cosa per la quale sono sempre in tempo; sia prima, che dopo il voto del referendum. Perché, tanti politici e costituzionalisti, non premono per questo? Perché preferiscono invece, far passare l’idea assurda che la democrazia rappresentativa non sia altro che un indicatore numerico?

Il blog Sostenitore ospita i post scritti dai lettori che hanno deciso di contribuire alla crescita de ilfattoquotidiano.it, sottoscrivendo l’abbonamento Sostenitore e diventando membri del Fatto social club. Tra i post inviati Peter Gomez e la redazione selezioneranno quelli ritenuti più interessanti. Questo blog nasce da un’idea dei lettori, continuate a renderlo il vostro spazio. Se vuoi partecipare sottoscrivi un abbonamento volontario. Potrai così anche seguire in diretta streaming la riunione di redazione, mandandoci in tempo reale suggerimenti, notizie e idee, sceglierai le inchieste che verranno realizzate dai nostri giornalisti e avrai accesso all’intero archivio cartaceo.

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L’autostrada è allagata a causa della pioggia e resta chiusa per un giorno, nonostante sia un’infrastruttura nuova di zecca. Tutta colpa dei terreni che si sono riempiti d’acqua e l’hanno lasciata tracimare sulla sottostante carreggiata. Nessuna responsabilità da parte del costruttore o della struttura tecnica della Regione Veneto che deve controllare la realizzazione della più importante opera stradale cantierata in Italia, la Pedemontana Veneta, del costo sulla carta di tre miliardi di euro, in realtà molto di più a causa del project financing. La tesi dello “scaricabarile” è sostenuta in un comunicato stampa diffuso dalla Regione Veneto in merito alla chiusura “in via precauzionale” della superstrada nel tratto compreso tra Malo e la A31 Valdastico. Si tratta di 5 chilometri, inaugurati alcuni mesi fa (su un totale, finora, di una dozzina di chilometri). Sono una piccola parte dell’intera opera di 94 chilometri, che ha visto la posa della prima pietra nove anni fa, nel novembre 2011, ma sufficienti per dimostrare l’esistenza di criticità, che già si aggiungono a quelle sospettate dalla magistratura.

Il movimento che si oppone alla Pedemontana ha avuto buon gioco a diffondere una nota poche ore dopo la chiusura. “Lo avevamo detto ed è capitato, il Mose della terraferma veneta, la Superstrada Pedemontana Veneta si è allagata. Il casello di Malo, aperto a giugno, è chiuso e non funziona. Il blocco era visibile dalla rotatoria di San Tomio di Malo che immette al casello. Risulta, inoltre, esondata la roggia Riale a Breganze che affluisce nel Laverda interessando anche qui la Pedemontana”. La causa? “Si è allagata una canna del tratto compreso tra A31 e casello di Malo. Dispiace avere ragione, ma le capacità tecniche dei salernitano-piemontesi sono quelle che dimostrano i fatti. A poco serve cercare giustificazioni, il nostro è un territorio di terra e acqua che ora ha dimostrato cosa può provocare la pioggia”. Il riferimento è alla Sis, la società che sta costruendo l’opera in quanto concessionaria. I comitati puntano il dito contro il governatore del Veneto, Luca Zaia, e il suo assessore Gianpaolo Bottacin: “Adesso li vedremo nell’ennesima puntata con la supercazzola dell’impegno per aiutare i veneti, arrampicandosi sugli specchi e prendendosela ‘con i segni dei tempi’. Invece, dovrebbero dichiarare anche l’emergenza Spv, perché col fischio, caro Luca, che riuscirai ad aprirla”. E spiegano: “Oltre ai due innesti su A27 e A4, al tunnel Malo-Castelgomberto, adesso mancano i tunnel artificiali di Malo A31, aperti a giugno”.

Che il nuovo tratto di autostrada si sia allagato è quantomeno inconsueto. Pronta la replica della Struttura di progetto della Regione Veneto. “La chiusura si è resa necessaria in quanto, a causa delle forti e violente precipitazioni, la sede stradale è stata invasa anche dall’acqua proveniente dai terreni ad essa adiacenti, estesamente inondati”. Ma le piogge non sono una variabile in sede di progetto? Risposta: “Sulla base degli studi idraulici effettuati in fase di progettazione, il dimensionamento del sistema di smaltimento idraulico è tarato al fine di allontanare le acque scolanti delle scarpate e della piattaforma stradale: la tracimazione dai campi alla strada dipende dall’inadeguatezza del sistema di raccolta delle acque piovane nelle ampie superfici coltivate a nord dell’infrastruttura”. La colpa è dei contadini? Non direttamente. “Questo conferma la necessità di provvedere con continuità ai lavori di manutenzione da parte dei Consorzi di Bonifica della rete di scolo, ma anche all’efficientamento e al ripristino del reticolo minore dei fossati”. Eppure si ammette che il problema era previsto. “La problematica era già stata tecnicamente sollevata e per questo sono in fase di studio delle soluzioni individuate nell’ambito dei ‘tavoli idraulici’ già attivati dalla Regione con i Consorzi interessati e con il Concessionario”.

Immagine d’archivio

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Bahey el-Din Hassan meriterebbe un premio internazionale per tutto quello che ha fatto in favore dei diritti umani, cui ha dedicato una vita intera, come ricorda chi lo conosce bene in questo articolo. Invece, alla “condanna” dell’esilio forzato, il 25 agosto la quinta sezione del tribunale antiterrorismo del Cairo ha aggiunto una condanna reale a 15 anni di carcere per accuse del tutto false di “offesa al potere giudiziario” e “diffusione di notizie false tramite i social media che possono mettere a rischio la sicurezza pubblica e il benessere pubblico”.

Le “notizie false” erano un paio di tweet sulle violazioni dei diritti umani in Egitto. La Procura speciale per la sicurezza dello stato ha aggiunto ai capi d’accusa anche dei post pubblicati su Facebook, su un profilo fake che non era quello di Hassan.

Direttore e cofondatore, nel 1993, dell’Istituto del Cairo per gli studi sui diritti umani, Hassan aveva lasciato l’Egitto nel 2014 dopo aver ricevuto minacce di morte. Una scelta dolorosa, che ha significato la separazione dalla madrepatria e soprattutto dalla famiglia.

Anche l’Istituto da lui fondato ha dovuto andare in esilio, trasferendo la sua sede dal Cairo a Tunisi. Ma la giustizia del presidente al-Sisi non si è accontentata di vedere l’ennesimo difensore dei diritti umani finire in quella che ormai è una diaspora globale di protagonisti della società civile egiziana.

Dopo il congelamento dei conti bancari e l’iscrizione nella black-list delle persone da arrestare se dovessero presentarsi agli Arrivi dell’aeroporto del Cairo, nel settembre 2019 Hassan era stato già condannato in absentia a tre anni di carcere e a una multa di 20.000 sterline egiziane (circa 1200 euro) per “offesa al potere giudiziario”.

Ancora una volta, dunque, le autorità egiziane hanno mostrato la loro spietata intolleranza nei confronti di chi esprime critiche e denuncia le violazioni dei diritti umani.

L'articolo Bahey el-Din Hassan: dopo l’esilio, 15 anni di carcere per il più noto difensore dei diritti umani in Egitto proviene da Il Fatto Quotidiano.



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Il 5 settembre saranno trascorsi dieci anni dall’omicidio di Angelo Vassallo, il sindaco pescatore di Pollica, Salerno. Questo triste anniversario rappresenta un momento di denuncia e di riflessione su una delle vicende più oscure che siano avvenute dopo la stagione delle stragi e dei delitti eccellenti di magistrati, giuristi, uomini delle forze dell’ordine.

Se ci pensate, per ogni delitto dai più efferati, commessi dalle diverse mafie o dai gruppi terroristici, anche quando per molto tempo non si sono scovati gli esecutori o i mandanti, sono sempre stati chiari i moventi, da quei moventi si è poi risaliti fino ai colpevoli.

Attraverso indagini che hanno considerato tanti elementi, indizi, informazioni di collaboratori di giustizia, anche quando come adesso non sussistevano i mezzi tecnologici che permettono di risalire ai movimenti delle persone in determinati ambiti anche a distanza di tempo.

Addirittura oggi vengono alla luce, a quarant’anni di distanza, elementi sulla strage alla stazione di Bologna, sul tema della corresponsabilità di terroristi neri, massonerie, servizi segreti e personale dello Stato. Nel caso dell’omicidio di Angelo Vassallo tutto ciò non accaduto, almeno finora: si sono aperte numerose piste, sono stati coinvolti nelle indagini trafficanti di droga, ufficiali dei carabinieri, si sono adombrate ragioni anche di carattere politico. Ma non si è giunti ancora ad incriminare nessuno.

Sul delitto di Angelo è calato un velo di impalpabile nebbia. Come se quella notte del 5 settembre sulla strada che porta a casa sua, si fosse materializzato un fantasma, un’entità imperscrutabile e indefinibile che ha esploso nove colpi di pistola – uditi benissimo a centinaia di metri di distanza – e poi fosse svanito nel nulla, da dove era venuto.

Nemmeno il più abile serial killer avrebbe potuto commettere quest’omicidio senza lasciare una minima traccia, senza un possibile complice, senza mai far trapelare un dettaglio, senza commettere un errore, senza confidarsi nemmeno in punto di morte – se è morto.

Se non fosse per l’impegno dei familiari e del vasto mondo di amici del sindaco pescatore, il delitto sembrerebbe non essere mai veramente avvenuto; come una storia che si perde nel mare di Acciaroli, tra i racconti dei pescatori che tornando a riva portano il pesce e le plastiche raccolte per merito di Angelo.

In effetti quella dell’oblio è la sensazione più forte. Eppure c’è chi non s’è rassegnato, in primo luogo i fratelli, soprattutto Dario e Massimo che hanno promosso instancabilmente – con la Fondazione Angelo Vassallo – iniziative in tutt’Italia, raccogliendo la solidarietà e il sostegno di centinaia di sindaci, presidenti di Regione, di parlamentari di ogni orientamento. Addirittura dell’ambasciata americana in Italia che ha premiato con un riconoscimento internazionale il progetto di pulizia dei fondali marini, divenuto poi legge nazionale, ed oggi pratica diffusa. Non hanno rinunciato Antonio e Giusy – i figli di Angelo – e la moglie Angelina, che ogni anno alla scadenza dell’anniversario, nella chiesa di Acciaroli, rinnovano il loro dolore e la denuncia allo Stato per la mancanza della verità.

Non hanno rinunciato alla verità gli amici del mondo di Angelo: tra gli altri, l’avvocato Gerardo Spira che fu segretario comunale di Angelo sindaco, Peppino Cilento sindaco di San Mauro Cilento, grande cooperatore e animatore culturale, Erminio Signorelli, ex sindaco prima di Angelo, Luciano Schiavo e Ariana di Rienzo che furono tra i migliori amici del sindaco pescatore, l’attuale sindaco di Pollica Stefano Pisani e la vicesindaco Carla Ripoli che lo fu anche di Angelo.

Potrei nominarne anche molti altri che ho conosciuto in questi anni, in cui abbiamo sviluppato un intenso rapporto tra Bologna e la comunità di Pollica. Questo è il mondo autentico di Angelo Vassallo, il Cilento laborioso, colto, onesto, che abita uno dei luoghi più incantevoli d’Italia.

Quest’anno forse con il problema Covid non si potranno svolgere tutte le iniziative che si celebrano nell’anniversario, certamente però Dario non farà mancare la sua voce, soprattutto con il suo recente secondo libro La verità negata, chi ha ucciso Angelo Vassallo il sindaco pescatore (ed. Paper First), scritto con Vincenzo Iurillo, giornalista del Fatto Quotidiano che ha seguito costantemente la vicenda.

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L'allarme per la piena del fiume Adige in Trentino è rientrato ed è stata riaperta l'Autobrennero nel tratto tra San Michele e Bolzano. L'evacuazione a Egna di circa 400 persone è stata sospesa, mentre restano chiuse la ferrovia e la statale del Brennero a nord di Bolzano. (LE FOTO DEL MALTEMPO)



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A Verona si attende il passaggio del fiume che ieri è esondato a Egna provocando la chiusura di un tratto dell’autostrada del Brennero, oggi riaperta. Nella città scaligera sono state installate delle paratie in zona Dogana, nel centro storico. Oggi allerta arancione in Veneto, Alto Adige e Lazio



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Tagliare l’orario di lavoro a parità di stipendio. L’idea non si può dire nuova, considerato che nel 1928 John Maynard Keynes profetizzava che entro un secolo la settimana lavorativa si sarebbe fermata a 15 ore. Ma ora quella suggestione – uno dei cavalli di battaglia di Pasquale Tridico già da quando era ministro del Lavoro in pectore di un potenziale governo monocolore M5s – è tornata alla ribalta come possibile chiave per la ripresa post Covid. Complici l’uscita della premier finlandese Sanna Marin – che ha rilanciato la proposta di ridurre le ore giornaliere da otto a sei ore – e soprattutto la proposta del potente sindacato metalmeccanico tedesco Ig Metall di arrivare a una settimana lavorativa di quattro giorni. Un’estensione dell’accordo per le 28 ore settimanali (su base volontaria) raggiunto due anni fa per il Land del Baden Württemberg.

Il ministro socialdemocratico del Lavoro, Hubertus Heil, ha già dato il suo via libera. Ma il dibattito è aperto anche in Gran Bretagna, dove un gruppo di deputati ha scritto al cancelliere dello Scacchiere (l’equivalente del nostro ministro del Tesoro) Rishi Sunak per chiedergli di considerare una settimana lavorativa di quattro giorni “in modo che l’occupazione sia ripartita in modo più equo”. Suggerimento identico a quello arrivato dalla premier neozelandese Jacinda Ardern, che ha chiesto alle aziende di prendere in considerazione l’ipotesi per dare una spinta al turismo interno e al tempo stesso migliorare la conciliazione vita-lavoro.

In Italia il progetto (per molti un’utopia) ha da tempo tra i principali sostenitori Domenico De Masi, professore emerito di Sociologia del lavoro alla Sapienza di Roma, secondo cui “lavorare meno” è la strada maestra per “lavorare tutti“. Lo scorso anno De Masi ha presentato con Nicola Fratoianni (Leu) una proposta di legge ad hoc, spiegando che con meno ore di lavoro la produttività ne avrebbe addirittura guadagnato. Come dimostrato – è la sua tesi – dal caso della Germania, in cui stando a dati Ocse il lavoratore medio lavora solo 1.386 ore l’anno contro le 1.718 dell’Italia. Ma anche in Francia (1.505 ore l’anno) e Gran Bretagna (1.538 ore) l’impegno richiesto ai dipendenti è più gravoso che nella Penisola. Ovviamente la differenza di produttività è influenzata da un insieme di fattori che va dalla dotazione infrastrutturale – collegamenti stradali ma anche infrastrutture tecnologiche – alla qualità della pubblica amministrazione. Resta il fatto che la suggestione di poter aumentare l’occupazione suddividendo tra più “teste” un dato monte orario ha un innegabile appeal, tanto più ora che la pandemia minaccia di lasciare dietro di sé più di 1 milione di disoccupati in più.

I rappresentanti dei lavoratori chiedono di affrontare il tema: “Sono mesi che la Uil chiede una riduzione dell’orario a parità di salario. In Germania e in Finlandia se ne discute concretamente e l’Unione europea studia seriamente l’ipotesi”, ha ricordato venerdì Pierpaolo Bombardieri, segretario generale della Uil. “La questione va affrontata e risolta contrattualmente dalle parti sociali. Un sostegno da parte dello Stato, facendo leva sulle risorse europee e attivando meccanismi di defiscalizzazione o di decontribuzione, potrebbe spianare la strada a questa soluzione”. Il governo a dire il vero si è già mosso in quella direzione con i provvedimenti per fronteggiare l’emergenza: il Fondo nuove competenze, creato presso l’Anpal dal decreto Rilancio e rifinanziato fino a 730 milioni di euro con il decreto Agosto, prevede che i contratti aziendali e territoriali possano prevedere una rimodulazione dell’orario senza decurtazioni di stipendio ma anche senza gravare sui bilanci aziendali. Si tratta infatti di “sostituire” una percentuale di ore con corsi di formazione, per i quali il dipendente viene pagato dallo Stato. L’obiettivo dichiarato dalla ministra Nunzia Catalfo è duplice: “Aumentare le occasioni di progressione professionale o di nuovo impiego, scongiurando così lo spettro della disoccupazione“.

Con la legge di Bilancio lo strumento potrebbe diventare strutturale ed essere collegato più direttamente alla creazione di nuovi posti, peraltro già promossa con la decontribuzione offerta a tutti i datori di lavoro al Sud. Tra le opzioni allo studio c’è quella di garantire un salario invariato utilizzando i prestiti del programma anti-disoccupazione Sure. Che però sulla carta devono servire per finanziare cassa integrazione e altri ammortizzatori necessari per garantire un paracadute a chi è stato costretto a fermarsi causa Covid e lockdown. Nelle prossime settimane, quando il lavoro sulla prossima manovra e sul Recovery plan italiano entrerà nel vivo, si capirà se il governo intende accelerare su questo fronte. Oltralpe, va detto, il dibattito si è orientato in tutt’altra direzione: per il presidente della Confindustria francese Geoffroy Roux de Bézieux occorre riflettere sulle 35 ore perché dalla crisi si esce solo lavorando di più. E Emmanuel Macron nei mesi scorsi si era detto d’accordo.

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“Se potessi raccontare tutte le battaglie fatte, qualsiasi eroe della mitologia greca a confronto sembrerebbe un novellino”. Giovanni Bellino ha 30 anni e si è laureato in Ingegneria Meccanica al Politecnico di Bari. “Sono affetto da distrofia muscolare di Duchenne, una malattia degenerativa che lentamente distrugge ogni muscolo del corpo. Eppure non voglio rinunciare ai miei sogni”, racconta. Tra questi, c’è la possibilità di progettare, realizzare e costruire dispositivi per migliorare la vita delle persone con disabilità. “Voglio aiutare chi è come me”, sorride.

La passione per l’ingegneria viene da lontano, fin da bambino. A 9 anni Giovanni smette di camminare, perché gli effetti della malattia si fanno più gravi. “I miei genitori avevano ricevuto e capito la diagnosi prima di me e con una forza sviluppata senza l’aiuto di nessuno, non si sono fatti sopraffare dal pietismo e mi hanno cresciuto come qualsiasi altro bambino, aiutandomi solo nelle cose necessarie e pretendendo che studiassi”, racconta.

Giovanni si iscrive all’istituto professionale con indirizzo grafico pubblicitario. “Certo, a livello istituzionale ho avuto qualche problema nell’assegnazione della persona che mi portasse in bagno – sorride –, ma nelle precedenti scuole ho avuto anche insegnanti che non sopportavano di avere studenti disabili o lamentele per aver costretto la mia classe a rimanere al piano terra. Quindi, alla fine, è stata una passeggiata”.

Poi, “con estrema incoscienza e sprezzo del pericolo”, Giovanni sceglie di iscriversi al corso in Ingegneria. Il primo, vero incubo, è stato l’esame di Analisi Matematica (“mi pareva di studiare una lingua aliena”). La tesi finale è sul funzionamento di una turbina wells per produrre energia dal moto ondoso. “Un lavoraccio pratico – sorride lui – ma piacevole, perché in linea con i miei interessi verso le tematiche ambientali”. Un traguardo possibile anche grazie a un tutor tutto speciale, Nicola, studente del Politecnico che ha accompagnato Giovanni in tutto il suo percorso accademico fin dal 2012. E che con lui ha iniziato un progetto di vita indipendente promosso dalla Regione Puglia: “Nicola si intratteneva a casa per permettere a mia madre di uscire anche solo per fare la spesa – ricorda Giovanni –. Ma soprattutto mi permetteva di uscire di casa con la libertà che ha una persona della mia età”.

Per Giovanni la possibilità di uscire rappresenta una grande conquista, che gli ha dato “più energia nell’affrontare la quotidianità” e che avrebbe voluto tanto provare prima, “se solo in Italia ci si prendesse veramente cura delle persone con disabilità”, spiega. Anche se la sua carrozzina è attrezzata come un’auto, per strada “ci sono troppe buche, per non parlare dei marciapiedi senza scivolo: tutto questo impedisce a tanti disabili di poter vivere come qualsiasi altro cittadino”.

Nei suoi tanti viaggi all’estero (“oltre 20 Paesi in Europa, una sorta di Erasmus tutto personale”) Giovanni ha inevitabilmente fatto i conti con problemi di accessibilità. Non è un caso se uno dei suoi progetti in cantiere è la realizzazione di una carrozzina da installare nella cabina passeggeri di un aereo: un sedile tampone per permettere a tutti di viaggiare serenamente. “Negli anni in cui si dice che l’uomo vuole andare su Marte, in nessun aereo di linea un disabile può viaggiare nella cabina passeggeri con la propria carrozzina”, sorride ironico.

Il presente viaggia tra presentazioni del suo libro (‘Le ali di una lumaca’), tra mostre fotografiche da lui curate e incontri con gli studenti della scuola media del suo paesino, Bitritto (Bari). L’emergenza coronavirus? “Io, ed altri come me, facciamo la quarantena già da diversi anni – risponde –. Eppure sono aumentate le possibilità di partecipare a videoconferenze, incontri, corsi in via telematica”.

Per il futuro, invece, Giovanni si dice pronto: “Nei prossimi anni? Mi aspetto delle sfide, non solo per le conseguenze a cui porta la distrofia muscolare se non si riesce a curarla o a trovare trattamenti efficaci per contrastarla”. Subito dopo la laurea Giovanni ha cominciato a mandare cv nelle aziende della sua provincia: “Per ora non ho ricevuto risposta, ma non mi dispero”. La sua intenzione nei prossimi mesi è quella di sostenere l’esame di abilitazione all’ordine degli ingegneri che “grazie al Covid sarà più accessibile”, così da mettersi in proprio, fare attività di consulenza e “realizzare un po’ di progetti che affollano la mia testa”. Se c’è una cosa, però, che Giovanni non riesce proprio a spiegarsi è “il mondo delle donne”: “Alla luce dei miei trent’anni – conclude l’intervista – ho capito che loro si lamentano di noi uomini a prescindere”.

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