settembre 2018

Mentre l’inquinamento atmosferico causato dai trasporti continua a crescere in Europa e Bruxelles indaga su Bmw, Daimler e Volkswagen con l’accusa di aver eluso investimenti in tecnologie pulite, il Parlamento di Strasburgo si prepara a esprimersi sul tema delle emissioni delle auto. Il voto, in programma per il 3 ottobre è considerato cruciale e dall’esito per nulla scontato: in ballo infatti non ci sono solo le politiche di mobilità, ma anche la qualità ambientale e il contrasto ai cambiamenti climatici che vedono le emissioni dei trasporti tra le cause principali, la salute dei cittadini (430mila ogni anno i decessi in Europa per l’aria inquinata), ma anche il futuro dell’industria automobilistica e la competitività delle economie europee.

Un testo ambizioso ma in bilico – Il testo che arriverà in aula il 3 ottobre è quello votato il 10 settembre dalla commissione Ambiente dell’Europarlamento, che ha rivisto al rialzo la debole proposta della Commissione Ue: obbligo per le case automobilistiche di ridurre le emissioni delle nuove auto del 20% entro il 2025 e del 45% entro il 2030 (contro il 30% proposto dall’esecutivo Juncker), con penali per quelle inadempienti. L’industria dovrà anche fare in modo che entro il 2030 il 40% delle vendite di veicoli sia rappresentata da auto a basse e zero emissioni. Entro il 2025 si dovrà raggiungere almeno il 20%. I parlamentari europei della commissione Ambiente hanno chiesto poi che dal 2023 siano operativi nuovi test per misurare le emissioni di Co2 in reali contesti di guida, e non in condizioni di laboratorio lontane da quelle delle strade. Alla Commissione si chiede anche entro la fine del 2019 di introdurre un sistema di etichettatura, che permetta ai consumatori di confrontare le auto in base a consumi e potenziale inquinante. Si prevede impegno anche sul fronte del ricollocamento e formazione di coloro che perderanno il lavoro in seguito alla transizione della mobilità, e supporto all’industria europea di batterie per le auto elettriche.

Conservatori contrari, incognita Lega – Se questo è il testo ambizioso licenziato dalla commissione Ambiente, in aula il pericolo di imboscate e agguati è altissimo, a partire proprio dagli obiettivi di riduzione della Co2. Mentre l’associazione europea dei produttori di veicoli (Acea) si batte per “target realistici”, si temono tentativi di annacquare il testo: “Ci sono spinte molto forti per riavvicinarlo al provvedimento iniziale della Commissione, o addirittura per portare gli obiettivi al di sotto dei livelli proposti dall’esecutivo di Bruxelles”, spiega a ilfattoquotidiano.it l’eurodeputata Eleonora Evi (M5s), relatrice ombra del testo. A rischio anche la misura che prevede penali per le case automobilistiche che non si adeguano ai target, così come quella che introduce test per misurare la Co2 emessa in condizioni di guida reali. “La spinta più forte arriva dai gruppi popolari, conservatori e liberali, prevalentemente dell’Est Europa, ma anche tedeschi. I socialdemocratici dovrebbero votare a favore a supporto della relatrice della legge Miriam Dalli, iscritta allo stesso gruppo”. E la Lega? “In commissione Ambiente non siedono suoi rappresentanti, ma ci auguriamo voti a favore, non fosse altro per gli impegni sul fronte della mobilità elettrica presi nel contratto di governo a livello italiano”.

Gli ambientalisti scrivono agli eurodeputati – Le maggiori associazioni ambientaliste hanno inviato agli europarlamentari italiani una lettera in cui si chiede di sostenere il testo votato in commissione Ambiente, resistendo alle lobby dell’industria automobilistica ed evitando negoziazioni al ribasso. “Vogliamo auto a zero emissioni sulle nostre strade! Questo è ciò che tutti insieme stiamo chiedendo ai nostri rappresentanti al Parlamento europeo. Ne beneficeranno il clima, la società, l’economia italiana e soprattutto la salute e la qualità della vita di tutti. Una transizione che non possiamo più rimandare. I tempi sono tecnologicamente maturi, la domanda fortemente presente. I politici facciano ora la loro parte”, sintetizza Veronica Aneris, rappresentante nazionale della federazione europea Transport&Environment (T&E).

Meno emissioni, meno morti, più competitività – Nell’ambito dell’accordo di Parigi per il clima, per mantenere il riscaldamento globale entro i 2 gradi l’Europa si è impegnata a ridurre le proprie emissioni almeno del 40% entro il 2030, ma senza una forte spinta sul fronte dei trasporti, sarà difficile realizzare l’obiettivo: “Se l’Europa intende onorare gli impegni, la vendita di auto a benzina, a gasolio e delle ibride convenzionali dovrà finire entro il 2028”, aggiungono da Greenpeace. Puntare su auto a zero emissioni consentirebbe anche di diminuire morti (1.400 decessi in meno solo in Italia nel 2050 secondo un recente studio realizzato da T&E con altre organizzazioni) e malattie (2mila casi di cancro ai polmoni e quasi 13mila di bronchite cronica evitati nel nostro Paese al 2050) grazie a un forte miglioramento della qualità dell’aria. Ma il voto del 3 ottobre, evidenzia la lettera degli ambientalisti agli eurodeputati, avrebbe anche un grande valore economico per l’Europa, la cui posizione di leadership dell’industria automobilistica è meno al sicuro rispetto al passato per l’offensiva ecologica della Cina: quest’ultima, che “ha già introdotto target obbligatori per la vendita di veicoli a zero emissioni, domina la scena dell’elettromobilità. Le principali case automobilistiche europee hanno assicurato alla Cina 21 miliardi di euro di investimenti in auto elettriche, sette volte di più di quanto hanno investito a casa loro, qui, in Europa”.

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“Un efficace aiuto ai cittadini in difficoltà“, dice il contratto di governo. Sarà riservata a “gente onesta che non poteva pagare“, ripete Luigi Di Maio. Gente “disperata”, precisa Matteo Salvini. “Milioni di italiani che hanno fatto la dichiarazione dei redditi e poi non sono riusciti a versare tutto il dovuto”. I confini della pace fiscale che l’esecutivo inserirà nell’annunciato decreto collegato alla manovra sono ancora in via di definizione, ma Lega e M5s insistono sul fatto che sarà riservata a chi non è riuscito a saldare i conti con l’erario perché non ne aveva la possibilità economica. Il problema è che l’Agenzia delle Entrate e il braccio della riscossione (ex Equitalia) ad oggi non hanno incrociato i dati del loro magazzino crediti con le informazioni su flussi e saldi dei conti correnti e conti deposito degli italiani. In questo momento quindi l’Erario non è in grado di dire quale percentuale dei 448,9 miliardi di euro ritenuti ancora aggredibili sia dovuta da “disperati” e quanta parte, invece, da contribuenti che potrebbero pagare. E solo lo scorso 31 agosto, poco prima di lasciare l’incarico e a sei anni e mezzo dalla legge che la prevedeva, il direttore uscente Ernesto Maria Ruffini ha dato avvio alla “sperimentazione della procedura di analisi del rischio di evasione” basata proprio sul confronto tra dichiarazioni e accrediti sui conti.

Su 364,7 miliardi di crediti il recupero è fallito – I crediti affidati all’ex Equitalia dal 2000 al 2017 ammontano a 871 miliardi di euro costituiti per l’81% da tasse non pagate. Il 41% di quel magazzino è però ritenuto irrecuperabile perché dovuto da soggetti falliti o morti, imprese chiuse, nullatenenti. Per altri 48 miliardi la riscossione è sospesa su richiesta degli enti creditori o dell’autorità giudiziaria oppure perché i debitori hanno aderito alla rottamazione delle cartelle. E 13,7 miliardi sono stati rateizzati. Restano, appunto, 448,9 miliardi. Di cui 364,7 su cui sono già state tentate senza successo azioni di recupero e 84,2 miliardi per i quali non è stato possibile avviarle a causa di norme a favore del debitore come l’impignorabilità della prima casa. Il fisco, insomma, conosce bene quei contribuenti e ha già provato a riscuotere. Ma, confermano Entrate e Riscossione a ilfattoquotidiano.it, non è in grado di dire se il debitore non paga perché non può o perché non vuole. I ruoli, infatti, non sono stati incrociati con l’Archivio dei rapporti finanziari che contiene i dati su decine di milioni di depositi, conti correnti e gestioni patrimoniali trasmessi da banche, Poste, intermediari finanziari, società di gestione del risparmio e assicurazioni. Ormai se ne parlerà quando il governo avrà stabilito i paletti da rispettare per accedere alla pace fiscale, compresi gli indicatori per valutare la “difficoltà economica”.

Diciotto anni per creare l’Anagrafe dei conti – Giusto un anno fa la Corte dei Conti aveva richiamato l’Agenzia delle Entrate per la mancata attuazione di “un chiaro disposto normativo” che prevedeva appunto la preparazione di liste selettive di contribuenti a maggior rischio di evasione da sottoporre a controlli attraverso, appunto, il tanto invocato incrocio delle banche dati. “A distanza di oltre cinque anni dall’obbligo di elaborare liste selettive, nessun contribuente è stato selezionato attraverso lo strumento dell’Archivio dei rapporti finanziari quale soggetto a maggior rischio di evasione, né è stata ancora avviata la fase sperimentale, sicché non v’è dubbio che la norma sia stata totalmente disattesa dall’Agenzia”, scriveva la magistratura contabile, concludendo che “non è mai stato utilizzato, né pare sia imminente, un utilizzo massivo dell’ingente mole di dati presenti nell’Anagrafe relativa alle disponibilità finanziarie“.
Del resto la storia dei controlli anti evasione è costellata di ritardi, imputabili ai vari esecutivi più che alle agenzie fiscali che sono al servizio del ministero dell’Economia. A stabilire la creazione di una “Anagrafe dei rapporti di conto e di deposito” fu il settimo governo Andreotti, nel 1991. Ma perché il decreto attuativo vedesse la luce ci sono voluti quasi dieci anni. E prima che un Archivio ad hoc venisse creato presso il Tesoro ne sono passati altri sei. Solo nel 2009 l’Anagrafe, che include l’archivio, è diventata operativa.

E l’analisi del rischio evasione parte solo adesso – Nel 2011, poi, il decreto Salva Italia di Monti per rafforzare l’Anagrafe dei conti ha disposto che banche e intermediari dovessero comunicare anche le movimentazioni dei conti correnti e di deposito non solo i dati identificativi dei titolari (di per sé, evidentemente, non molto utili per individuare i potenziali evasori). E l’Agenzia è stata incaricata di stabilire i criteri per elaborare le liste dei contribuenti “a rischio” a causa della discrepanza tra le consistenze e movimentazioni dei loro conti e le dichiarazioni dei redditi. Ma il provvedimento del direttore dell’Agenzia non è mai stato emanato. Fino allo scorso 31 agosto, quando sul sito delle Entrate sono comparse le disposizioni di Ruffini – che il nuovo governo ha sostituito con il generale della Gdf Antonino Maggiore – per il primo test della procedura di analisi del rischio. La sperimentazione partirà dalle società di persone e di capitali che per il 2016 hanno omesso la dichiarazione o ne hanno presentata una irrilevante nonostante sui loro conti correnti ci siano stati accrediti. Le aziende che corrispondono all’identikit verranno segnalate alle direzioni provinciali delle Entrate che valuteranno se sottoporle a controlli. Una trafila che richiederà molti mesi e certo non si concluderà in tempo per fornire informazioni utili per la messa a punto della pace fiscale.

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“Voglio riappropriarmi della mia vita, tornare a X Factor”. Perché “non ho fatto nulla di ciò di cui vengo accusata” e “i miei figli sono fieri di me” e “l’Italia mi vuole”. Dopo le accuse di Jimmy Bennett, Asia Argento si difende sempre davanti a Massimo Giletti. Durante la trasmissione Non è l’Arena, l’attrice ha risposto al presunto stupro denunciato dal cantante americano ed è scoppiata in lacrime al termine della puntata del programma di La7.

Asia Argento ha confessato di essere stata particolarmente colpita “di essere stata chiamata pedofila, uno stigma, non so nemmeno come riesco a stare in piedi, dovrei stare bocconi”. Poi ha parlato della sofferenza dei suoi figli e spiega che “per evitare il bullismo ho mandato mio figlio a vivere negli Stati Uniti con il padre”. Ascoltare Jimmy Bennett, una settimana fa nello stesso studio, ha spiegato la giudice di X Factor “mi ha fatto arrabbiare un po’” ma soprattutto “mi ha fatto pena vedere i suoi occhi vitrei, non c’era espressione sul suo volto, mi ha ricordato il bambino che ho conosciuto e non ha proseguito carriera. Un’anima persa, insomma”.

“Per me era come un figlio perduto. ‘Verrò a Los Angeles’, mi disse, mi chiese di studiare un copione come ai vecchi tempi ma lui arriva e non l’aveva neanche portata”, ha ricostruito Asia Argento secondo le anticipazioni di Repubblica. “Non sapevo che fosse minorenne, pensavo fosse diciottenne perché me lo aveva anche detto – ha aggiunto ripercorrendo la notte della presunta violenza – Non è vero ci fosse un accompagnatore, è salito da solo e aveva anche sbagliato ascensore, lo vedo ed è entrato un uomo, ecco perché gli ho preso il viso sì quello è vero, perché aveva la barba, non lo riconoscevo”.

“Aveva sguardo vitreo, come tanti ragazzi che dopo i 13 anni non lavorano più, problemi con i genitori, li ha anche denunciati, mi ha messo tristezza. Gli ho proposto un piccolo ruolo per fare un ruolo in un film indipendente è lì che si illuminò e ci abbracciammo: lui, con ormoni da ragazzo, è impazzito”, ha aggiunto ridendo. “È difficile raccontare, rido ma è anche una cosa traumatica. Questo mi ha congelata, mi è saltato addosso mi ha messo di traverso sul letto, ha fatto quello che doveva fare senza preservativo – ha raccontato – Sarà durata due minuti… come un coniglio… io gli ho detto come ti è venuta questa cosa, ‘eri il mio sogno’, e si è fatto questo selfie”, divenuto famoso dopo la denuncia. “Io non ho reagito perché era impensabile – ha concluso – tutto pensavo tranne che questa cosa”.

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Malgrado tutto, abbiamo bisogno sia di un’opposizione che di una piazza. Malgrado oggi dal palco a protestare contro la cosiddetta deriva “populista” fossero i suoi legittimi dante causa. Malgrado il capitale politico bruciato in un ventennio, la reputazione finita negli abissi, la stima e la fiducia annullate da stili di vita (e di governo) che hanno provocato il più terribile dei paradossi: un partito erede della sinistra classica che vede fiorire, con le sue politiche, milioni di nuovi poveri e che perde il senso della propria ragione sociale.

Un’opposizione vigile, non cialtronesca né demagoga, sceglie le strade proprie per far sentire la sua voce: il Parlamento e anche la piazza. Attiva il confronto, difende così la democrazia e aiuta anche la maggioranza di governo a contenersi. Oggi è stata la volta del Pd, che è divenuto un pezzetto di un mondo, di un popolo senza più cittadinanza, ma che resta l’unico in grado di mobilitare passioni e speranze. Il centrodestra sta naturalmente in silenzio, aspetta che Matteo Salvini lo conduca al governo e presto, alle prossime regionali, verificheremo come tutto andrà secondo tradizione.

E chi mai, se non la sinistra, potrà dire che è vergognoso rispondere al presidente della Repubblica con un “me ne frego dell’Europa”? Chi, se non la sinistra, potrà rammentare agli italiani che il me ne frego ha un solo padre, Benito Mussolini? Chi, se non la sinistra, potrà ricordare a Di Maio che correre al balcone di palazzo Chigi per esultare per la vittoria conquistata con la manovra di bilancio, ha le stimmate del peronismo argentino, di un populismo da quattro soldi, è deriva da reality show?

Chi, se non la sinistra, può denunciare il regalo contenuto nel cosiddetto provvedimento della “pace fiscale”, agli evasori, i furbi, coloro che prendono e mai danno. Il provvedimento più ingiusto, l’offesa più grande al principio di eguaglianza, il solito favore ai soliti noti. Ma chi, se non la sinistra, deve considerare necessario aiutare le fasce più deboli, i poveri e i poverissimi, attraverso un sussidio universale? Perché considerare un lusso evitare che migliaia di famiglie vadano incontro alla fame? E se si ha fame come si fa, cosa si fa?

E sempre la sinistra deve registrare come giusto, possibile, opportuno, detassare coloro, per lo più giovani, privati di una serie di benefit sociali, obbligati, attraverso il sistema della partita Iva, a lavorare il doppio per guadagnare meno della metà degli altri. E la sinistra deve anche considerare che esistono lavori che non sono sopportabili oltre un limite d’età. Non tutti i lavori, ma tanti sì.

Ed è sempre la sinistra che può far capire che il vero reddito di cittadinanza si avrà se si sceglierà la strada degli investimenti per tenere in piedi l’Italia: strade, ponti, ferrovie, manutenzione straordinaria delle periferie e dei centri storici, tutela della terra, dell’assetto idrogeologico. E poi il sapere: scuola, cultura, aumento delle borse di studio e di ricerca, allungamento del tempo pieno. Questa è la crescita. Un’opposizione che veda il giusto, che spinga sul necessario e denunci l’ingiusto, l’improbabile e anche l’azzardo. Un’opposizione ci vuole, e anche una piazza.

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Un’opposizione dura e forte per contrastare il governo M5s-Lega. Con questo obiettivo il Pd è sceso in Piazza a Roma. Ma per politiche alternative da proporre servono anche uomini e donne pronte a candidasi alla segreteria dem e a pochi mesi dal congresso in campo c’è solo Nicola Zingaretti, che arrivando in Piazza del Popolo chiarisce: “Una delle grandi novità che dobbiamo introdurre è smetterla per quanto mi riguarda di andare in tv o sui giornali a parlar male dei nostri colleghi. C’è bisogno di un nuova nuova era, che richiede uno spirito nuovo. Dobbiamo organizzarci, perché senza un PD forte l’Italia rischia di cadere nel declino, ma il PD deve cambiare e rinnovarsi”. La piazza del chiede unità ed accoglie calorosamente Carlo Calenda, ma lui si schernisce: “Io leader? No, semplice militante che non è stato in grado neppure di organizzare una cena, la prossima volta organizzerò un barbecue” ironizza l’ex Ministro dello Sviluppo Economico.

Intanto ospite di una diretta tv nel retro palco di Piazza del Popolo in staffetta con Zingaretti, Graziano Delrio ribadisce che lui nella partita per il Congresso, nonostante il pressing di Renzi, non ci sarà: “Sapete già la risposta, no, non mi candido”. E Matteo Renzi, che si ferma con i giornalisti nel retro placo, prima dell’intervento di Maurizio Martina, dapprima risponde sulle polemiche del manifesto che l’ex segretario ha firmato assieme a Macron, Muscat Rivera e Guy Verhofstadt contro la ‘minaccia sovranità’: “Dall’altra parte c’è la Le Pen, Orban e Salvini, contro questa destra credo importante tenere tutti insieme da Tsipras a Macron” e poi sulla mancanza di un candidato renziano, preferisce polemizzare: “Chi è venuto a vedermi alle feste dell’Unità ha visto che era pieno, dentro il Pd sono semplice chi vince deve avere il sostegno anche di chi ha perso”. Ma il suo candidato, con il senatore che non correrà, ancora manca

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C’era un altro giunto rotto sui binari della rete ferroviaria lombarda. La scoperta è stata fatta da un macchinista che, a bordo di un convoglio di Trenord, ha notato l’anomalia venerdì sera all’altezza della stazione di Carnate. Il ferroviere ha notato la presenza di un giunto disallineato con l’asse ferroviario, un guasto simile a quello che ha provocato il 25 gennaio la morte di tre persone a Pioltello. Il treno a quel punto ha continuato la sua marcia a passo d’uomo e il macchinista ha poi segnalato quanto accaduto, evitando così qualsiasi possibilità di incidente. La notizia è stata anticipata da Repubblica e Corriere.

La circolazione ferroviaria è stata interrotta, i tecnici di Rfi hanno riparato il giunto e la Polfer avviato un’ispezione con i risultati che andranno alla Procura di Monza, competente territorialmente, ma anche ai pm milanesi titolari dell’indagine sull’incidente di Pioltello, nel cui fascicolo entra ora anche questo episodio sulla tratta tra Carnate Usmate e Arcore.

Rete Ferroviaria Italiana ha comunicato di aver già avviato un’inchiesta interna per verificare “se le azioni delle squadre manutentive sono state conformi alle procedure previste”. Il tratto di rotaia, spiega Rfi, era “già oggetto di attenzione da parte delle squadre tecniche, che lo avevano messo sotto osservazione, ritenendo comunque non necessaria la sua sostituzione nell’immediato”.

La nota ricorda che “sono state avviate a fine 2014 e nel corso del 2015, da parte di Rete Ferroviaria Italiana (Gruppo FS Italiane), l’omologazione e quindi l’installazione di innovativi (unici a livello mondiale) Dispositivi Controllo Giunto Meccanico (DCGM), nonché di tre traverse speciali per giunti isolanti incollati, nell’ambito degli interventi di potenziamento e adeguamento tecnologico della rete ferroviaria nazionale”.

L’immagine in evidenza si riferisce al giunto al centro dell’inchiesta per l’incidente di Pioltello

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Si fermano a 13 secondi, con la quinta posizione di Gianni Moscon, le speranze italiane di interrompere un digiuno iridato che dura ormai da un decennio. Il titolo mondiale di ciclismo va al 38enne spagnolo Alejandro Valverde che sulle salite austriache di Innsbruck corona una carriera da campione con il suo successo più prestigioso. Valverde ha battuto nella ristretta volata finale il francese Romain Bardet e il canadese Michael Woods, la vera sorpresa di questo mondiale, oltre all’olandese Tom Dumoulin. Poi sul traguardo è arrivato anche Moscon, l’ultimo a cedere sulla terribile rampa di Gramartboden con punte del 28%: due colpi di pedale in più e il 24enne trentino si sarebbe potuto giocare la vittoria insieme agli altri quattro.

I 258 km del percorso di Innsbruck, da molti considerato uno dei più duri della storia, con un circuito che per sette volte ha visto i ciclisti affrontare i 7.9 km al 5,7% di pendenza media del monte Igls, hanno rispettato le aspettative. E’ stata una gara ad eliminazione, in cui ha resistito chi aveva più benzina nelle gambe. Non era il caso di Vincenzo Nibali, ancora troppo lontano da una condizione eccellente dopo la caduta sull’Alpe d’Huez al Tour de France e la conseguente frattura vertebrale.

Oltre al 33enne messinese, in molti hanno alzato bandiera bianca, dai gemelli Yates al grande favorito, il francese Julian Alaphilippe, mancato proprio sul muro finale in cui avrebbe dovuto fare la differenza. La corsa perfetta l’ha fatta invece la Spagna e il suo capitano Valverde, rimasto coperto fino al momento decisivo e poi abile a tenere il ritmo di Woods nei 2,8 km all’11% di media. Una volta arrivato a Innsbruck in compagnia di tre corridori, il 38enne sapeva che gli sarebbe bastata la solita zampata sul traguardo per indossare la maglia iridata. L’Italia alla fine esce con le ossa rotte, per una gara condotta da protagonista, con grandi sforzi e abnegazione, senza però poi finalizzare nelle due ascese più importanti, le ultime. Con Nibali non in gran forma, forse era più opportuno restare nascosti. Il mondiale di Innsbruck regala però al ct Davide Cassani e agli azzurri la consacrazione del giovane Moscon. Dopo la squalifica al mondiale dello scorso anno e l’espulsione dal Tour de France 2018, il 24enne trentino si è ritrovato in questo mese con due successi e ha dimostrato sulle strade austriache di avere i numeri del campione. Una buona notizia per il futuro, a 10 anni dall’ultima vittoria italiana di Ballan nel 2008.

L’avvicinamento alle fasi salienti della corsa iridata viene caratterizzato dalla più classica delle fughe bidone, composta inizialmente da ciclisti di dieci diverse nazionalità, nessuna con velleità di vittoria finale. Dietro l’Italia rimane copertissima. Il ct Cassani lo aveva detto: “Non tireremo un metro. Dovremo farci trovare pronti per le fughe”. Quelle decisive però non partiranno mai. Il primo colpo di scena, ancora a 90 km dall’arrivo, è la resa di Peter Sagan: per il tre volte iridato un percorso troppo duro. A mietere le altre vittime illustri, metro dopo metro di salita, dal britannico Simon Yates al polacco Michał Kwiatkowski, è proprio la tattica dell’Italia, attiva con i suoi scudieri, da Caruso e Cataldo a De Marchi e Brambilla, nel rintuzzare il ritmo a suon di scatti. Quel grande “centrocampo”, così lo ha definito Davide Cassani, da utilizzare per prepare al meglio la strada a Nibali e Moscon.

L’ultima ascesa a Igls, la settima, comincia con ancora 28 km da percorrere e due soli superstiti della fuga iniziale: il norvegese Stake Laengen ed il danese Asgreen. E sono di nuovo gli azzurri a sollecitare l’andatura, questa volta in blocco. Il forcing vero lo fa però Steven Kruijswijk e tra quelli che saltano c’è anche Nibali: per l’Italia diventa un autogol. Allo scollinamento, è già chiaro che l’unico azzurro rimasto con delle chance da giocare è Moscon, seppur accompagnato da De Marchi e Pozzovivo. Il danese Valgren è il primo ad affrontare il muro che porta a Gramartboden: 2,8 km all’11,5% di pendenza media e con una punta del 28% dove si decide il Mondiale. Comincia l’”inferno”, così lo chiamano dalle parti di Innsbruck, e sulle rampe restano solo in quattro: Bardet, Moscon, Woods e Valverde. L’italiano cede nel tratto più duro e quando cominciano gli ultimo 8 km di picchiata verso il traguardo, in sua compagnia arriva l’olandese Tom Dumoulin, che però lo saluta e vola alla caccia dei primi tre. E’ questo il momento in cui Moscon perde anche le ultime chance di salire sul podio. La volata ha poi l’epilogo noto: Valverde trionfa davanti a Bardet, Woods e il beffato Dumoulin.

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Migliaia di persone, con magliette, sciarpe e indumenti di colore rosso, sono arrivate in piazza Duomo a Milano per dire “basta al razzismo e all’intolleranza”, e ribadire i valori dell’accoglienza e dell’antifascismo, nel corso della manifestazione dal titolo ‘Intolleranza zero. Un segno rosso contro il razzismo‘, promossa da Anpi, Aned, I Sentinelli di Milano. “In questo riaffacciarsi di pulsioni razziste e xenofobe il ministro Salvini, che ha fatto proprio lo slogan di Casa Pound, ‘Prima gli italiani’, si vanta di avere ridotto le domande per il diritto d’asilo previsto nella nostra Costituzione – ha detto il presidente di Anpi Milano, Roberto Cenati -. Mentre nel decreto sicurezza il governo, a trazione salviniana, pone ulteriori restrizioni sulla protezione umanitaria”. Da ministro dell’Interno “dovrebbe preoccuparsi – ha concluso – di combattere chi minaccia veramente la nostra sicurezza, come le mafie”. La senatrice a vita Liliana Segre ha inviato un messaggio che è stato letto dal palco. Nell’ottantesimo anniversario dalla promulgazione delle leggi razziali “sento diffusi segnali di rinascita di correnti razziste e xenofobe, quando non apertamente naziste e neofasciste e questo per me è motivo di sconforto – ha scritto la senatrice a vita, sopravvissuta ai campi di sterminio -. Oggi sono idealmente con voi per chiedere intolleranza zero”. Dal palco è poi partita la canzone Bella Ciao, intonata da tutta la piazza.

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Il decimo anniversario, qualunque occasione sia, è sempre un traguardo importante. E lo è anche per DeAKids, che lunedì 1 ottobre festeggia dieci anni dalla nascita: il canale del Gruppo De Agostini Editore (visibile al canale 601 di Sky) è leader tra i ragazzi dai 4 ai 14 anni con una programmazione ormai consolidata, con cult come Kaleoo e Oggi e i Maledetti Scarafaggi (se non li conoscete, chiedete ai vostri nipoti o ai vostri figli), e ascolti sempre alle stelle.

Il decennale sarà festeggiato assieme ai giovani telespettatori con alcuni appuntamenti speciali. A partire dalla messa in onda della teen comedy sudamericana, una delle più attese dai ragazzi di tutto il mondo, in prima visione per il pubblico italiano: Kally’s mashup (dal lunedì al venerdì alle ore 14.30), scritta e prodotta da Adam Anders, già ideatore di Hannah Montana e Glee. La serie racconta la storia di una talentuosa quattordicenne di nome Kally (Maia Reficco), la cui vita cambia completamente quando deve trasferirsi nella città in cui vive con sua madre, per studiare pianoforte al famoso Conservatorio Allegro: lì farà nuove amicizie e dovrà vivere con il padre. Con l’aiuto di Dante e dei suoi amici creerà il suo stile musicale: Kally’s Mashup, appunto.

Non solo: DeAKids ha preparato per i suoi giovani “aficionados” una programmazione gutta particolari. Dal 1° al 10 ottobre andranno in onda dieci giorni di anteprime con le prime tv delle nuove stagioni delle serie più apprezzate del canale, tra cui una puntata speciale della sitcom New School, produzione originale del canale realizzata in collaborazione con Beachwood Canyon e la prima puntata della nuova stagione del programma L’officina dei Mostri, il format prodotto da DeAKids che realizza il desiderio dei ragazzi di avere un mostro grazie al disegnatore Matteo Cremona e al modellatore Marco Falatti.

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“Sono ossessionati dall’idea di trovare un nemico invece che trovare soluzioni per il Paese. Soffiano sul fuoco ma così un paese non tiene. Un paese non tiene se è governato dall’odio con ministri che passano il tempo sui social a insultare l’opposizione. E a proposito di ‘assassini politici’: vergognatevi“. Lo ha detto Maurizio Martina durante il suo discorso dal palco in Popolo. “Se questo Governo ha a cuore la democrazia e la libertà combatta la xenofobia e i nuovi fascismi, invece di andare a cena con esponenti dell’estrema destra” ha aggiunto in un altro passaggio del suo intervento

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Il giocatore di Serie A e rugbista della nazionale, Sami Panico, è finito agli arresti domiciliari. Nella villa di Torvaianica, vicino Roma, in cui vive da poco più di un mese i carabinieri hanno trovato quasi due chili di droga, tra hashish e marijuana. Il giovane talento del rugby italiano, dieci presenze in azzurro e pilone delle Zebre di Parma, è stato arrestato con l’accusa di detenzione ai fini di spaccio di sostanze stupefacenti e si trova ora ai domiciliari in attesa del processo per direttissima fissato per lunedì.

Il blitz è scattato sabato. I carabinieri della stazione di Torvaianica e della compagnia di Pomezia sono intervenuti in seguito a un servizio di osservazione del territorio. Nel grande giardino della villa hanno così scoperto e sequestrato un chilo e mezzo di marijuana, nascosta in un capanno, e oltre 300 grammi di hashish, sistemati sotto un generatore che alimenta la piscina. Trovato anche materiale per il confezionamento e taglio delle dosi e 10mila e 700 euro in contanti ritenuti provento di attività illecita. Il pilone delle Zebre è stato arrestato per detenzione ai fini di spaccio.

Panico, 25enne originario di Albano Laziale, è cresciuto anche sportivamente fra Pomezia e Torvaianica. Con il Calvisano ha vinto due scudetti consecutivi nel 2014 e 2015 prima di approdare nel club di Parma. Considerato una promessa del nostro rugby ha collezionato diverse presenze nella Nazionale con cui ha giocato fino a marzo dello scorso anno. Nel 2016 con l’avvento del c.t. irlandese Conor O’Shea alla guida dell’Italia fu, infatti, tra i giovani giocatori convocati per abbassare l’età media della nazionale ed esordì a Santa Fe contro l’Argentina. Ha partecipato anche al Sei Nazioni del 2017. Attualmente è sospeso per motivi disciplinari dalla società parmigiana dopo una lite avvenuta negli spogliatoi con suo compagno di squadra a cui ha sferrato un pugno rompendogli la mascella.

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Oggi, oltre il 60% delle case editrici, piccole e grandi, è tra Milano, Roma e Torino. Ha senso avere sede in queste città, per le fiere, per la logistica, per i festival, per gli incontri. Treni veloci, corrieri e magazzini. Perché se vuoi incontrare un grande autore a Roma e Milano è più facile. Perché se hai una casa editrice a Potenza o Caltanissetta e già difficile da raggiungere solo per firmare il contratto. Eppure ho conosciuto all’ultimo Salone del Libro di Torino un editore veneto: Ronzani Editore.

Sede Monticello Conte Otto. E dov’è? Dieci chilometri da Vicenza, un paese di novemila abitanti. Una casa editrice di provincia. Quando incontro il suo direttore Beppe Cantele, quasi non ci capiamo, entrambi parliamo nella lingua delle nostre terre, e sottolineo lingua. Gli dico: “Una casa editrice polentona”. Lui sorride orgoglioso e vuol che i suoi libri finiscano in uno scaffale della nostra libreria a Scampia. Credo che abbia senso parlare della Ronzani Editore perché tutela la bibliodiversità. Perché nel catalogo di questi ostinati amanti del libro vicentini ci sono libri che non avrebbero posto e senso nelle immense proposte dei mega marchi.

E come se Beppe e il suo team tutelassero specie protette di scrittori, carte, inchiostri e storie. Una slow food dell’editoria. Quelli che finirebbero nel dimenticatoi perché: “bella idea, bella storia, però non si vende e noi non possiamo permetterci di investire due o tremila euro, in un libro che non si vende. Ha senso per il mondo della cultura, per chi ama il libro, ci piace ma non lo facciamo perché non si vende”. I tipi di Ronzani editore sono coraggiosi, perché editano volumi rischiosi. Ma che senso ha fare l’editore, cioè colui che rende pubblica un’idea, una storia, una riflessione, se non si ha coraggio di parlare al pubblico, seppur ristretto, della propria idea di mondo?

Altrimenti una casa editrice finisce per essere una macelleria di parole e pagine, niente di più. Polentone non è un epiteto, non sta ad indicare la provenienza geografica o un essere lento e goffo nei movimenti e nei pensieri. Editoria polentona indica chi prova a pubblicare libri nella propria terra, chi prova a valorizzare ciò che ha intorno, le proprie radici. Mi stupisce la capacità di Ronzani Editore di promuovere volumi che raccontano dell’arte tipografica, dell’arte nera. Vedi “l’Abc di un Tipografo” di Jost Hochuli. Mentre le tipografie chiudono si pubblicano libri e saggi dedicati a quest’arte che sta scomparendo. È anacronistico? È inutile? Insensato? E invece no! È una barricata, una resistenza culturale. Oppure il saggio “Hague e Gill sulla stampa” di Eric Gill, inventore del carattere Gill Sans, e del suo genero René Hague.

Un piccolo libricino impaginato con coraggio, sbandierato, con un font come Johanna pochissimo utilizzato in Italia. Insomma, provano a rivoluzionare l’editoria non solo nei contenuti, ma anche nella forma. Impaginazione, tipo di carta, font. Spaccano le gabbie dei moderni software, dove grafici ed editor trovano paradisi protetti, per camminare sui carboni ardenti dell’editoria rischiosa che molti ancora non comprendono. I tipi di Ronzani si fanno domande. Ha senso la giustificazione? Perché in Italia utilizziamo prettamente un font come Garamond, inventato più di 400 anni fa? Perché utilizziamo tutti la stessa carta, usomano (più economica)? Ronzani tutela queste diversità, Ronzani è una casa editrice sinestetica, nel senso che all’esperienza della lettura di contenuti aggiunge la fusione di altre esperienze, tattili in primis.

E poi pubblicano poesia. Ma come, direte, poesia? Ma non si vende la poesia. La poesia è a pagamento. Non c’è ricerca nella poesia, ma solo ed esclusivamente vanità di chi spesso non conosce nemmeno Carducci. Ronzani invece ha provato a ragionare non tanto sulla poesia in quanto testo, ma sul modo di renderla fruibile. Hanno inventato i “Monodose” 50 poesie stampate a mano in cinque scatoline dal packaging nobile e ricercato. Non c’è più il libro, c’è un grammo di poesia che un poeta ha scritto per noi e un tipografo l’ha stampato con le sue mani, con la sua forza. La poesia diventa un talismano da far passare da persona a persona. Quando andate alle fiere, fermatevi a parlare con gli editori che hanno fatto 3 o 400 chilometri per essere lì, con gli editori che non mandano i librai di zona, con gli editori che non pagano le hostess. Parlate con gli editori coraggiosi, che ancora voglio raccontare la propria idea di mondo.

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Entrate negli asili nido e uccidete i bebè bianchi. Acchiappateli e poi impiccate i loro genitori”. Queste sono solo alcune delle frasi choc scritte e intonate dal rapper parigino Nick Conrad nel suo ultimo brano “Pendez les blancs”, “Impiccate i bianchi”, appunto. Non solo: “Appendeteli tutti, appendete i bianchi. Nessuna pietà, muoiano tutti insieme, dai l’esempio, torturali in gruppo”, scandisce ancora l’autore nel ritornello. Parole forti, che non sono passate inosservate alle autorità francesi: Conrad è stato infatti interrogato e poi rilasciato, ma a suo carico pende un’accusa di incitamento all’odio razziale di cui dovrà rispondere il prossimo 9 gennaio davanti al giudice in tribunale. Il giovane rapper rischia una condanna fino a 5 anni di carcere e 45mila euro di multa.

Intanto, il ministro dell’Interno francese Gérard Collomb ha chiesto e ottenuto che il videoclip del brano venga rimosso dalla Rete: nelle immagini si vedeva infatti un uomo bianco raggiunto da una pallottola alla schiena e impiccato con il sinistro avvertimento “questo è solo l’inizio”. Intervistato da Rtl, Conrad ha respinto le accuse, sostenendo che il testo non voleva in alcun modo incitare alla violenza e assicurando di “non essere razzista”. Sulla vicenda è intervenuto anche il nostro ministro dell’Interno e vicepremier Matteo Salvini, che su Twitter ha scritto: “’Entrate negli asili nido e UCCIDETE i bebè bianchi. Acchiappateli e IMPICCATE i loro genitorì. Roba da matti… Quelli che difendono questo idiota dicono che è ‘libertà culturale’, a me pare solo una schifezza”.

La questione ha fatto presto il giro della Rete e il dibattito è arrivato fino in Gran Bretagna, dove un altro Nick Conrad, uno sfortunato presentatore della Bbc omonimo del rapper, è stato addirittura minacciato di morte sui social network, a causa di un clamoroso scambio di persona. Il rapper parigino non aveva mai fatto mistero del suo “orgoglio nero” e della sua battaglia per i diritti della comunità “black” ma mai si era spinto a pronunciare parole così forti, che arrivano ad incitare la strage. Contro di lui si è scagliata anche la Licra, la Lega contro il razzismo e l’antisemitismo: “La libertà di creazione artistica – avverte l’organismo – non equivale alla libertà di incitare all’impiccagione dei bianchi per il colore della loro pelle”.

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“Serve un nuovo Pd per una nuova sinistra. Noi siamo fondamentali. Lo dico senza arroganza, ma senza di noi non ci sarà una sinistra in Italia. Non servono tifosi, ma persone che sentano l’unità di destino”. Lo ha detto Maurizio Martina parlando dal palco della manifestazione del Pd a Roma. I manifestanti hanno risposto con una ovazione e ritmando “unità, unità”, come altre tre volte era accaduto prima del discorso di Martina. “Non pronuncerò una parola sull’unità – ha aggiunto tra gli applausi -, perché quando sei dirigente ci sono cose che non devi dire agli altri ma devi praticarle. A noi serve una svolta, perché contro questa destra non basta quello che siamo stati finora”. “Agli elettori che il 4 marzo non ci hanno votato – ha proseguito – diciamo: abbiamo capito. Vedo i nostri limiti, ma chiedo a tutti ‘dateci una mano‘ perché questo governo è troppo pericoloso”

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La castagna italiana torna protagonista dell’autunno. Dopo aver superato una crisi nera, dovuta a un insetto alieno proveniente dalla Cina, il cinipide galligeno del castagno che, nel giro di due decenni, ha portato una riduzione della produzione del 20%. E dopo aver rischiato la scomparsa. Solo una decina di giorni fa Ispra, ricordando i danni fatti dall’insetto, ha pubblicato un rapporto sui metodi per difendere i castagneti dall’attacco di questo parassita. Di fatto, secondo Coldiretti, quest’anno si stima un raccolto superiore a 30 milioni di chili in aumento dell’80% rispetto a cinque anni fa, quanto era stato raggiunto il minimo storico di 18 milioni di chili a causa della strage provocata dal cinipide galligeno del castagno, noto come ‘vespa cinese’. “Si tratta – spiega la Coldiretti – del Dryocosmus kuriphilus che provoca nella pianta la formazione di galle, cioè ingrossamenti delle gemme di varie forme e dimensioni”. Contro l’insetto è stata avviata con successo una capillare guerra biologica attraverso lo sviluppo e l’accurata diffusione dell’insetto Torymus sinensis, che è un antagonista naturale.

IL RAPPORTO DELL’ISPRA E LA LOTTA BIOLOGICA AL PARASSITA – Solo una decina di giorni fa l’Ispra, il centro studi del Ministero dell’Ambiente, ha pubblicato un rapporto sui metodi per difendere i castagneti dall’attacco del parassita, la cui diffusione è avvenuta attraverso materiale vivaistico infetto. In Italia non sono autorizzati prodotti chimici per il controllo del cinipide nei castagneti. I trattamenti sperimentali con insetticidi non hanno dato risultati confortanti: il loro impiego, anzi, ha causato un incremento dei livelli di infestazione, uccidendo i parassiti che limitano la proliferazione della vespa. Il contrasto migliore, invece, si è rivelato proprio la diffusione di questi parassiti, che utilizzano il Dryocosmus kuriphylus come fonte alimentare, sviluppandosi a sue spese. La lotta biologica con il Torymus sinensis è diffusa in molte regioni italiane, come Piemonte e Toscana, con importanti successi.

STAGIONE POSITIVA, MA LONTANI I FASTI DEL PASSATO – “Quest’anno la stagione è stata generalmente positiva in quantità e in qualità anche se in alcune zone ha pesato negativamente l’andamento climatico eccessivamente piovoso” sottolinea Coldiretti. Complessivamente è stata registrata una netta ripresa, anche se siamo ancora lontani dai fasti del passato. È la stessa Coldiretti a ricordare che “nel 1911 la produzione di castagne ammontava a 829 milioni di chili, ma ancora dieci anni fa era pari a 55 milioni di chili”. Con la ripresa della produzione nazionale, calano anche le importazioni “ma resta alto il rischio – continua l’associazione – di trovarsi nel piatto, senza saperlo, castagne straniere provenienti soprattutto dalla Turchia, Spagna, dal Portogallo e dalla Grecia”.

LE CASTAGNE SPACCIATE PER ITALIANE – Infatti l’Italia, nel corso del 2017, ha importato oltre 21 milioni di chili di castagne (in frenata rispetto ai quasi 38 milioni di chili del 2016), spesso spacciate per italiane, con forti ripercussioni sui prezzi corrisposti ai produttori. Da qui la richiesta di Coldiretti di assicurare più controlli sull’origine delle castagne messe in vendita in Italia per evitare che diventino tutte, incredibilmente, tricolori. Non sono noti, invece, i dati relativi alle importazioni di farina di castagne, perché esiste solo il codice doganale relativo alla farina ottenuta da frutti di diverse tipologie e non un codice specifico per la farina di castagne, che andrebbe invece introdotto, per monitorare i flussi e l’obbligo di etichettatura di origine per i derivati a base di castagne. “Un modo per tutelare l’alta qualità della produzione made in Italy che – precisa la Coldiretti – conta ben quindici prodotti a denominazione di origine legati al castagno che hanno ottenuto il riconoscimento europeo”.

Cinque si trovano in Toscana e sono il Marrone del Mugello Igp, il Marrone di Caprese Michelangelo Dop, la Castagna del Monte Amiata Igp, la Farina di Neccio della Garfagnana Dop e la Farina di Castagne della Lunigiana DOP mentre in Campania è riconosciuta la Castagna di Montella Igp, il Marrone di Roccadaspide Igp e il Marrone di Serino/Castagna di Serino IGP; in Emilia Romagna il Marrone di Castel del Rio Igp, in Veneto il Marrone di San Zeno Dop e i Marroni del Monfenera Igp, ed i Marroni di Combai Igp, in Piemonte la Castagna Cuneo Igp e il Marrone della Valle di Susa Igp, e nel Lazio la Castagna di Vallerano Dop. A questi si aggiungono due mieli di castagno: il Miele della Lunigiana Dop della Toscana e il Miele delle Dolomiti Bellunesi DOP del Veneto.

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Una voce fuori campo impastata da troppo alcol e sigarette, l’insistenza molesta in mezzo al buio di una strada di Parigi, due bimbi migranti senzatetto tentati con una notte al caldo in un albergo di lusso, la loro madre che si infuria e spintona per terra l’autrice del video. L’ennesimo show “umanitario” di Lindsay Lohan è servito. I fortunati hanno potuto osservarlo in diretta sulla pagina Instagram dell’attrice quando un paio di sere fa tornando in albergo dopo una sfilata di moda con protagonista il fratello modello Dakota, la Lohan ha bloccato l’auto su cui viaggiava, ha aperto la portiera ed è scesa per “aiutare” madre, padre e due figli piccoli avvoltolati nelle coperte seduti in un angolo di strada parigina a mendicare. “Raccontatemi la vostra storia, vi posso aiutare”; “di cosa avete bisogno”, ha approcciato timidamente l’attrice che poi è partita in quarta rivolgendosi a uno dei due bambinetti, di cui spuntava appena mezzo viso da sotto le coperte.

Vuoi vedere un bel film alla tv o al computer stasera? Qui fa molto freddo”, ha attaccato la Lohan. “Solo i bimbi e lei, non suo marito”, ha poi aggiunto. E visto che la povera mendicante non era obbligata a riconoscere la star hollywoodiana, interprete di film come Mean Girls e Herbie: il super maggiolino, tutto è degenerato rapidamente in una specie di difesa da adescamento. I quattro migranti si sono alzati, hanno riavvolto le loro coperte, e si sono spostati dal marciapiede dove erano seduti trascinando le valigie lontano dalla molestatrice americana. Solo che la Lohan ha insistito, li ha inseguiti, gli ha urlato “questa è la mia auto, salite”, e poi è sbroccata definitivamente.

Prima un paio di incomprensibili parole in arabo (si racconta che ultimamente la Lohan sia attiva in un business dalle parti di Dubai), successivamente un “non prendetemi per il c…”, e infine le accuse terrificanti modello “voi state facendo traffico di bambini”. A quel punto la donna, probabilmente siriana, si è arrabbiata e ha spintonato la Lohan verso un mezzo tronco d’albero, su cui l’attrice inciampa finendo rovinosamente a terra.  Finale: la Lohan in primo piano piangente, più per stanchezza dell’ora tarda e dei bagordi che l’avranno vista protagonista, si è messa una mano davanti alla bocca e ha sussurrato alle migliaia di fan che in diretta lanciavo cuoricini Instagram: “Mamma che paura, sono sotto choc”. Insomma: dura la vita nelle notti di Parigi per i buoni samaritani.

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Dopo le polemiche post sconfitta elettorale e la cena contestata e poi saltata da Calenda che doveva riunirli, alla manifestazione del Pd organizzata a Roma contro il governo M5s-Lega si sono ritrovati sotto il palco l’ex segretario dem Matteo Renzi e l’ex premier Paolo Gentiloni. I due dirigenti dem si sono abbracciati all’arrivo e lo stesso Gentiloni ha cercato di allontanare le polemiche passate. Così, di fronte alle domande sulla “pace fatta con Renzi”, Gentiloni ha replicato di ‘sì’ con un cenno del capo. Sia Renzi che Gentiloni hanno poi attaccato la manovra dell’esecutivo gialloverde: “Qui si va verso il Venezuela, va fermata questa deriva”, ha attaccato l’ex segretario dem, invitando il partito a restare compatto e unito contro l’esecutivo

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Lory Del Santo entrerà nella casa del Grande Fratello Vip dopo la morte di Loren, il figlio di 19 anni che si è tolto la vita lo scorso agosto. Mediaset attraverso un comunicato stampa  fa sapere che nel corso della seconda puntata del reality l’attrice spiegherà al pubblico “le motivazioni della decisione presa in merito alla sua partecipazione al programma”. Racconterà a Ilary Blasi e Alfonso Signorini i motivi del suo, ormai certo, ingresso nella casa più spiata d’Italia.

Una decisione destinata a far discutere e che nei giorni scorsi avrebbe creato non pochi dubbi a Cologno Monzese, Dagospia aveva parlato di una “riunione concitata”. La Del Santo aveva già firmato per partecipare al programma di Canale 5 ma dopo quanto accaduto, d’accordo con Mediaset, aveva deciso rinunciare salvo poi ripensarci: “Ho chiesto di fare lo stesso questa esperienza. Credo che la Casa del Grande Fratello sia l’unico posto in cui possa sentirmi protetta. Potrebbe essere una terapia. Il fatto che ci sia un confessionale, per parlare in ogni momento con qualcuno, può farmi bene”, aveva aggiunto a sorpresa nel corso dell’intervista a Verissimo.

La partecipazione avrà, come immaginabile, strascichi mediatici. Nei giorni scorsi il giornalista Antonello Piroso su Twitter aveva affermato: “Il 29/8 ricevo whatsapp: ‘Figlio più piccolo di Lory Del Santo suicida a Los Angeles. Lo dice la di lei sorella. Lory non va a funerali per paura di esclusione dal Grande Fratello Vip‘. Lory ora: ‘Avevo deciso di non partecipare, invece al GF ci vado come terapia’. “Io invece mi farei vedere direttamente da uno bravo.” Dichiarazioni che in poco tempo sono circolate sui siti di informazione e a cui oggi Marco Cucolo, fidanzato da tre anni della showgirl, ha deciso di replicare.

Il ragazzo ha inviato a Domenica Live una lettera con alcune precisazioni, la Del Santo è infatti già isolata dalla produzione del Grande Fratello Vip e senza cellulare: “Scrivo per difendere Lory da ingiuste accuse che negli ultimi giorni sono girate sul web. Non c’è stato per volontà di Lory nessun funerale ma qualcosa di diverso che eventualmente vi spiegherà lei. Appena ha saputo della notizia ha chiamato la produzione del Grande Fratello per avvisare che non avrebbe più potuto partecipare alla trasmissione a causa di un lutto familiare avendo precedentemente già firmato il contratto. Mi dispiace molto che si scrivano cose inventate perché possono ferire e costringono le persone a difendersi.”

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Incidente per Mara Venier durante la puntata di Domenica In. La scenografia le è crollata addosso, in diretta: “Me fa male, m’avete dato sto mammozzone, portatemi un po’ di ghiaccio”, ha esclamato allora la conduttrice. L’episodio è accaduto appena terminato il blocco con ospiti Renzo Arbore e l’Orchestra Italiana, Isabella Rossellini, Roberto D’Agostino e Maurizio Ferrini. “Ahia, me fa male”, ha ribadito Mara durante il proseguimento del programma e ha chiuso invocando Antonio Ricci che la sua Striscia è sempre attento alle gaffe dei personaggi tv.

 

 

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Una “marcia della morte” quella dei soldati nazisti che dopo la strage di Sant’Anna di Stazzema hanno fatto terra bruciata nel Bolognese, arrivando al comune di Marzabotto: tra il 29 settembre e il 5 ottobre del 1944 le SS trucidarono circa 770 civili, oltre 200 dei quali erano bambini. E in occasione del 74° anniversario delle atrocità naziste, il ministro degli Esteri Enzo Moavero Milanesi ha incontrato il suo omologo tedesco Heiko Maas proprio nel luogo simbolo dell’eccidio. Dalla Farnesina fanno sapere che l’incontro è un omaggio alla coscienza collettiva italiana, tedesca ed europea, oltre che un’occasione per ribadire il comune impegno a rendere l’Unione Europea più comprensibile e vicina ai cittadini. “Mai più fascismi”, ha dichiarato Maas nel suo intervento. Alla commemorazione erano presenti anche il presidente della regione Emilia-Romagna Stefano Bonaccini e il sindaco di Marzabotto Romano Franchi, che dal palco denuncia: “Risultano sdoganati solo per mero calcolo elettorale movimenti razzisti e xenofobi: non dobbiamo arretrare di un millimetro”.

“Il massacro di Marzabotto è considerato il peggior crimine di guerra sul territorio italiano – ha detto il ministro tedesco -. Parlare qui, 74 anni dopo, come ministro tedesco mi riempie di dolore e vergogna“. Degli innocenti morti per mano nazifascista, Maas ha dichiarato che “si tratta di crimini commessi da tedeschi che ancora oggi ci lasciano senza fiato per la loro efferatezza e crudeltà: 770 persone uccise che non dimenticheremo mai”. E continua il suo intervento ricordando che “non è scontato che un ministro degli Esteri tedesco possa essere qui dove i miei connazionali hanno portato morte”, così come “è tutt’altro che scontato che dolore e vendetta abbiano ceduto il passo alla pace e all’amicizia: è un dono prezioso che dobbiamo conservare e preservare”.

Sugli stessi toni si è tenuto il ministro Moavero, che ha sostenuto la necessità di “tenere presente la memoria e capire e leggere il vero significato dell’Europa oggi e in questi anni, grazie alla Ue e alla lungimiranza degli uomini che seppero mettersi attorno a un tavolo e anziché coltivare sterili sentimenti di rivincita hanno condiviso un sentimento di collaborazione per il futuro”. Quelli delle guerre, della prima parte del Novecento ma anche del conflitto nei Balcani negli anni Novanta “sono dei fantasmi che possono risvegliarsi, non sono chiusi sui libri di storia: sentimenti di xenofobia, rivalità, dispute sono pericolosi perché possono risvegliare fantasmi che vorremmo chiudere nei libri della storia”.

Intervenuto anche il presidente della regione Emilia-Romagna Stefano Bonaccini che ha ricordato come “la democrazia, i diritti della persona e i principi di libertà e giustizia” non possono essere cancellati “da alcun regime dittatoriale” nel nome di “logiche di prevaricazione e discriminazione”. Secondo Bonaccini “la convivenza fra gli uomini e i popoli è la sola strada percorribile, la sola forma di comunità praticabile”. Ma secondo il sindaco di Marzabotto, Romano Franchi, la sola memoria del dramma non è sufficiente. “Serve una memoria attiva” ha sostenuto Franchi dal palco. “La democrazia si deve fondare sui valori dell’antifascismo” in un periodo storico in cui “una destra senza scrupoli diffonde la paura” ha concluso il primo cittadino, invitando la popolazione a “non arretrare di un millimetro”.

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In libreria ci sono due titoli che valgono un Perù (luogo favoloso simbolo di inestimabili ricchezze sotto la corona spagnola). Naturalmente qui non si tratta di miniere d’oro bensì di libri e di ragguardevole valore. Ma procediamo con ordine dagli antefatti. Ci sono stati anni mitici in cui sui canali radio della RAI si ascoltava Proust nelle radiorecite di Giacomo Debenedetti e contemporaneamente Gadda scriveva «inderogabili norme» per la redazione di testi ad uso degli autori radiofonici. Lo si può leggere in due libri da poco usciti: Giacomo Debenedetti, Un altro Proust, edito da Sellerio e Carlo Emilio Gadda, Norme per la redazione di testi radiofonici, per Adelphi. Due librini imperdibili, di poche pagine ma assai divertenti e singolari, in qualche aspetto coincidenti.
In entrambi i casi siamo nei primi anni Cinquanta.

Il gran lombardo, Carlo Emilio Gadda, approda in radio nel 1950, lasciando Firenze per Roma, in cerca di stipendio come neogiornalista radiofonico, come racconta nella informata postfazione al volume Mariarosa Bricchi, curatrice del volume. Gadda trova lavoro in RAI in regime di «provvisorietà semestrale che non esclude un’altra provvisorietà semestrale susseguente, e via via», trovando altrettanta provvisoria dimora «in una camera d’affitto col solito vedovone singhiozzante (una afrosa megera, specie nelle ore mattutine) e con un cane puzzolente». Il trattatello, scritto nel 1953, contiene il decalogo di regole e cautele per chi parla al microfono o predispone scrivendolo un testo per la radio. Le osservazioni preliminari, per esempio, riguardano la sopportabilità massima del parlato-unito, fissata a quindici minuti; oppure il tono accademico o dottrinale tassativamente da escludere. Ci si ritrova persino il Gadda leibniziano cultore delle monadi e della moltitudine: «Il pubblico che ascolta una conversazione è un pubblico per modo di dire. In realtà si tratta di persone singole, di monadi ovvero unità». E poi, avverte l’autore della Cognizione, «l’eguale deve parlare all’eguale, il cervello opinante al cervello opinante»; e attenzione che il radiocollaboratore eviti accuratamente che si manifesti nel radioascoltatore il cosiddetto complesso di inferiorità culturale.  Imperdibile il riferimento alla regola aurea che impone allo speaker di «astenersi in ogni evenienza dall’uso della prima persona singolare io perché si tratta di un «pronome con carattere esibitivo, autobiografante o addirittura indiscreto». Pertanto sostituire sempre all’ «io» il «noi» di timbro «resicontistico neutro». Evitare come la peste l’autocitazione. (Tutto normale, quasi prevedibile, perché per Gadda l’odio verso il pronome «io» non è solo relativo alla grammatica del testo radiofonico e alla scrittura in genere, al fatto linguistico, ma ha radici gnoseologiche. Secondo Gadda l’io è il più lurido di tutti i pronomi perché presuppone unità dove può esserci solo molteplicità. Li chiama «i pidocchi del pensiero». Quando il pensiero ha prurito, dice, si gratta e nelle unghie ci ritrovi i pronomi «io»).
Il vademecum gaddiano può essere letto, attualizzandolo, anche come prontuario di scrittura nella comunicazione giornalistica: entrare subito o quasi in medias res. Ecco alcuni consigli: non tenere sospeso l’animo con lunghi preamboli, con la vacuità; costruire il testo con periodi brevi; non superare in alcun caso, per ogni periodo, i quattro righi dattiloscritti; nobilitare il dettato con i lucidi e auspicati gioielli di un rigo e mezzo rigo. In sintassi procedere sempre per figurazioni paratattiche, coordinate o soggiuntive, anziché per figurazioni ipotattiche, cioè per subordinate, siano esse causali ipotetiche temporali o concessive. Altre prescrizioni. Parentesi e incisi? Da evitare. Così come le sospensioni sintattiche. Soprattutto da evitare le litòti a catena, ossia le negazioni delle negazioni, che anche se «gentile e civilissima figura, risulta ferale all’ascolto e si smarrisce nella giungla dei non». Evitare le rime, «obbrobrio dello scritto e del discorso», così come le allitterazioni involontarie. Infine evitare le parole desuete e i modi nuovi e sconosciuti. Si segnalano interessanti e dotte le note al testo della curatrice, ricche di spunti e informazioni bibliografiche.

Veniamo al librino su Proust. Gadda ammirava nella pagina dell’autore della Recherche il tentativo riuscito di raccogliere nella contemporaneità mentale «cioè in un unico momento espressivo, una folla di immagini cospiranti, convergenti a significazione ricchissima». Sovvengono le causali convergenti in un punto di depressione ciclonica del Commissario Ingravallo nel famoso incipit del Pasticciaccio. Ma torniamo a Proust, che arriva metaforicamente (ma neanche tanto) in radio grazie a Giacomo Debenedetti. Il libro Un altro Proust è la trascrizione di una trasmissione radiofonica andata in onda sul terzo canale RAI nel lontano 1952. Lo editò per la prima volta Giovanni Macchia nello stesso anno con il titolo Radiorecita su Marcel Proust. Giacomo Debenedetti era un critico meraviglioso (e un grande saggista) che molti ricordano (almeno si spera), supremo «rilettore» della Recherche. Mette in piedi un dialogo radiofonico i cui protagonisti sono un critico, una donna, due lettori e il pubblico con lo scopo di raccontare Proust, tra aneddoti, battute e dialoghi. Davvero fuori dai canoni, come scrive la curatrice del volume Eleonora Marangoni, «fuori dai circuiti scontati». Il fine è quello di una divulgazione in chiave più leggera che racconti e attualizzi la lezione di Proust e la sua opera senza ovviamente degradarla. Scrive la curatrice: «Ripartire una buona volta se non da zero, quantomeno da un angolo inedito, da una nuova luce – e abbracciando la semplicità senza rinunciare alla profondità». Per avvicinare Proust al pubblico, soprattutto a tutti coloro per cui la Recherche resta un’opera «non facile a leggersi ma facilissima a ricordarsi anche senza averla letta». Debenedetti voleva – continua la curatrice – con ironia e leggerezza rispondere alle domande: chi è Proust? Cosa ha scritto? Come ha portato a termine la Recherche? E infine cosa può ancora insegnarci? Scusate se è poco, diremmo noi, se lo pensiamo riferito ad una semplice trasmissione radiofonica…

Il lavoro debenedettiano su Proust in realtà non è un unicum. Secondo la Marangoni sono andate perse – o forse no, ma non si trovano – altre radiorecite: come una (che sarebbe quantomai preziosa e sicuramente divertente) su Pascoli, forse andata sovrascritta, come le cassette musicali di qualche decennio fa. C’è da augurarsi che ricercatrici o ricercatori curiosi come la Marangoni non smettano di investigare, per recuperare storie formidabili come questa. In ogni caso, la radiorecita proustiana chiude così: «E dopo quelle cattedrali, che rimarrà a noi lettori di romanzi?» Si chiede il pubblico. E il critico: «I romanzieri ci danno le formule dei fatti. Ciascuno di noi aggiunge, se crede, la sua risonanza di ineffabile. Del resto la storia non è mai passata a lungo senza generare qualche capolavoro. E non saremo certo noi a lasciarci strappare dichiarazioni di sfiducia verso la storia». E aggiungeremo di fiducia verso il lettore, che quel quid ineffabile deve saper aggiungere per dare senso alla lettura, per scorgere il volto dietro le parole.

Ps: Debenedetti ha detto che la Recherche può essere considerata come «un immenso interrogatorio della gelosia». Nota la curatrice che una teoria molto simile a quella espressa nella radiorecita l’aveva già formulata nientemeno che Walter Benjamin vent’anni prima. Per entrambi (Debenedetti e Benjamin) la Recherche è «un alternarsi di interrogatori ossessivi e rivelazioni improvvise, cacce al tesoro consapevoli (e fallimentari) e incontrollabili e decisive epifanie». Esattamente come la vita. E non si leggono forse Gadda, Proust e tutta la grande letteratura proprio per imparare a stare nelle cose del mondo e nella vita? Carlo Emilio Gadda, Norme per la redazione di un testo radiofonico, a cura di Mariarosa Bricchi, Adelphi, 6,00 euro. Giacomo Debenedetti, Un altro Proust, a cura di Eleonora Marangoni, Sellerio, 10,00 euro.

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