maggio 2020

Azienda e sindacati contro chi ha preteso rispetto per l’ambiente. È quello che sta accadendo in questi giorni a Brindisi, dove il sindaco Riccardo Rossi è al centro del fuoco incrociato di Eni-Versalis e delle organizzazioni sindacali dopo l’ordinanza firmata il 20 maggio scorso con la quale ha bloccato l’impianto di cracking del petrolchimico che produce etilene e propilene. Una decisione contestata da subito dai vertici di Versalis e che ora minacciano il primo cittadino di non sedersi ad alcun tavolo se prima non sarà revocata quella misura.

Il primo tentativo di ricucire lo strappo avviato dalla Regione Puglia si concluso nei giorni scorsi con un nulla di fatto: l’azienda afferma che nelle “azioni messe in atto dal sindaco” non c’è “alcuna preliminare indagine sulla realtà del fatti”. Nessun margine di trattativa insomma: Versalis ha dichiarato senza giri di parole incontrerà le istituzioni “soltanto successivamente alla revoca dell’ordinanza del sindaco e la conseguente ripresa delle attività industriali”.

E nel frattempo, l’azienda ha depositato un’istanza di accesso agli atti per approfondire il contenuto della relazione di Arpa Puglia che ha inviato i suoi tecnici in fabbrica proprio il 20 maggio. I risultati preliminari di quel documento, che ha evidenziato gli eccessi benzene e toluene nell’aria, sono la base su cui il sindaco ha emanato il suo provvedimento di stop. L’ordine di Rossi è stato chiaro: “Immediata sospensione dell’esercizio dell’impianto di cracking per la produzione”. Un’azione coraggiosa che, a meno di 100 chilometri dalla città dell’ex Ilva, ha aperto un nuovo nodo “salute-lavoro”.

Nel documento, Rossi – eletto nel 2018 con il centrosinistra e nato politicamente nei movimenti ambientalisti che contestavano la centrale a carbone dell’Enel – non era andato troppo per il sottile, anzi: ha annunciato che “qualora sia accertato qualsivoglia nesso di causalità tra il sensibile peggioramento dell’aria-ambiente e il funzionamento dell’impianto in regime di arresto-manutenzione” il Comune di Brindisi avrebbe chiesto “l’immediata sospensione del riesame Aia complessivo in corso”, fino agli “opportuni e improcrastinabili adeguamenti” per “azzerare le condizioni che ad oggi determinano gli eventi emissivi macroscopici in corso, senza che siano intervenuti presupposti di assoluta emergenza”. Quindi Rossi ha spiegato: “Il superamento dell’ordinanza lo si ha con la volontà da parte di Versalis di confrontarsi con tavoli tecnici, con la presenza dell’Arpa, per trovare tutte le soluzioni impiantistiche e tecnologiche per ridurre i blocchi degli impianti e le emissioni di sostanze inquinanti”. Il “cuore del problema”, ha scritto il sindaco, sono “investimenti a difesa della salute e del lavoro o status quo che non assicura né la salute né il lavoro”.

Al centro della questione, in particolare, erano finite le cosiddette “torce” dell’impianto: quei camini dovrebbe servissero a mettere in sicurezza l’impianto nel caso in cui dovesse andare in blocco per evitare esplosioni o altri incidenti gravi, ma che – secondo altre indagini del passato – negli anni sono state utilizzate come “termodistruttori di reflui industriali”. Da quelle torce, in sostanza, venivano bruciati gli scarti di produzione: nel 2010, quando la fabbrica si chiamava ancora Polimeri Europa, furono sequestrate dalla magistratura, ma l’indagine che coinvolse 4 dirigenti si chiuse con un’oblazione da 116mila euro.

Per l’azienda è una storia che appartiene al passato e nulla a che fare con l’attuale gestione. Quelle nubi odorigene che hanno appestato per giorni la città con aria acre e irrespirabile, sostiene Eni Versalis, non provenivano dai suoi impianti. E citando i dati di Arpa ha aggiunto che “tutti gli inquinanti hanno un trend in diminuzione e in particolare il benzene, a partire dal 2013, non rappresenta una criticità”. E inoltre i picchi di concentrazione di benzene accertati dal 16 al 21 maggio, erano stati emessi da “fonti completamente estranee a Versalis” dato che “la direzione del vento era tale da porre le centraline di monitoraggio dell’aria di Arpa Puglia sopravento rispetto allo stabilimento”.

Alle contestazioni dell’azienda, che ha adombrato anche l’ipotesi che il blocco incida sui livelli occupazionali, si sono aggiunti nelle ultime ore anche i sindacati. “Il rischio della cassa integrazione – ha commentato Emiliano Giannoccaro, segretario Femca Cisl – è reale e già l’indotto è in sofferenza. Stiamo di nuovo attivando il prefetto di Brindisi e il 3 giugno faremo un’assemblea con i lavoratori. La cosa singolare è che il 28 maggio la centralina Sisri registra un picco di benzene, 3 microgrammi per metro cubo d’aria, mentre Versalis è ferma. Ma nessuno ne parla”.

Insomma anche per i sindacati l’azienda è estranea e la colpa di quanto potrebbe accadere ai circa 1000 lavoratori, tra diretti e indotto, sarebbe colpa dell’iniziativa del sindaco. Un fuoco incrociato al quale Rossi ha risposto senza fare passi indietro: “Versalis non pensi di far pagare le ordinanze ai lavoratori con la cassa integrazione. Se si contestano le ordinanze, ci sono altre sedi per far valere le proprie ragioni”. Una di queste è l’incontro in programma oggi (1 giugno, ndr) alle 12 convocato dal Prefetto di Brindisi a cui dovrebbe partecipare anche il sottosegretario allo Sviluppo Economico Alessandra Todde. Sempre che Versalis si presenti.

L'articolo Brindisi, Eni e sindacati all’attacco del sindaco dopo stop al petrolchimico per le emissioni. Lui resiste: “No al ricatto occupazionale” proviene da Il Fatto Quotidiano.



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“Per vincere la sfida della povertà serve più il ponte sullo Stretto che il reddito di emergenza”. Parola di Matteo Renzi che nel suo ultimo libro (La mossa del cavallo, in uscita per Marsilio in questi giorni) riapre ufficialmente il dibattito pubblico sulla grande infrastruttura. Dopo mesi di lockdown, il focus politico si discosta finalmente dal Covid-19 per ripartire da un argomento “nuovissimo”: il collegamento stabile tra Sicilia e Calabria. La citazione di Renzi, con le anticipazioni del libro pubblicate non a caso sulla Gazzetta del Sud, quotidiano di Messina, ha riportato l’inossidabile tema del Ponte al centro della discussione politica. E poco importa se nel frattempo l’opera mai costruita sia già costata alle casse dello Stato la bellezza di 312 milioni di euro. Dario Franceschini, incalzato sul punto dal Corriere della Sera, non è riuscito a smentire. Anzi: è tornato implicitamente a evocare il progetto. “Ora che i soldi ci sono bisogna avere il coraggio di immaginare due grandi scelte. Da un lato l’alta velocità che arriva in Sicilia, fino a Catania e Palermo”. La giornalista del quotidiano di via Solferino ha fiutato l’attimo: “Il suo progetto prevede il Ponte?”. L’esponente del governo non ha negato: “Beh – ha detto – i treni ad alta velocità dovranno pur attraversare lo Stretto. Ma andranno visti costi e benefici di tutte le soluzioni alternative”.

In principio furono i romani – È il rilancio definitivo della questione del Ponte sullo Stretto di Messina. Un dibattito millennario, dato che bisogna risalire addirittura a Lucio Cecilio Metello e agli antichi romani per trovare traccia dei primi tentativi di attraversamento tra le due sponde: ci provarono – senza successo – con delle botti disposte in fila. Era il 250 avanti Cristo, duemila e settanta anni prima l’ultima fatica letteraria di Renzi. La querelle Ponte sì/Ponte no è stata, d’altronde, oggetto di fascino per molti, perfino per Zio Paperone che, in un fumetto della Disney pubblicato nel 1982, fece la sua personale promessa di realizzazione dell’infrastruttura: entro sei mesi.

I renziani in prima fila: “Il momento per fare il ponte è adesso” – Oggi a rispolverare l’antica quaestio è anche l’annuncio di Trenitalia: da giugno il Freccia Rossa arriverà fino a Reggio Calabria. In dieci ore e 50 minuti i treni ad alta velocità risaliranno l’Italia dalla Calabria al Piemonte, passando per Napoli, Roma, Firenze e Milano. Stesso tempo per il tragitto inverso, che però si fermerà a Reggio: la Sicilia resta lontana. Occasione perfetta per tornare a parlare di Ponte. L’ultima volta era successo nel 2015, quando Renzi era ancora a Palazzo Chigi. “Il momento è adesso”, è sicuro ancora oggi Davide Faraone, che rilancia le affermazioni contenute nel libro del suo leader. E annuncia che Italia viva è già pronta a intervenire in Parlamento. “L’alta velocità arriverà a Reggio Calabria – dice il capogruppo a Palazzo Madama del piccolo partito di Renzi – è incredibile e ingiusto che non possa arrivare anche a Palermo. La fiscalità di vantaggio per la Sicilia prima del coronavirus era un’utopia, ora invece è possibile e noi presenteremo un disegno di legge ed un emendamento al dl Rilancio in discussione in Parlamento. In questo momento si stanno rivedendo le norme sugli aiuti di stato, di concerto con l’Ue, dobbiamo intervenire. Niente tasse per un periodo determinato a tutte le imprese che investono in Sicilia e Sardegna e creano lavoro”.

Pure Margiotta è d’accordo – La pensa come Faraone, Salvatore Margiotta, sottosegretario del Pd alle Infrastrutture: “Mi pare decisamente interessante l’apertura rispetto al Ponte sullo Stretto, un’opera ingegneristica ambiziosa, su cui un Paese come l’Italia dovrebbe finalmente sviluppare un dibattito non ideologico all’altezza delle sfide che ci pone davanti il futuro, soprattutto, dal punto di vista dell’indispensabile sviluppo infrastrutturale del nostro Paese”. A rivendicare la storica posizione di Forza Italia sul tema, ci pensa, invece, la deputata Matilde Siracusano, berlusconiana di Messina che plaude ironicamente a Franceschini: “Bene, benvenuto dalla parte giusta. Noi di Forza Italia non possiamo dimenticare il fuoco di fila contro il presidente Berlusconi e contro i nostri governi negli anni in cui avevamo non solo proposto la realizzazione del Ponte, ma avviato tutte le procedure necessarie affinché divenisse realtà nel più breve tempo possibile”.

Provenzano: “Prima pensare al resto” – Non è d’accordo, però, il ministro per il Sud, il siciliano Giuseppe Provenzano: “Lo shock per definizione dovrebbe intervenire nell’immediato e del Ponte, al di là di tutto, qui dovremmo rifare la progettazione. Si tratta di un discorso di medio periodo, sul quale davvero non ho posizione ideologica come ho già detto. Ma intanto dobbiamo far partire il resto: il Piano Mit nel Piano Sud mobilita oltre 33 miliardi nel triennio. Concentriamoci su questo”. Il riferimento del ministro è ovviamente alle grandi incompiute del Sud, che in Sicilia abbondano. Recentemente il governo regionale ha chiesto a un pool di avvocati di intraprendere un’azione giudiziaria nei confronti dell’Anas. Il motivo? I tempi lunghi, anzi biblici, del completamento di tratte stradali. Marco Falcone, assessore siciliano alle Infrastrutture, ha fatto un esempio pratico: “Per aprire il lotto B4B, la strada tra Nicosia e Mistretta, aspettiamo da settembre che attivino una banale centralina dell’Enel”. Ma è solo un esempio, il più semplice, di un lungo elenco di incompiute: “La Catania – Palermo è una pista di go-cart – attacca l’assessore – e non è una metafora: ci sono 2 miliardi e mezzo di fondi completamente bloccati dall’inefficienza di Anas”. Un elenco che parte dalla cossiddetta strada degli scrittori tra Agrigento e Caltanissetta – “bloccata da due anni”, sottolinea ancora Falcone – e arriva fino al ponte Himera, crollato 5 anni fa nella Catania-Palermo e non ancora riaperto al traffico (la riapertura è stata da poco ulteriormente posticipata). Una lentezza burocratica che farebbe crollare ogni speranza di vedere addirittura la realizzazione di un’opera faraonica come il ponte, ma che non fa perdere d’animo il governo siciliano: “Rivendichiamo la responsabilità di fare le cose, per questo abbiamo chiesto il commissariamento dell’Anas su 8 lotti – conclude l’assessore – e restiamo convinti che il Ponte sia un’opera essenziale per dare una spinta all’economia dell’Isola e fare ripartire tutte le opere infrastrutturali”. D’altra parte solo alcuni mesi fa il governatore Nello Musumeci aveva addirittura auspicato un referendum popolare sulla grande infrastruttura.

Mai costruito, ma è costato 312 milioni – Cosa saranno mai, d’altronde, cinque anni per ripristinare il viadotto autostradale tra Palermo e Catania, in confronto al millenario dibattito sul collegamento tra la Calabria e la Sicilia. Dove gli annunci si perdono nei secoli. Per non andare troppo indietro con la memoria, basta fermarsi al 1984: Orwell non c’entra, ma più banalmente l’allora ministro per gli interventi straordinari nel Mezzogiorno, Claudio Signorile, che annunciò la realizzazione del ponte “entro il 1994”. Poi nel 2001 ecco Silvio Berlusconi inserire il progetto nell’ormai indimenticabile “contratto con gli italiani”. Fu così che nel 2005 la progettazione sarà affidata ad Impregilo. L’inizio dei lavori era previsto per il 2007 con il progetto pronto nel 2012, per un costo previsto dell’opera intorno ai 3,88 miliardi di euro. In realtà nel 2012 non c’era neanche un pilone: in quell’anno, però, la Stretto di Messina Spa viene messa in liquidazione. Creata nel 1981 con l’obiettivo di costruire il ponte, in 30 anni è costata alle casse dello Stato più di 312 milioni euro. La liquidazione doveva durare appena un anno: oggi, otto anni dopo, non è ancora stata portata a termine, anche se da Anas assicurano non sia rimasto più nulla di attivo, a parte il commissario liquidatore. Nominato nel 2013 con un compenso di 174 mila euro fino al 2014, avrebbe dovuto completare la liquidazione della società ormai sei anni fa. Cosa che non è avvenuta, per il semplice fatto che non può avvenire: la procedura non può essere portata a termine finché non si concluderà il giudizio civile sulle penali. A vantarle per il “mancato guadagno” contro lo Stato, sono Impregilo (adesso Webuild) e Parson Trasportation Group, rispettivamente contraente generale e project manager. Una battaglia giudiziaria in sede civile che lascia prevedere tempi tutt’altro che brevi. Perciò nel frattempo perché non rilanciare l’argomento nel dibattito politico? È solo l’ennesima volta, dai tempi dei romani.

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Restano discordanti i pareri dei  governatori italiani sulla riaperture da dopodomani. Il ministro Speranza: "C'è un rischio ma va gestito". Calano intanto decessi e malati. Polemiche per le frasi di Zangrillo del San Raffaele secondo cui "clinicamente il coronavirus non esiste piu'". Da oggi scaricabile l'app Immuni: sarà attiva solo nelle regioni test



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La pandemia, dopo il picco in Europa, avanza nelle Americhe: gli Stati Uniti si confermano il Paese più colpito, seguiti da Brasile, Russia e Regno Unito. Nel mondo sono oltre 6 milioni i casi di Covid-19 e oltre 369mila le vittime.

Allarmante è ancora la situazione del Brasile, che da solo ha registrato oltre il 60% dei contagi del giorno (33.000) portando il totale generale a quasi mezzo milione (498.440), con 28.834 morti (+1.000). A preoccupare è in particolare la situazione nelle favelas di Rio de Janeiro, dove sono quasi mille i casi confermati di Covid-19 e si registrano già 249 morti. La baraccopoli più colpita dall’epidemia è quella di Rocinha, con 195 casi confermati e 55 morti. Qui continuano a circolare minibus stipati di persone e ci sono numerosi assembramenti nelle strade, ma nessuno denuncia le violazioni del distanziamento sociale alla polizia per paura di ritorsioni. Lo stato di Rio de Janeiro conta 4.856 morti e 44.886 contagi ed è il secondo più colpito dopo quello di San Paolo.

Il resto dell’America Latina – I paesi più colpiti dopo il Brasile sono Perù (155.671 e 4.371) e Cile (94.858 e 997). Fra le nazioni con più di 5.000 casi si segnala il Messico quarto per contagi (84.627) ma secondo per vittime fatali (9.415), davanti a Ecuador (38.571 e 3.334) che non ha fornito dati ieri, Colombia (28.236 e 890), Repubblica Dominicana (16.908 e 498), Argentina (15.419 e 524), Panama (12.531 e 326) e Bolivia (8.731 e 300).

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Stasera a Non è l’Arena, il programma di Massimo Giletti su La7, ci sarà ospite Luca Palamara, ex presidente dell’Anm e magistrato al centro dello scandalo che sta terremotando la magistratura italiana. Palamara – a quanto si apprende – racconterà la sua verità sulle chat del suo telefono rese pubbliche nelle ultime settimane e svelerà le logiche delle correnti all’interno del Csm e dell’Anm.

Giletti proseguirà nella puntata di questa sera l’inchiesta sulle zone d’ombra che avvolgono il caso delle scarcerazioni dei boss dovute all’emergenza sanitaria, del Dap e quello delle intercettazioni dell’ex presidente dell’Anm Luca Palamara. Si parlerà anche del pm Nino Di Matteo che, in attesa di essere ascoltato in commissione nazionale antimafia, non indietreggia di un millimetro sul caso della nomina a capo del Dap offerta e poi ritirata dal ministro della Giustizia Alfonso Bonafede. Anzi. Di Matteo rilancia e conferma tutto quello che aveva detto nella telefonata con Giletti nel corso di “Non è l’Arena”. Si discuterà poi delle rivelazioni choc del sindaco di Napoli ed ex pm De Magistris contro il Csm. Di quella che è diventata una vera e propria bufera che si abbatte sulla giustizia Giletti ne parlerà anche con Luca Telese, Nunzia De Girolamo, Alfonso Sabella, Luigi De Magistris e Alessandro Sallusti.

Al centro della puntata di questa sera, inoltre, il difficile tema degli spostamenti tra Regioni alla luce della decisione di riaprire tutto dal 3 giugno. Sul piede di guerra alcune Regioni del Sud che minacciano misure di contenimento con controllo dello stato di salute di chi entra. Se ne parlerà con Fabrizio Pregliasco, Matteo Bassetti, Alessandro Cecchi Paone, Pierpaolo Sileri e Cristian Solinas. Poi, per una riflessione sull’attualità politica ed economica, protagonista del faccia a faccia con Massimo Giletti sarà il leader della Lega Matteo Salvini.

Nel corso della puntata le telecamere di “Non è l’Arena” torneranno in Lombardia, nuovamente al centro delle polemiche. Mentre l’Italia si avvia alla riapertura scoppia un caso tra la Regione e il presidente della Fondazione Gimbe, Nino Cartabellotta, secondo cui i dati lombardi sarebbero stati “aggiustati” per evitare la chiusura. Si annunciano querele. Parteciperanno al dibattito in studio Massimo Galli, Alessandro Cecchi Paone, Pierpaolo Sileri e Nino Cartabellotta. Infine, la riflessione sul fatto che la crisi sanitaria sta cedendo il passo a quella economica. Nei prossimi mesi la ripartenza del Paese è la priorità, un Paese rimasto fermo per troppo tempo. Come far ripartire un’economia ferma? Quale sarà la strategia migliore per affrontare i prossimi tempi dal punto di vista economico? Se ne discuterà con Alessandra Moretti, Sergio Rizzo, Carlo Cottarelli e Laura Giannoni.

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Si fa presto a dire Clint Eastwood. L’icona del cinema che diventò una star con Sergio Leone. “Con cappello o senza cappello” si disse della sua espressione. Intanto quell’attore partito come divo dei western e modello estetico per un’America bianca e conservatrice costruì una bella fetta del cinema americano dello scorso secolo. E appena finito quello si è dedicato alacremente pure a questo millennio.

Ha all’attivo 57 film come attore, 8 partecipazioni a documentari, 36 accrediti nei comparti di produzione, la composizione di 9 colonne sonore, ben 41 regie. E per 32 volte è stato autore di brani o interprete di pezzi per il cinema, lasciando il suo segno sul grande schermo anche in ruoli dietro le quinte, dove in molti non si aspetterebbero mai. Il 31 maggio 2020 questo signore nato a San Francisco qualche decennio fa compie 90 anni. Potremmo serenamente affermare tutti di cinema. Ed è ancora non soltanto sulla cresta dell’onda con una filmografia monolitica e raffinata che ha finora esplorato l’animo umano in lungo e in largo, ma mantiene spesso anche la qualità di raccontare spicchi reali del mondo di oggi.

Lo dimostra con la recente sequela di 5 film concentrati su storie vere. A partire da American Sniper, fino ad arrivare al recente Richard Jewell, ma inanellando nel mezzo Sully, Ore 15:17 – Attacco al treno e Il corriere. Ognuno di essi ci parla del conflitto dell’eroe e più ampiamente dell’antieroismo scandagliando ogni volta con lucidità e precisione controversie e vari piani di lettura che i personaggi offrono con le loro azioni e reazioni intorno agli atti di ogni protagonista, origine primaria delle narrazioni. La verità, intesa come storia realmente accaduta, Eastwood l’ha battuta anche in passato, basterebbe citare Lettere da Iwo Jima e il gemello “occidentale” Flags of Our Fathers sulla Seconda Guerra Mondiale, Invictus, visione dell’incontro tra Nelson Mandela e il rugbista François Pienaar, o Bird, biopic crepuscolare e personalissimo su Charlie Parker. Quest’ultimo costituisce un omaggio al jazzista ma al tempo stesso è forse uno dei tasselli musicali più evidenti della sua carriera (l’altro potrebbe essere un altro recente ma totalmente finzionale Jersey Boys).

In realtà il regista dagli occhi di ghiaccio ha composto, scritto e cantato molto per il cinema. Ad esempio il musical western del 1969, La ballata della città senza nome lo vede protagonista con Lee Marvin. In giorni di festa come un compleanno tanto importante fa bene tirare fuori chicche dimenticate come I talk to the trees (Io parlo con gli alberi), interpretata dall’allora soltanto attore. Esordio dietro la macchina da presa nel ’71 battendo le vie del cinema di genere, western e poliziesco gli hanno dato la fama più ampia. Ma non soltanto Ispettore Callaghan e pistoleri immortalati da Leone.

Forse proprio dal cineasta italiano sgorga tanto della direzione Eastwood. La sua regia riprende da Leone una ritmica apparentemente flemmatica, ma secca, in realtà rigorosa e precisissima sulle inquadrature, la gestione degli attori e la drammatizzazione degli attimi. Eastwood sembra inoltre più interessato di Leone a una visione realista, cruda, sociale, e solo apparentemente intransigente e reazionaria. In verità il suo occhio tratta buoni e cattivi in maniere molto simili nella forma, e nella sostanza narrativa non fa sconti a nessuno perché ognuno di loro serba in sé riserve inaspettate di bene e di male. Democratico dagli anni ‘50, ha appoggiato anche Trump nel 2016, è stato accusato di razzismo per film come Gran Torino o The Mule. Ma qual è il confine tra essere razzisti e raccontare una storia che ha per protagonista un razzista? Spesso in questi spazi si giocano partite inutili.

Eastwood con il suo cinema parla di atti di coraggio, epopee morali, twist interiori e stravolgimenti che dall’intimismo si fanno totali grazie a sceneggiature sempre bilanciate su dei crescendo tensivi adattati al genere di turno. Dal romanticismo affrontato con Meryl Streep al guerresco reaganiano Gunny, fino al suo capolavoro western modernissimo Gli Spietati, ma passando anche per l’avventuroso thriller Assassinio sull’Eiger o il gigantesco dramma di Mystic River, il regista di San Francisco ha sempre emozionato il suo pubblico e raccolto i favori del box office.

Uguale e sempre diversa la sua espressione attoriale, 5 Oscar vinti ma non uno in quel ruolo, Eastwood riesce a dare i colori giusti ai suoi personaggi duri e ruvidi, e in una magia tutta sua che ogni volta ci apre un mondo da quelle fessure dei suoi occhi. Chissà, magari un giorno potrebbe raccontarci del recente omicidio George Floyd e delle rivolte partite da Minneapolis. Per ora auguriamo a questo Maestro di Cinema di continuare ancora a lungo a sfornare bellezza ed emozione dalla sua macchina da presa.

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Non è un film di spionaggio o di fantascienza. David e Victoria Beckham hanno deciso di costruire sotto la loro casa di Cotswolds, Inghilterra, un tunnel per poter fuggire in caso di rapina o aggressione. Hanno paura, riporta Daily Express, per questo la coppia miliardaria ha voluto apportare qualche modifica alla villa a pochi chilometri da Oxford, casa tra l’altro in cui tutta la famiglia, i coniugi più i quattro figli, ha passato la quarantena in questo periodo di lockdown.

La notizia è stata diffusa pochi giorni dopo che il centrocampista del Tottenham Dele Alli è stato derubato, malmenato e minacciato con un coltello nella sua casa a Nord di Londra, da due uomini con il volto coperto che hanno fatto irruzione attraverso un’entrata posteriore e hanno rubato gioielli, contanti e orologi di valore. Non stupisce quindi che i Beckham abbiamo scelto di proteggere almeno se stessi facendo costruire un tunnel sotto salotto e cucina che porti direttamente al garage. L’architetto, che ha disegnato il progetto, ha raccontato che verrà realizzata una nuova cantina nel seminterrato sotto l’attuale garage e che questi verranno collegati tramite una passerella. La cantina, usata normalmente per riporre pregiate bottiglie di vino, in caso di necessità si trasformerà in un rifugio per tutta la famiglia Beckham. Secondo il progetto, la villa verrà estesa di ben tre nuovi vani sotterranei collegati tutti alla dependance.

David e Victoria Beckham potrebbe aver preso spunto dagli amici Harry e Meghan, i duchi del Sussex. Proprio la scorsa settimana, infatti, la coppia ha deciso di aumentare le misure di protezione nella casa di Los Angeles con guardie armate presenti ventiquattro ore su ventiquattro davanti alla loro villa e droni che la sorvolano.

L'articolo David e Victoria Beckham costruiscono un tunnel sotterraneo: “Paura di essere rapinati o aggrediti” proviene da Il Fatto Quotidiano.



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Sembra la trama del film “Metti la nonna in freezer” con Fabio De Luigi e Miriam Leone ma è tutto vero. Una donna di 61 anni, Cynthia Carolyn Black, è stata arrestata per aver nascosto la morte della nonna e occultato il suo cadavere nel congelatore di casa per 15 anni per continuare a incassare l’assegno della sua pensione. A fare la macabra scoperta sono state due donne interessate alla proprietà, durante una visita con l’agenzia immobiliare che aveva in vendita l’abitazione dove era stato nascosto il corpo.

I fatti sono accaduti nel febbraio del 2019 in Pennsylvania, Usa, e, come riferisce il Daily Mail, martedì 26 maggio la signora Black è stata arrestata per abuso di cadavere e appropriazione indebita. In manette oltre a lei è finito anche Glenn Black, il suo compagno 55enne. Ci sono voluti però 15 mesi di indagini prima che la polizia riuscisse a ricostruire come fossero andate davvero le cose.

È emerso così che la nonna, Gleonora Delahay, è morta nel 2004 all’età di 97 anni e sua nipote ha deciso di nascondere il suo corpo nel congelatore che aveva nel seminterrato per continuare ad incassare i suoi assegni di previdenza sociale, cosa che ha fatto fino al 2019. Con questo denaro è riuscita anche ad accendere un mutuo e a trasferirsi in un’altra casa, mettendo in vendita quella dove viveva l’anziana. Non è chiaro quanto abbia intascato dalla truffa, ma si parla del versamento di almeno 186mila dollari dal 2001 al 2010.

L'articolo Nasconde il corpo della nonna morta nel congelatore per 15 anni per incassare la pensione: la scoperta durante la visita di un’agenzia immobiliare proviene da Il Fatto Quotidiano.



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Un incendio è scoppiato nella notte tra il 30 e il 31 maggio all’interno di Borgo Mezzanone, l’insediamento dove vivono 1.500 migranti, molti dei quali impiegati come braccianti nelle campagne del Foggiano. Nessuno degli ospiti è rimasto ferito, ma il rogo ha distrutto sei baracche. Non è la prima volta che nel campo si verificano incendi: l’ultimo rogo che risale al 29 marzo scorso distrusse una trentina di baracche. Nei mesi precedenti altri episodi analoghi hanno colpito Borgo Mezzanotte causando la morte di tre migranti. Lo scorso 4 febbraio l’esplosione di una bombola del gas uccise una donna africana. Ad aprile dello scorso anno, perse la vita un gambiano di 26 anni a causa dell’incendio partito da un allaccio abusivo alla corrente elettrica e il primo novembre 2018, invece, rimase ucciso dalle fiamme un altro giovane africano.

I vigili del fuoco hanno lavorato tutta la notte per spegnere il rogo. Subito dopo sono iniziate le operazioni di bonifica dell’area. Da quanto si apprende, anche questa volta l’incendio è nato dal corto circuito di uno dei tanti allacci abusivi alla rete elettrica o da un braciere lasciato acceso per scaldarsi. “Nel frattempo il Governo, preoccupato per la frutta e la verdura, continua a fare demagogia sulla nostra pelle e a rimanere sordo alle nostre grida”, ha commentato su Facebook il sindacalista dell’Unione sindacale di base, Aboubakar Soumahoro, impegnato nella difesa dei diritti dei braccianti e promotore dello sciopero di alcuni giorni fa. Soumahoro aveva già chiesto al governo di prevedere una sistemazione abitativa per i migranti dopo l’ultimo incendio e lo scorso 21 maggio ha guidato una protesta a Foggia contro la nuova regolarizzazione temporanea di alcune categorie di lavoratori, in particolare i braccianti impiegati in agricoltura. “Se nelle campagne continueremo a essere invisibili – ha aggiunto il sindacalista – porteremo gli stivali a Roma“.

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Riaprono le regioni! – la mia vignetta per Il Fatto Quotidiano oggi in edicola!

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Il principe Joachim del Belgio, nipote del re Filippo, è risultato positivo al coronavirus dopo aver partecipato a un evento in Spagna. Lo ha confermato il Palazzo reale, che però smentisce le ricostruzioni della stampa spagnola secondo cui il terzogenito della principessa Astrid, sorella del re Filippo, si sarebbe recato a Cordoba per partecipare a una festa privata insieme a un gruppo di amici e familiari.

Il Palazzo reale conferma che Joachim ha viaggiato in Spagna nei giorni scorsi, ma per motivi professionali “nell’ambito di uno stage in un’azienda, e il 26 maggio ha partecipato a una riunione familiare“. Sempre secondo la stampa spagnola, Joachim avrebbe anche violato le regole stabilite dalle autorità locali secondo cui le riunioni private sono permesse fino a un massimo di 15 partecipanti. L’evento a cui avrebbe preso parte il principe belga, che da diversi anni vive in Spagna insieme alla sua futura sposa, ne avrebbe contate invece 27.

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“Ho chiesto al premier di abolire l’Iva fino al 2021“. Sandra Milo, intervistata dal Corriere della Sera, racconta il suo incontro con il presidente del Consiglio Giuseppe Conte a Palazzo Chigi quando lui ha accettato di riceverla dopo che lei si era incatenata ai cancelli mercoledì scorso. “Sul posto mi ha accompagnato Alessandro Di Sarno delle Iene. Lì c’erano Juri Carnevali, della delegazione autonomi e partite Iva, e Daniele Zuccarello. Il premier ci ha ricevuti tutti e tre. Siamo in tanti, noi lavoratori con partita Iva, e non solo quelli dello spettacolo: gli artigiani, i parrucchieri, i ferramenta”.

Una richiesta forte quella della Milo che, però, non sembra pessimista: “Il premier ha la qualità rara di spiazzarti: questa è l’arma vincente di Giulio Cesare e dei grandi strateghi”. La protesta dell’attrice 87enne è cominciata ben prima, il 18 maggio, con lo sciopero della fame a cui poi ha aggiunto la scelta più eclatante del 27 maggio: “Volevo fare come le suffragette, che si sono incatenate per ottenere il diritto di voto. Lo sciopero della fame, invece, non mi è costato: da quando è cominciata la pandemia ho ridimensionato la mia dieta, non riuscivo a mangiare con l’angoscia per tutti quei morti”.

Ed è in quel periodo che Sandra Milo e il presidente Conte hanno avuto il primo scambio: “Il 20 maggio mi ha chiamato. Pensavo a uno scherzo. Mi ha detto che non sopportava che una grande attrice come me facesse lo sciopero della fame. Così mi ha chiesto un favore: di farmi preparare il mio piatto preferito e mangiarlo. Me lo sono cucinato io, gli spaghetti al pomodoro. Poi ho ricominciato il digiuno“.

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Come in molte altre città degli Stati Uniti, migliaia di persone hanno invaso le strade di New York per protestare contro la violenza e la brutalità delle forze di polizia, finite nel mirino di altrettanti americani dopo l’uccisione dell’afroamericano George Floyd a Minneapolis, in Minnesota. I manifestanti sono stati scortati dagli agenti della Polizia di New York che hanno creato dei cordoni durante le proteste

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Dal crollo del ponte di Yarmouth, in Inghilterra nel 1845, passando per quello di Angers in Francia nel 1850, e poi Stati Uniti, Scozia, Inghilterra. Storie diverse di ponti, viadotti e cavalcavia crollati negli ultimi duecento anni in diverse parti del mondo per via di errate progettazioni, mancati controlli e assenza di manutenzione. Le ha volute raccogliere in una serie di racconti, distribuiti gratuitamente attraverso la sua pagina Facebook, l’attore teatrale Nicola Pannelli, ideatore del progetto collettivo “La morte che viene dall’alto” dal quale sono tratti i frammenti riportati in questo video.
L’artista che dal 2001, a Genova, anima l’associazione di teatro civile ’Narramondo’, ha chiamato a raccolta attori, musicisti e interpreti per riportare alla luce storie lontane e dimenticate, scoperte dall’autore durante la ricerca che sta portando avanti in vista di un futuro (e per ora ipotetico) lavoro teatrale dedicato alle vittime del crollo del Ponte Morandi. “Ma quella di Genova è una ferita ancora troppo recente – spiega Pannelli – ed è troppo importante ora stare a fianco alle famiglie alla ricerca della giustizia, attendendo gli sviluppi giudiziari che ci auguriamo possano individuare responsabilità”. Per questo l’autore ha scelto di raccontare vicende analoghe a quella del 14 agosto 2018: “Ho considerato i crolli che hanno causato la perdita di vite umane e che quindi prevedevano una responsabilità penale per i colpevoli, non ho preso in considerazione crolli dovuti a cause naturali, né guerre o atti di sabotaggio”.
Così Pannelli ha selezionato testimonianze, dichiarazioni, immagini e documenti per vedere “come sono andate a finire” quelle drammatiche vicende, che in comune con quella di Genova hanno una sequela di allarmi inascoltati, mancate manutenzioni, ricerca del profitto e tentativi di insabbiamento: “Rileggendo i documenti dei disastri del passato è inevitabile temere che i parenti delle vittime possano venire traditi e abbandonati, in questo senso penso che queste storie parlino anche di loro, senza nominarli, ma avendoli sempre presenti”. Le storie pubblicate in questi giorni sono otto e ne seguiranno altre nei prossimi, il format prevede un video con uno stralcio della vicenda seguito da una breve narrazione scritta dei fatti, dalla traduzione di alcune fonti reperite e una serie di link per approfondire.
Il progetto è seguito con interesse anche da Emmanuel, fratello di Henry Diaz, una delle 43 vittime del crollo di Ponte Morandi: “Oggi come ieri emerge chiaramente quanti danni può provocare l’egoismo dell’uomo – commenta – Quanto alcune persone siano capaci di ignorare i segnali che preannunciano una tragedia, pur di evitare un danno d’immagine, pur di non ammettere le proprie carenze, i propri sbagli. È sul serio tanto importante non perdere queste memorie, non ignorare quello che è già accaduto, se lo si fa si rischia di cadere nuovamente nelle medesime tragedie”.
La canzone di sottofondo al videoè una cover, realizzata per il progetto da Pier Luigi Pasino, di un brano originale dedicato alla tragedia del ponte di Great Yarmouth, quando 79 persone, prevalentemente bambini, rimasero vittime del crollo del ponte sospeso dal quale assistevano allo spettacolo di un clown. Dalla commissione di inchiesta emerse che il proprietario della concessione del posto, per massimizzare i profitti del pedaggio, aveva aumentato di una corsia l’impalcato, senza alcuna verifica della sostenibilità statica.

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Dopo il governatore della Regione Campania Vincenzo De Luca e il suo lanciafiamme, ora anche Al Bano è diventato il protagonista di un videogioco ironico ispirato alla gaffe fatta sui dinosauri. Ospite dell’ultima puntata di Domenica In, il cantante di Cellino San Marco aveva infatti affermato che la loro estinzione è da imputare all’uomo: un erroraccio storico (i dinosauri sono scomparsi circa 65 milioni di anni fa, mentre l’uomo esiste da “soli” 200mila anni, ndr) che aveva scatenato subito l’ironia sui social.

Così il giovane sviluppatore e youtuber, Samuele Sciacca ha realizzato anche un videogioco a tema dal titolo eloquente: Al Bano vs Dinos, disponibile su Shuttlestudio.it. Grafica semplice ed efficace, il divertente gioco vede Al Bano protagonista, raffigurato con le sembianze di un cavernicolo in stile Fred Flinstone e ovviamente il suo immancabile cappello bianco con il nastro nero, impegnato a scacciare più dinosauri possibili con la sua arma infallibile: i suoi prodigiosi acuti. Fondamentale il tempismo: se emesso quando il dinosauro è troppo lontano, risulta infatti inefficace. Il tutto con in sottofondo una versione remix di “Felicità”. Neanche a dirlo, il gioco è già diventato virale.

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Cari esperti,
chi vi scrive è solo un maestro di campagna che da qualche anno insegna in piccoli paesi, persino in frazioni. So che non prenderete in considerazione le mie riflessioni ma mi auguro che qualcuno almeno le legga. La prima domanda che mi viene spontaneo farvi è: ma quand’è stata l’ultima volta che siete entrati in una scuola? E dove?

Perché da quello che avete scritto nel documento presentato alla ministra dell’Istruzione Lucia Azzolina, sembra che viviate in un altro Paese, in Svezia o forse in Svizzera dove gli ambienti scolastici sono ben diversi dai nostri. Ho l’impressione che non abbiate mai letto nemmeno il rapporto annuale di “Cittadinanzattiva” sull’edilizia scolastica.

Chiedete che vi sia nelle classi un metro di distanza tra un banco e l’altro. Ma le avete viste le nostre aule? Ci stanno 20-22 bambini accalcati. Spesso non c’è nemmeno lo spazio per camminare tra i banchi. Pensare di avere un distanziamento come quello prospettato significa spezzare la classe. Dividere il gruppo vuol dire avere altri spazi che non sempre ci sono.

Vogliamo pensare al miracolo ovvero al fatto che i nostri enti locali costruiranno in tre mesi nuove scuole o nuove aule? Ma davvero credete che questo sia possibile?Altra possibilità è quella di fare dei turni al mattino e al pomeriggio ma in questo caso andremmo incontro alla necessità di avere del personale docente in quantità maggiore.

Altra questione: la didattica. I maestri sanno che il lavoro in aula è condizionato dall’arredamento scolastico. Con i banchi distanti l’uno dall’altro un metro non si potrà altro che fare lezioni frontali tornando indietro nel tempo. La disposizione dei banchi non è mai casuale. Addio al lavoro di gruppo. A che scuola avete pensato dando queste indicazioni impossibili da realizzare nelle scuole italiane? I metri, poi, diventano due se siamo in palestra. Certo, avrete pensato che lì c’è più spazio e quindi è possibile.

Ma che si fa in palestra? Cos’è l’educazione motoria per dei bambini? Ho l’impressione che non abbiate parlato con alcun insegnante di educazione fisica della scuola primaria: che lezione di motoria si può fare divisi a due metri di distanza? Addio al gioco, elemento fondamentale nella scuola primaria. Torneremo a fare flessioni ed esercizi individuali.

Ma passiamo alla questione mensa. Anche qui si chiede di rispettare le distanze di un metro. Ora anche in questo caso ho l’impressione che nessuno di voi sia mai entrato in un refettorio: in mensa ci sono tavoli da sei proprio per contenere lo spazio che in genere è molto ridotto. Spesso si tratta di aule trasformate dai Comuni in mense. So già la vostra risposta prevista dal documento: turnazioni oppure “lunch box”.

Nel documento non è chiaro chi dovrà fornire la “schiscetta”. Le famiglie? Il Comune? Che costi avrà tutto ciò? Se i bambini mangeranno nelle singole aule di quanti insegnanti avremo bisogno per fare vigilanza? E poi se il pasto sarà portato da casa dove sono finite tutte le ritrosie dei mesi scorsi su questa questione?

Infine non possiamo non parlare degli ingressi e delle uscite dalle scuole. Gli esperti pensano a entrate scaglionate. Quante ore ci metteranno nelle scuole dove esiste la prima A, B, C, D. E, F e poi la seconda A, B, C, D, E e via dicendo?

Non ci resta, cari esperti, che aspettare le indicazioni della task force del ministero che con una riservatezza pari a quella dei Servizi Segreti ha elaborato una lettera e un documento già nelle mani della ministra ma che il mondo della scuola e le famiglie non possono conoscere in ragione di chissà quale segreto di Stato.

Scusate, cari esperti, io son solo un maestro ma forse nel vostro comitato uno di noi vi avrebbe chiarito le idee sulla scuola italiana.

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SpaceX Falcon 9, il lancio del razzo di costruzione della SpaceX di Elon Musk è riuscito con successo, nonostante le precarie condizioni del meteo. A bordo due veterani della Nasa, gli astronauti Robert Behnken e Douglas Hurley. E’ la prima volta che viene lanciato un razzo privato. Partito dal Kennedy Space Center in Florida e il razzo è diretto alla Stazione spaziale internazionale

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Nonostante il miliardo di euro previsto nel pacchetto Cultura del Decreto Rilancio, le misure adottate non sono ancora sufficienti per supportare tutta la filiera del mondo della musica. Lo dicono non solo i discografici – come ci ha raccontato nella nostra intervista Dario Giovannini, direttore generale Carosello Records e vice presidente di PMI Produttori Musicali Indipendenti Italia –, ma anche i tecnici e gli operatori dello spettacolo, che FqMagazine ha contattato per farci raccontare perché quello che si è fatto non è ancora sufficiente.

Si parla di oltre 400mila lavoratori e imprenditori che producono direttamente quasi 100 miliardi di euro l’anno e che generano ricchezza per oltre 250 miliardi, contribuendo al pil per circa il 16%, secondo uno studio fatto da Symbola nel 2018. Tutto parte da una amara considerazione: con l’attuale Decreto all’industria della cultura va poco più dell’1% dei fondi stanziati per affrontare l’emergenza.

L’unica soluzione per farsi sentire in maniera chiara e netta dal ministro Dario Franceschini è stata quella di riunirsi sotto un unico coordinamento: “La musica che gira”, composto da manager, produttori, artisti, musicisti, tecnici, consulenti, promoter, etichette discografiche, agenzie di booking, proprietari di live club e uffici stampa. Una piattaforma di confronto tra lavoratori, imprenditori e professionisti della musica e dello spettacolo. Un tentativo estremo per farsi ascoltare e non procedere in ordine sparso.

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Ogni cultura e momento storico, come sappiamo, adotta e persegue un determinato ideale di bellezza.

Oggi nel mondo occidentale, soprattutto a seguito delle mode dettate dagli “influencers”, il raggiungimento di tale parametro si sta traducendo in una vera e propria corsa alla perfezione, dimenticandosi del fatto che ciò a cui continuamente si aspira non costituisce un modello già presente in natura, bensì uno stereotipo costruito e riproposto costantemente dalla cultura prevalente.

Ci confrontiamo abitualmente con dei modelli proposti tramite le pubblicità e i social media (soprattutto i canali Instagram) in cui, attraverso un’attenta selezione e cura dell’immagine, si intende fornire lo status symbol di un corpo giudicabile a tutti gli effetti come attraente. Questo sollecita il tentativo da parte della maggioranza di adeguarsi ai modelli presentati, mettendo in mostra un’immagine di sé che risulti quanto più possibile appetibile e avvenente e che induce a vergognarsi delle proprie imperfezioni. La conseguenza potenziale è quella di essere bersagliati da commenti negativi nel caso in cui non si corrisponda agli standard considerati canonici.

Per questo negli ultimi anni si è sentito molto parlare di quello che in inglese è conosciuto col termine body shaming, di cui numerose persone cadono vittima. Si tratta a tutti gli effetti di una forma di bullismo in cui l’individuo viene giudicato per la propria forma fisica, in particolare attraverso le piattaforme social e il web.

Da un’indagine svolta dalla Nutrimente Onlus questo fenomeno sembrerebbe colpire una donna su due e le parti del corpo maggiormente prese di mira risultano, in ordine: le gambe, la pancia, il fondoschiena e i fianchi. Oltre all’avere qualche chilo di troppo (fat shaming), anche l’eccessiva magrezza può dar adito a giudizi denigratori (thin shaming).

Tuttavia questo fenomeno non sarebbe appannaggio esclusivo del mondo femminile: le statistiche indicano che il 94% delle adolescenti è stato vittima di body shaming e quasi il 65% dei ragazzi adolescenti ha riferito di essere stato oggetto di critiche e commenti umilianti sul proprio aspetto fisico.

Il body shaming costituisce senza dubbio una tendenza a dir poco imbarazzante e inaccettabile per chiunque si permetta di praticarlo, anche involontariamente. Complice è la noncuranza che si può agire comodamente dietro ad uno schermo verso una qualsiasi persona – popolare o impopolare, del mondo dello spettacolo o meno – sentita come lontana da noi, non conosciuta, e per questo oggettificata e mercificata. Le foto o i video postati sui social, così come l’immagine di chi appare in tv, potrebbero essere equiparati ad una sorta di “mostra d’esposizione”, in cui chi guarda diventa lo spettatore e il giudice delle “opere” di una galleria d’arte, sentendosi legittimato ad avanzare rimproveri qualora queste non risultino di comune gradimento.

Prima di avanzare critiche, sarebbe adeguato chiedersi come possa reagire internamente la persona che le riceve, soprattutto se si tratta di ragazzi giovani con una personalità ancora non del tutto sicura.

Ciò che molti sembrano sottovalutare riguarda l’importanza dell’immagine corporea come aspetto cruciale dell’autostima della persona, e lo diviene ancora di più nel rapporto che si appresterà ad instaurare con gli altri, significativi e non. L’autostima di una persona va oltretutto a riversarsi sulla sfera intima e sessuale e conduce all’instaurarsi di un’immagine di sé come individuo non degno di essere guardato, toccato, amato: rappresentazione che, se non adeguatamente affrontata e analizzata in tutte le sue errate distorsioni che si vanno via via radicando, può rischiare di irrigidire la modalità di approccio e di avvicinamento agli altri, creando convinzioni errate e deleterie per la persona stessa.

Fondamentale, oggi più che mai, è l’attitudine a prendersi cura del proprio corpo, proteggendolo dagli attacchi infondati da parte degli altri e dalle proprie convinzioni di inadeguatezza. In fondo, siamo tutti portatori di insicurezze e dubbi, e proviamo lo stesso grado di vergogna nel momento in cui veniamo additati.

Il body shaming costituisce attualmente un reato perseguibile penalmente attivando una denuncia presso la polizia postale e i carabinieri. A gennaio 2020 la Camera ha infatti accettato la proposta di legge contro body shaming e fat shaming, la quale prevede 8 articoli che rappresentano un’estensione della legge sul cyberbullismo approvata nel 2017. Di recente è stato inoltre attivato un numero telefonico di assistenza gratuita attivo 24 ore su 24 (il 114) e resa disponibile un’app anti-violenza.

Si ringrazia per la collaborazione la dr.ssa Elisa Ginanneschi

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di Massimiliano Doniselli*

In che modo questa pandemia ha impattato sulle vite lavorative dei tecnici di laboratorio? È una domanda non molto gettonata, anche in questo periodo. Medici, infermieri, e operatori sanitari in genere, delle terapie intensive e di reparti simili hanno avuto, giustamente aggiungo io, la precedenza.

Esistono però altre figure, non meno importanti, che sono appunto i tecnici di laboratorio. E cosa direbbero se interrogati? Come la pandemia ha modificato il loro vivere la quotidianità lavorativa? Io posso rispondere per me e per un pugno di colleghi che mi hanno generosamente affidato questo onore/onere. Confrontandomi con le diverse sensibilità di molti di loro, sono emerse sensazioni e immagini che, come spesso accade, sono più rappresentative di pensieri e parole.

Noi turniamo sulle 24h, sette giorni su sette, tutto l’anno. Quando prestiamo servizio notturno, al netto del tanto o poco lavoro che possiamo trovare, constatiamo e viviamo un innegabile dato di fatto: la notte è silenziosa e buia. Il via vai di gente e di ambulanze che di giorno affollano e danno vita ai viali dell’ospedale, di notte scema, si affievolisce fino a scomparire.

Ed è proprio il frantumarsi di questa calma apparente, dove ogni suono rimbomba, dove ogni luce abbaglia, che ha segnato le prime settimane della pandemia. File di ambulanze si sono affollate davanti al nostro padiglione, ogni notte, tutte le notti. Ambulanze silenziose, con le loro luci blu filtrate attraverso le finestre ad indicare il loro arrivo, hanno dato la dimostrazione plastica di come una situazione apparentemente surreale e incredibile (all’inizio la pandemia era più o meno così per tutti) fosse terribilmente reale.

Stava accadendo davvero e ancora non si parlava di lockdown, di mascherine obbligatorie o di distanza sociale. Queste immagini, legate indissolubilmente alle sensazioni evocate, sono rimaste indelebilmente nella nostra memoria.

Altra sensazione che ha caratterizzato le settimane dai primi di marzo in poi, è quella di straniamento, evocata dal crollo sistematico delle nostre certezze e abitudini, sia interpersonali che lavorative. Le nostre procedure, i nostri ritmi, la nostra organizzazione, il nostro stare insieme, non sono mai stati considerati realmente provvisori. Negli anni certi modi sono stati interiorizzati come granitiche verità, come comportamenti naturali e non modificabili.

Il Covid ha riscritto buona parte di questo scenario. Il giorno prima ci si poteva toccare, si poteva parlare senza curarsi della distanza, si organizzavano interventi, terapie, procedure. Ma in pochi giorni è cambiata ogni cosa. Tutto ciò che in passato pareva urgente o necessario è stato rivisto e stravolto in funzione della pandemia. Tutto ciò che sembrava naturale, così naturale da essere considerato innato, è stato modificato in pochi giorni (delle volte in poche ore).

Col tempo ci si abitua a tutto, ci si adatta ad ogni cosa. Ma per adattarsi occorre tempo. Tempo per pensare, per aggiustarsi, per uscire da un modello mentale ed entrare in un altro. Tempo che nessuno ha avuto. Comportamenti e pensieri costruiti in anni, frantumati in pochi istanti. Modalità accettate e perfezionate nell’arco di una vita, riviste drasticamente in poche ore. E senza sapere come e quando se ne sarebbe usciti.

Altre cose potrebbero essere dette, ma queste sono le più rappresentative e indelebili che possiamo raccontare e testimoniare. Questa pandemia ha riscritto molte cose, al lavoro e a casa, e nulla di quello che si è vissuto potrà essere dimenticato. Ma forse è proprio questo un punto da considerare: perché dimenticare?

È accaduto. E siamo tutti dolorosamente consapevoli che accettare ciò che è stato, di qualsiasi cosa si tratti, è strettamente collegato all’idea di ricordare, di non dimenticare, di portare con sé.

* voce del Centro Trasfusionale del Sacco

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La storia infinita della mega discarica Montedison di Bussi sul Tirino (Pescara) rischia di esplodere per l’ennesima volta a poco più di un mese dalla sentenza storica con cui il Consiglio di Stato ha confermato che Edison dovrà provvedere alla bonifica delle aree inquinate 2A e 2B e zone limitrofe, a ridosso del centro abitato del comune abruzzese. Ad aprire un nuovo intricato capitolo della vicenda è stata la decisione del ministero dell’Ambiente di annullare la gara d’appalto (da 38 milioni di euro) aggiudicata nel lontano febbraio 2018 per la bonifica delle due aree, sulla base di un parere di un Consiglio superiore dei lavori pubblici. Le ragioni in una lettera inviata al Comune di Bussi e firmata dal direttore del ministero dell’Ambiente, Giuseppe Lo Presti, nella quale si afferma che era emerso “uno scarso grado di approfondimento dei contenuti progettuali iniziali posti a base di gara che, a parere del Consiglio Superiore, rendeva impossibile la redazione di un progetto definitivo corretto, approfondito e rispondente ai requisiti minimi della normativa tecnica vigente”. Ad annunciarlo è stato, qualche giorno fa, il sindaco Salvatore Lagatta, ricordando di aver contestato quel parere e anticipando che avrebbe presentato querela contro il ministero per omessa bonifica. Già a gennaio, prima della sentenza del Consiglio di Stato, il primo cittadino aveva puntato i piedi per cercare di sbloccare gli interventi di bonifica e ripercorso tutte le tappe burocratiche della vicenda.

UNA VITTORIA SVUOTATA – “Sono riusciti a trasformare una vittoria del nostro territorio in una sconfitta, cancellando repentinamente una procedura lunga anni per la bonifica integrale della discarica” è l’accusa dei rappresentanti del Prc, il segretario nazionale Maurizio Acerbo e il segretario provinciale di Pescara Corrado Di Sante, rivolta al ministro dell’Ambiente, Sergio Costa e al sottosegretario del dicastero, Roberto Morassut. E ancora: “Tutti sanno che interesse della Edison è quello di non fare la bonifica con rimozione integrale dei rifiuti (prevista nel progetto del commissario straordinario Adriano Goio, chiamato in Abruzzo a marzo del 2006 e scomparso nel 2016, ndr), ma una tombatura che costa molto meno ma lascia le sostanze tossiche sul nostro territorio”.

LE ACCUSE DEL Forum H2O – Non si è fatta attendere la reazione di Augusto De Sanctis, del Forum H2O che accusa il ministero dell’Ambiente di mancata trasparenza e manifesta diversi dubbi “sulla reale sussistenza delle tre criticità sollevate sul progetto dal Consiglio Superiore”: in primis l’assenza di impermeabilizzazione delle aree di stoccaggio provvisorio dei rifiuti e poi la mancanza di indicazioni sull’elenco delle discariche dove inviare i rifiuti e l’analisi di rischio. “Per le prime due si possono chiedere integrazioni, ammesso e non concesso che siano reali” commenta De Sanctis, raccontando di non aver avuto accesso alla documentazione “che il ministero da mesi ci sta negando nonostante un ricorso vinto all’anti-corruzione”. Per la questione della mancata procedura di analisi di rischio, invece, il Forum sottolinea che sui rifiuti non è prevista l’analisi di rischio. La procedura semplificata introdotta con l’articolo 242bis del Testo Unico dell’Ambiente, infatti, permette di saltare la fase di analisi di rischio “proprio per velocizzare il disinquinamento”. Analisi di rischio che, tra l’altro, non si applica ai rifiuti (nel caso specifico si tratta di due discariche) ma solo ai terreni contaminati. “Con la procedura semplificata – aggiunge il Forum – anche la caratterizzazione (cioè lo studio della presenza dei contaminanti) viene rinviata a dopo l’intervento di rimozione dei materiali”. Al di là delle presunte criticità, il Forum sottolinea che “il documento del Consiglio Superiore che è un parere interlocutorio” e pertanto “non può essere usato strumentalmente, visto che lo stesso ministero dell’Ambiente spesso aspetta anni dalle aziende responsabili delle contaminazioni per consentire integrazioni e modifiche progettuali”. Stesso discorso per le prescrizioni. “Il ministero dell’Ambiente per le opere in procedura di Valutazione di Impatto Ambientale introduce spesso decine di prescrizioni – ricorda Augusto De Sanctis – che vano a modificare il progetto migliorandolo. E ci pare che lo stesso Consiglio Superiore, nella conclusione del suo parere, apra proprio a modifiche del progetto”. Il rischio è quello di ritardare di 6-7 anni le bonifiche.

LE RASSICURAZIONI DI MORASSUT – Sulla questione è intervenuto il sottosegretario al ministero dell’Ambiente Roberto Morassut. “L’Abruzzo non perderà i 50 milioni destinati al SIN di Bussi sul Tirino. Edison è stata riconosciuta responsabile della contaminazione di un’area specifica, di circa 5 ettari che è parte di un SIN ben più vasto, di oltre 230 ettari” ha spiegato”. Per quella parte, in pratica, Edison dovrà ottemperare (dando seguito alla sentenza definitiva del Consiglio di Stato) alla bonifica e, ha aggiunto il sottosegretario, sta già implementando le misure di prevenzione sul sito per iniziare le successive attività di caratterizzazione. Le risorse pubbliche già destinate alla bonifica per 50 milioni e attribuite alla ‘contabilità speciale’ e che dovevano servire a finanziare l’intervento a spese dello Stato, torneranno a breve – assicura Morassut – nella disponibilità del ministero dell’Ambiente e potranno essere utilizzate, d’intesa con la Regione Abruzzo, per altri interventi di bonifica all’interno dello stesso SIN. Ma che accadrà rispetto alla gara in corso? Per Morassut l’avvio del procedimento per l’annullamento della gara oggetto dell’intervento è stato “un atto dovuto per la trasparenza e a salvaguardia di importanti risorse pubbliche, in presenza di un progetto, quello posto a base di gara, giudicato inadeguato da parte del Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici, il maggiore organo tecnico consultivo dello Stato”. Il ministero avrebbe dunque agito “in piena coerenza e correttezza a tutela del territorio e dei cittadini abruzzesi”.

QUEL DOCUMENTO DELL’ARTA – Ma il Forum non ci sta. E porta, come prova di quanto sostenuto, un documento dell’Agenzia regionale per la Tutela dell’Ambiente (Arta) datato 2015. Perché se una delle criticità tecniche sollevate dal direttore del ministero dell’Ambiente Giuseppe Lo Presti, sulla base di un parere del Consiglio Superiore dei lavori Pubblici riguardava la mancanza della procedura di analisi di rischio, il Forum ha divulgato il documento in cui l’Arta agenzia esaminava, ancora prima dell’indizione della gara, il progetto del commissario straordinario e spiegava che Goio aveva deciso proprio di seguire le procedure semplificate. Motivo per cui l’agenzia aveva imposto solo una serie di prescrizioni “al fine di migliorare il progetto in fase esecutiva”. Il documento risulta sia stato inviato anche al ministero dell’Ambiente. Solo ora “dopo ben 5 anni, a gara aggiudicata – accusa il Forum – si vorrebbe far valere una criticità che addirittura non esiste. Sarebbe uno scandalo ripartire da zero”.

I RITARDI ACCUMULATI – Anche perché, come sottolineato anche dalla Commissione Ecomafie, in una relazione del 2016 sullo stato delle bonifiche dei siti contaminati (qui il link del pdf) in questa vicenda si sono accumulati diversi ritardi da parte delle varie istituzioni e per diverse ragioni, dal proliferare delle conferenze dei servizi, alle “estenuanti interlocuzioni tra ministero dell’Ambiente ed enti locali”, fino alle sovrapposizioni di competenze e al rapporto “di scarsa collaborazione, se non di vero e proprio conflitto, tra commissario e Arta Abruzzo”.

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L’Idroscalo di Milano, il “mare” dei lombardi riparte. Aperto, come molti parchi, dal 7 maggio, nell’area spiaggia qualcuno prende già il sole, ma le passeggiate vanno ancora per la maggiore. Dal 1 giugno, secondo la nuova ordinanza della Regione Lombardia, potrà ripartire anche l’area delle piscine. Così come per le spiagge della riviera, anche qui sono state prese misure per mantenere il distanziamento sociale ed evitare la diffusione del coronavirus. “Noi abbiamo creato una sorta di box da 10 metri quadri, anche 12 in alcuni casi (disegnato con un gesso a terra ndr.) per mantenere la distanza tra uno spazio e l’altro – spiega al Fattoquotidiano.it Andrea Giorgi, gestore delle piscine “Punta est” dell’Idroscalo e di alcune spiagge lungo la stessa riva – Secondo la nuova ordinanza un nucleo familiare può stare più vicino, quindi calcoliamo che una stessa famiglia può occupare un singolo ‘box'”. In corso i lavori per riaprire anche le piscine in sicurezza. I numeri sono ovviamente ridotti, circa la metà secondo Giorgi. “Prima per specchio d’acqua avevamo 300 ingressi – racconta – Ma quest’anno non arriveremo a quei numeri perché chi entra è obbligato a prendere il lettino ed evitiamo così gli asciugamani a terra”. In media, calcola il gestore, nei giorni più pieni come la domenica si rinuncerà a 150 posti, ma “l’importante è essere ripartiti”. Oltre al contingentamento, prevista anche una sanificazione ad hoc. “Abbiamo predisposto delle pompe nebulizzanti e dei prodotti appositi – continua Giorgi – così ogni volta che qualcuno va in bagno o utilizza un lettino possiamo utilizzarli”. Come da regolamento della città metropolitana di Milano, di cui l’Idroscalo fa parte, è obbligatoria la misura della temperatura all’ingresso del parco. “Noi la misureremo ulteriormente in entrata alle piscine – conclude Giorgi – Così da stare più sicuri”.

L'articolo Milano, la Fase 2 dell’Idroscalo: “In spiaggia ‘box’ da 10 metri quadri e sanificazione continua in piscina. Ingressi? La metà, ma conta ripartire” proviene da Il Fatto Quotidiano.



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Ancora una volta, migliaia di persone sono scese in piazza nelle principali città degli Stati Uniti per protestare contro la morte del 46enne afroamericano George Flyod a Minneapolis per mano della polizia. L’ondata di malcontento non accenna a placarsi, tanto che venticinque città in 16 Stati, riferisce la Cnn, hanno imposto un coprifuoco mentre la Guardia Nazionale è stata inviata in circa dodici Stat e nel Distretto di Columbia, oltre che ovviamente lungo il perimetro della blindatissima Casa Bianca, dove centinaia di manifestanti si sono dati il secondo appuntamento. Gli agenti hanno usato lo spray urticante per disperdere la folla, ma i dimostranti hanno resistito e alcuni di loro hanno rimosso le barricate e lanciato frammenti di asfalto. È stato dato alle fiamme anche un bidone della spazzatura.

Una troupe di Fox News è stata presa di mira da un gruppo di dimostranti che hanno circondato il reporter Leland Vittert mentre era in diretta e lo hanno inseguito ostilmente mentre si allontanava con i suoi collaboratori, usando pugni e lanciando oggetti, tanto che la telecamera si è rotta dopo che uno dei manifestanti ha tentato di afferrarla. Tensioni e scontri con la polizia anche a New York, dove in molti sono scesi in strada partecipando a marce organizzate a Harlem, Brooklyn, Queens e nelle vicinanze delle Trump Tower. I dimostranti hanno occupato strade, bloccato il traffico e preso di mira le auto della polizia con graffiti.

A Indianapolis c’è stata la seconda vittima degli scontri: un uomo è morto durante una manifestazione di protesta nel centro della città. La polizia fa sapere che sono in corso le indagini su “sparatorie multiple” avvenute durante il corteo. A Minneapolis, città da cui è iniziato tutto, gli agenti in assetto antisommossa hanno fronteggiato per la prima volta i manifestanti che sfidavano il coprifuoco lanciando lacrimogeni e granate stordenti per tenerli lontani dalla caserma di polizia numero 5, dopo che nei giorni scorsi era stata data alle fiamme la caserma numero 3, quella in cui lavorava l’ormai ex agente della polizia Derek Chauvin, ora in carcere con l’accusa dell’omicidio di Floyd.

“La morte di Floyd è stata una grande tragedia. Non doveva succedere. Ha gettato tutta la nazione nell’orrore, nella rabbia e nel dolore. Ho espresso alla famiglia di George Loyd il dolore di tutta la nazione”, ha detto il presidente degli Stati Uniti Donald Trump a Cape Canaveral, che pur difendendo “il diritto a manifestare pacificamete, ha tuttavia avvertito che “la mia amministrazione fermerà la violenza di massa. Coloro che accampano scuse o giustificazioni per la violenza non aiutano gli oppressi”. L’inquilino della Casa Bianca ha promesso che “non permetterà ad orde arrabbiate di dominare“.

Intanto l’Ap fa sapere che dall’inizio delle proteste la polizia ha già arrestato quasi 1400 persone in 17 città statunitensi, decine delle quali solo a Minneapolis, città fulcro delle rivolte per la morte di Floyd.

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Come in un “padrone e sotto”, un uomini e caporali. Uber e la società a cui si era affidata per reclutare i rider da una parte, i ciclofattorini costretti a pedalare di giorno e di notte, col sole e con la neve, per 3 euro a consegna dall’altra. Dovevano sottostare alle regole, subire ritardi nei pagamenti e non reclamare le mance lasciate dai clienti attraverso la app. Altrimenti bastava un click per bloccare l’accesso alla piattaforma, impedendogli di lavorare. E scoperchiato il vaso, il colosso delle consegne a domicilio e la società di intermediazione hanno iniziato il rimpallo, con accuse incrociate. Il primo ritiene di aver sempre rispettato le leggi italiane, i responsabili della Flash Road City hanno raccontato alla procura di Milano che i rider per Uber sono “solo dei puntini su di una mappa, da attivare o bloccare a loro piacimento” per “ottimizzare il servizio della piattaforma e far guadagnare ad Uber il più possibile”.

Come “schiavi digitali” – Ma dentro le 60 pagine che hanno portato al commissariamento della filiale italiana della società di gig economy c’è quello che gli investigatori e il Tribunale di Milano ritengono uno schiavismo digitale, fotografato dalle minacce ai rider reclutati in situazioni di “emarginazione sociale” e dai messaggi nei quali alcuni fattorini implorano per giorni e giorni di essere pagati. Non ci sono schiene piegate nei campi né furgoni stipati che corrono lungo le provinciali, ma riunioni nella sede di Uber in una delle zone fighette di Milano e profili Linkedin in giacca e cravatta a regolare la vita di migranti e richiedenti asilo. Diversa la forma, identica la sostanza secondo i giudici: caporalato, sfruttamento, zero diritti.

“Questo ha ancora Lyka, lo blocco” – Una conversazione del 10 dicembre 2018 sostanzia bene l’affare. La manager di Uber, Gloria Bresciani, scrive a uno degli intermediari della Flash Road City, Danilo Donnini, lamentandosi di uno dei rider: “Questo ancora ha Lyka, il gps non gli funziona. Non sa come usare il cellulare, io così non lavoro”. Donnini prova a difendere la posizione della società, alla quale Uber aveva messo in mano il reclutamento dei ciclofattorini: “Bloccalo, portagli via la borsa, ma ci mancherebbe altro, questo non doveva lavorare oggi non è nei turni”. Bresciani non si fa pregare: “L’ho sospeso fino a quando non cambia numero di telefono”, risponde a Donnini che la ringrazia. Quindi aggiunge: “Comunque cerca di metterlo su un affiancamento stasera così non spreca la giornata che c’ha fame”. Per i giudici la sottolineatura della manager riguardo allo “stato di indigenza e di sfruttamento dei collaboratori” spiega il modus operandi, perché i rider “si adegueranno alle disposizioni che gli verranno impartite” proprio per lo stato di necessità in cui si trovano.

“Per mangiare devono connettersi la sera” – Pochi giorni dopo è ancora Bresciani a lamentarsi per i troppi corrieri connessi alla piattaforma nel pomeriggio, quando le richieste di consegne sono basse e suggerisce: “Secondo me se tu il pomeriggio non li paghi e loro per mangiare devono connettersi la sera, vedrai che si connettono. Ovvio che se gli dai la scelta se ne fregano e prendono soldi quando gli fa più comodo”. Messaggi che secondo i giudici fotografano come Uber “fosse pienamente consapevole della situazione di sfruttamento lavorativo e reddituale” della Flash Road City: “Anzi appare evidente che sia la stessa Bresciani ad incoraggiare il suo interlocutore ad impostare il rapporto con i rider affinché si connettano solo quando a Uber conviene, adottando metodi di sorveglianza e di pagamento, approfittando del loro stato di bisogno”.

“Quelli che puzzano fuori dai coglioni” – Una “attività di controllo” in “netto contrasto con le garanzie sancite dal legislatore per i lavoratori autonomi” che veniva richiesta anche da altri uomini di Uber, come Roberto Galli, che a luglio dello scorso anno riportava a Flash Road City le lamentele di un noto fast food per le attese dei rider davanti all’ingresso. Pronta la reazione della società di intermediazione: “Controlli quelli che bivaccano, che fanno queste cose qua fuori dai coglioni, non c’è neanche discussione: bloccato l’account, finito di lavorare, istantaneamente proprio… istantaneamente. Non lo so vedi tu, fate in modo di fare delle foto, di vederli… quelli che bivaccano, che puzzano, che fanno cazzate, fuori dai coglioni all’istante…”, sollecitava i colleghi uno degli indagati.

Il blocco degli account – Il ruolo di Uber non è ritenuto secondario dal tribunale di Milano . Anzi “emerge chiaramente” come la società “andasse di fatto a limitare la libertà decisionale” del partner “attraverso l’imposizione di turni prestabiliti”. A supporto della tesi, ci sono le mail con il numero dei corrieri da disporre su ogni turno. Una attività nella gestione dei rider “piuttosto intensa” da parte di almeno “alcune figure professionali” di Uber che “non sono di certo estranee” alla realtà di “forte sfruttamento, di intimidazione e di prevaricazione”. nei confronti dei rider che ricevevano 3 euro a consegna quando Flash Road City, almeno su Roma, veniva pagata “in media almeno 11 euro” per ogni pacco portato a domicilio.

Le risate per il rider malato – La Capitale era un problema per Uber, sia per una questione di conti che di distribuzione dei fattorini sul territorio. Sempre nel dicembre 2018, Bresciani chiede più uomini in bicicletta a Ostia: “Non c’è modo di farne rimanere almeno uno dei tre?”. Donnini è in difficoltà: “No perché loro poi hanno ultimo bus per la loro zona da Termini. Aspetta che mi gioco il jolly”. E chiede quindi a un rider “di scendere in strada anche se è malato che gli do 50 euro”. Bresciani ride e chiede: “Ma non ha un amico?”. Donnini risolve: “Ok ora si veste ed esce. Sono troppo forte”. E Bresciani, ancora ridendo: “Bene”. Per i giudici “appare evidente” che la manager di Uber era “pienamente partecipe” nella gestione dei rider, “costretti a lavorare in precarie condizioni di salute dietro la promessa di ricevere un bonus extra che ha un importante impatto economico sul basso compenso percepito”.

E il rider implorava i pagamenti – C’era però anche chi aspettava a lungo i pagamenti, non solo per le “punizioni”, come il blocco degli account, in caso di un lavoro che Uber e Flash Road City ritenevano non svolto ottimamente. Nel luglio 2019 i vertici italiani della società di San Francisco lamentano che due fattorini si sono presentati in sede chiedendo la liquidazione di pagamenti, mance e cauzione lasciata per il portavivande. La Flash Road City sostiene sia falso che non siano stati pagati, ma siccome avevano “tassi di accettazione schifosi, allora abbiamo cominciato a punirli (…) stanno facendo i furbi”. La realtà sembra essere ben diversa, stando ai messaggi spediti a uno dei referenti della società di intermediazione: “Buongiorno capo. Per favore non ho visto il mio pagamento. Per favore digli di pagare i miei soldi grazie”, è la prima richiesta. “Ti posso pagare solo su un conto personale tuo. Non possiamo più pagare su conti di amici”, rispondono dalla Flash Road City. Nella settimana successiva, le richieste continuano: “Per favore sai che non ho un conto in banca da allora. Per favore pagami come hai sempre pagato”. E ancora: “Oggi sono andato ad aprire un conto in banca (…) Ma hanno detto senza carta di residenti non possono aprire un conto in banca per me”. Il rider sembra non ricevere risposte: “Rispondimi per favore. Cosa dovrei fare ora. Ho provato il meglio possibile per aprire questo account (il conto in banca, ndr). Per favore, tu lo sai non per colpa mia. Per favore è molto difficile per me”. Dopo oltre una settimana, l’ultima richiesta: “È così che mi tratterai davvero male dopo un sacco di lavoro che ho svolto da 8 mesi a questa parte”.

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“Se non rispondete ai messaggi dovete essere minacciati togliendovi i soldi. Siete come i bambini”. E ancora: “Se non vi tocchiamo i soldi, le cose non le capite e fate quello che volete”. Sono i vocali che uno degli amministratori della Flash Road City mandava nelle chat interne dei ciclofattorini di Uber di Torino. La società milanese di logistica, che si occupava di reclutare lavoratori per le consegne, oggi è al centro dell’indagine della Guardia di Finanza, coordinata dal procuratore aggiunto Alessandra Dolci e dal pm Paolo Storari, sulle condizioni di lavoro dei rider. Inchiesta che ha portato al commissariamento di Uber Eats Italy. Secondo gli inquirenti, Uber, proprio attraverso l’appalto a società terze come Flash Road City, ha sfruttato migranti e richiedenti asilo, che ricevevano paghe da fame e subivano minacce e metodi da caporalato. I due messaggi risalgono all’inverno del 2018 e sono stati inviati nel gruppo Whatsapp dei lavoratori di Torino. L’amministratore della FRC si lamenta perché i fattorini non danno le disponibilità per alcune fasce orarie. “Ve ne sbattete e allora vi togliamo i soldi, così forse capite”. Secondo quanto emerso dalle indagini, una delle “punizioni” messe in atto dalla società a chi consegnava meno del 95% degli ordini era una multa di 50 cent per ogni consegna successiva. La paga per tutti, indipendentemente dalla distanza percorsa e dagli orari, era pari a 3 euro o 3 euro e 50 a consegna.

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A pochi giorni dalla riapertura del 3 giugno, non è unanime il parere dei governatori: contrari il sardo Solinas, il toscano Rossi e il campano De Luca. Risale intanto il numero di decessi, altri 111. Scende quello dei malati, 2.484 in meno. In Lombardia il 53,1% dei nuovi contagi



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L’inviato di Striscia la Notizia Moreno Morello e la sua troupe sono stati aggrediti con calci, pugni e bastoni durante un servizio su “Sandokan” a Ceccano (Frosinone), l’uomo già preso protagonista di servizi per una “presunta truffa sulle mascherine al personale dell’ospedale Santa Corona di Pietra Ligure” e che aveva già minacciato un inviato del Tg satirico on una scimitarra”.

È accaduto a Ceccano e sono dovuti intervenire i carabinieri che hanno arrestato tre persone. “Moreno Morello e quattro operatori sono stati aggrediti con pugni, lanci di sassi, bastoni e attrezzi – informa lo stesso Tg in una nota-. L’inviato di Striscia dopo aver ricevuto altre segnalazioni da cittadini raggirati, oggi pomeriggio è tornato da ‘Sandokan’ per concludere l’inchiesta, ma ‘Sandokan’, questa volta supportato da due parenti, ha accolto la troupe con pugni, lanci di sassi, bastoni e attrezzi da giardino”.

Sono stati momenti di panico. Un mio operatore è finito a terra dopo un pugno e gli aggressori hanno urlato “Ti uccido!” – ha raccontato Morello- solo l’arrivo di cinque pattuglie dei Carabinieri ha posto fine alla violenta aggressione che si è conclusa con l’arresto dei tre uomini”. Secondo quanto si è appreso, i militari della Stazione di Ceccano sono intervenuti per bloccare i responsabili che hanno aggredito i carabinieri. Non solo: durante l’operazione il cane di uno dei tre ha morso alla gamba un maresciallo dei carabinieri strappandogli il pantalone e il calzettone ma senza provocare ferite. Successivamente è intervenuta anche una pattuglia della Forestale che ha elevato una sanzione amministrativa confronti proprietario del cane per mancanza di microchip.

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