ottobre 2019

Moriva 10 anni fa, l'1 novembre 2009, Alda Merini, poetessa e scrittrice simbolo del Novecento. Nata a Milano il 21 marzo del 1931, già a 15 anni il suo talento viene scoperto dal critico e poeta Giacinto Spagnoletti. Tuttavia, nonostante il riconoscimento ottenuto in giovane età, quella della poetessa è una vita molto difficile: nel 1947 viene internata per la prima volta nella clinica Villa Turro a Milano, nella quale trascorre circa un mese. Poi ancora un lungo internamento all’Ospedale Psichiatrico "Paolo Pini" dal 1964 al 1972. Tra poesia e follia libera i suoi versi, che tuttavia la portano al successo solo in tarda età. Finché nel 1996 e nel 2001 viene candidata al premio Nobel per la letteratura. Ecco le sue frasi più celebri.

La presenza di Orfeo

Il primo libro di poesie di Alda Merini è del 1953 e si intitola "La presenza di Orfeo". Nello stesso anno la scrittrice sposa Ettore Carniti, operaio e sindacalista, dopo aver concluso una relazione difficile con Giorgio Manganelli. La poetessa ha 22 anni e scrive: "Amo i colori, tempi di un anelito inquieto, irresolvibile, vitale, spiegazione umilissima e sovrana dei cosmici 'perché' del mio respiro".

Tu sei Pietro

Nel 1955 muore suo padre e nasce la sua prima figlia, Emanuela, seguita dalla secondogenita Flavia nel 1957. È al loro pediatra Pietro De Pascale che nel 1962 dedica la sua raccolta di poesie "Tu sei Pietro". In questi versi Merini unisce i passi evangelici al tema tragico del fato: "Ché cristiana son io ma non ricordo dove e quando finì dentro il mio cuore tutto quel paganesimo che vivo".

Terra Santa

Dopo il 1962 comincia il grande periodo di silenzio, con l’internamento nell'Ospedale Psichiatrico "Paolo Pini" dal 1964 al 1972. Alda Merini torna a scrivere solo nel 1979, con il capolavoro "Terra Santa" (che andrà in stampa nel 1984), in cui parla della sua esperienza: "Ho conosciuto Gerico, ho avuto anch’io la mia Palestina, le mura del manicomio erano le mura di Gerico e una pozza di acqua infettata ci ha battezzati tutti. Lì dentro eravamo ebrei e i Farisei erano in alto e c’era anche il Messia confuso tra la folla: un pazzo che urlava al Cielo tutto il suo amore in Dio".

L'altra verità. Diario di una diversa

Dopo la morte del primo marito, nel 1984 sposa l’anziano poeta ed ex primario di cardiologia Michele Pierri. Nel 1986 scrive il suo primo libro in prosa "L’altra verità. Diario di una diversa". Merini racconta: "Non avrei potuto scrivere in quel momento nulla che riguardasse i fiori perché io stessa ero diventata un fiore, io stessa avevo un gambo e una linfa". E continua a scrivere sulla pazzia: "Di fatto, non esiste pazzia senza giustificazione e ogni gesto che dalla gente comune e sobria viene considerato pazzo coinvolge il mistero di una inaudita sofferenza che non è stata colta dagli uomini".

Delirio amoroso

Passato un periodo trascorso a Taranto con Pierri, torna a vivere a Milano, sui Navigli. Trova rifugio nel Caffè Chimera e nei suoi versi, in un periodo molto prolifico dal punto di vista letterario. Nel libro "Delirio amoroso", del 1989, scrive: "Forse un giorno scriverò il vero diario, fatto di pensieri atroci, di mostruosità e di voglia innaturale di uccidersi. Il vero diario è nella mia coscienza ed è una lapide tristissima, una delle tante lapidi che hanno sepolto la mia vita. È stato detto da qualcuno: 'Chi ha vissuto più volte deve morire più volte'. Frase stupenda, che riassume il terribile concetto della stupidità irata dell’uomo che non concepisce le colpe degli altri e tollera solamente le proprie".

Vuoto d'amore

Nel 1991 esce la raccolta "Vuoto d’amore", in cui Merini parla anche del suo sentimento verso la poesia: "Nulla vale la durata di una vita ma se mi alzo e divoro con un urlo il mio tempo di respiro, lo faccio solo pensando alla tua sorte, mia dolce chiara bella creatura, mia vita e morte, mia trionfale e aperta poesia che mi scagli al profondo perché ti dia le risonanze nuove".

La pazza della porta accanto

Nel 1995 pubblica "La pazza della porta accanto". È ormai una scrittrice affermata, ma deve ancora fare i conti con i debiti economici di una vita. Ha 64 anni e scrive: "Ho la sensazione di durare troppo, di non riuscire a spegnermi: come tutti i vecchi le mie radici stentano a mollare la terra. Ma del resto dico spesso a tutti che quella croce senza giustizia che è stato il mio manicomio non ha fatto che rivelarmi la grande potenza della vita".

La vita facile

Anche nella sua fase più matura, Alda Merini non perde l’interesse per l’erotismo. Ne "La vita facile", del 1996, scrive: "La menopausa è il periodo dorato dell’amore". E poi: "Ci sono adolescenze che si innescano a novanta anni". E ancora: "Non posso farmi santa perché ho sempre in mano l'arma del desiderio".

Aforismi e magie

Nel 1999 la sua poesia sintetica ha ormai preso la decisa forma di aforisma, molti dei quali raccolti in "Aforismi e magie". Secche sentenze di poche parole: "Anche la follia merita i suoi applausi"; "Chi è a corto di bugie non può salvarsi"; "Il grado di libertà di un uomo si misura dall'intensità dei suoi sogni"; "Non ho paura della morte ma ho paura dell'amore"; "L'aforisma è il sogno di una vendetta sottile. L'aforisma è genio e vendetta e anche una sottile resa alla realtà biblica. Chi fa aforismi muore saturo di memorie e di sogni ma pur sempre non vincente né davanti a Dio né davanti a se stesso né davanti al suo puro demonio".

Sono nata il ventuno a primavera

Nel 2004 le sue parole diventano musica, cantate da Milva nell'album "Milva canta Merini" che condensa in versi la vita della poetessa: "Sono nata il ventuno a primavera ma non sapevo che nascere folle, aprire le zolle potesse scatenar tempesta. Così Proserpina lieve vede piovere sulle erbe, sui grossi frumenti gentili e piange sempre la sera. Forse è la sua preghiera".



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Oggi per tutti è normale considerare la vita come un percorso di continuo miglioramento. Ognuno è libero, con i propri mezzi e le proprie qualità, di intraprendere la propria scalata. Puntare a un risultato, essere riconosciuto dalla società con un salario più alto, la notorietà o il potere: crediamo che questa sia la libertà. Ma non è sempre stato così, e non lo sarà per sempre.

Questa idea di ricerca della felicità porta matematicamente all’infelicità. Chi non riesce a raggiungere gli obiettivi che si è posto è infelice, chi li raggiunge è portato a puntare a un obbiettivo più alto, finché non fallirà.

Questa società della scalata è diventata l’idea del mondo dominante in un momento preciso, quando negli Usa è nato il capitalismo moderno, all’inizio del ‘900. Prima non era così. Un contadino del 1300 sapeva che era nato contadino perché figlio di contadini e sarebbe morto contadino. Quello che noi concepiamo come “limite all’auto-realizzazione” per lui era invece una sicurezza. Non aveva ansia di competere per dimostrare di essere migliore di loro. La rivalsa sociale non aveva alcuna importanza per lui.

Il Joker di Todd Phillips incarna la ribellione contro un sistema che porta ad alimentare speranze impossibile all’insegna del “sogno americano”. Arthur Fleck crede di poter diventare un comico famoso, andare in televisione, mentre è evidente che non ha nessuna possibilità di farlo, eppure questa speranza viene continuamente alimentata, creando una frustrazione che a un certo punto, inevitabilmente, esplode.

Una ragazza mi ha scritto di aver visto Joker dopo aver letto Nero d’inferno (Mondadori) e di aver trovato molti punti in comune tra Joker e Mike Boda, l’italiano emigrato in america protagonista del romanzo. In effetti sono due reietti della società che si ribellano e vengono visti da alcuni come assassini e da altri come simboli di una ribellione contro il sistema. Nella società di oggi sta tornando a salire la rabbia contro l’ingiustizia e le disuguaglianze, e spesso questa porta a rivolte in strada e atti eclatanti.

Il cinema ha raccontato negli ultimi 15 anni molte storie di ribellione violenta contro il sistema. L’apripista è stato V per Vendetta di James McTeigue del 2005, tratto dal graphic novel di Alan Moore. La carica di ribellione e anarchia di quell’immaginario è stata così forte da far diventare la maschera di Guy Fawkes un simbolo della protesta di Occupy Wall Street e degli haker di Anonymous. In Joker si cita apertamente il richiamo alla maschera, che ci rende tutti uguali e quindi impossibili da punire. Grazie alle maschere indossate in metropolitana infatti Joker riesce a sfuggire alla polizia. Una serie uscita recentemente di cui si sta parlando molto, che recupera nuovamente l’immaginario di Moore, è Watchmen. In Watchmen – che si discosta molto dal graphic da cui prende il nome – la rivolta sociale è la stessa, ma la prospettiva è ribaltata. I “terroristi” sono mascherati da Rorschach, ma in questo caso si tratta di suprematisti bianchi, questo porta lo spettatore a immedesimarsi di più con la polizia e vedere appunto i Rorschach come antagonisti.

Nel libro Nero d’inferno si racconta la storia degli anarchici italiani che misero a ferro e fuoco gli Stati Uniti negli anni 10 e 20 del secolo scorso. Gli anarchici non usano maschere, ma si mimetizzano nella folla: colpivano e svanivano. Facevano azioni eclatanti e provocatorie, come lasciare una bara e dei fiori a lutto davanti alle sedi delle banche, organizzano proteste, e successivamente alla repressione della polizia passeranno alle bombe. In seguito a questa escalation, la sera del 16 settembre 1920 il governatore Palmer dichiarò: “L’America è sotto attacco”. Gli anarchici risposero: “Una bomba non è solo tritolo, è un lampo che illumina la notte, trasformandola per un attimo in giorno”.

Una differenza però c’è tra i film e le serie di cui abbiamo parlato e il libro. Mike Boda è reale.

Tutti i personaggi e le storie narrate in Nero d’inferno sono accadute davvero. Possiamo quindi immedesimarci in lui senza pensare alle vittime come se fosse un’invenzione narrativa? Ovviamente non è possibile. Questo rende più complessa la lettura della realtà. Cosa succede quando le vittime diventano carnefici?

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E alla fine Fca (famiglia Agnelli) trovò un partito disposto a sposarla. Fu il mercato a volerlo? Oppure avvenne che i discendenti del Senatore (quello vero, quello che in camicia nera accoglieva il Duce), timorosi di restare come le zitelle di una volta, si dichiararono disposti a tutto pur di trovare un marito alla loro creatura? O c’è qualcos’altro che a noi sfugge e che rese possibile ciò che sembrava tanto inevitabile quanto insensato per il futuro industriale dell’Italia? Parliamo al passato, remoto certo, perché la fusione con Psa che va in scena in questi giorni – almeno per noi italiani – è roba vecchia, acqua passata. Già troppo inchiostro è stato sprecato su questo tema, sugli interessi personali della famiglia Agnelli, sulle prospettive industriali dell’auto in Italia, sull’andazzo generale dell’industria automobilistica globalizzata, oggi come non mai obbligata a rinnovarsi e a investire.

Qualsiasi cosa si dica e si scriva, rischia di essere una banalità, un disco rotto e ripetuto, che sarebbe meglio mettere a tacere. Fca è andata dove voleva, al di là di ogni razionalità collettiva, al di là di ogni logica industriale nazionale. Le caratteristiche dell’operazione, i dettagli della fusione non ci interessano né ci riguardano. Se la fusione sarà paritaria; quanti miliardi (5,5?) liquidi, e presumibilmente fuori dal raggio d’azione del fisco italiano, incasseranno i maggiori azionisti di Fca; a quale posto della classifica mondiale dei produttori si piazzerà il nuovo soggetto frutto della fusione; quale sarà la sede e le caratteristiche della governance e perfino quali marchi e quali stabilimenti continueranno ad essere produttivi in Italia: sono tutte questioni che cascano come un sasso sulla testa dell’Italia – dove la Fiat molto ha dato e moltissimo ha ricevuto – né più né meno come si trattasse delle vicende di qualsiasi altra azienda multinazionale, che considera il nostro paese solo un mercato (molto piccolo) e nulla più, in cui le decisioni che contano non ci riguardano, anche se ci toccano. E tra l’altro le vicende di Toyota o Volkswagen sono molto più interessanti.

La fusione Fca-Psa è un tema che interessa solo agli storici dell’economia, poco agli economisti, pochissimo ai politici, quasi nulla agli automobilisti italiani. La storia dell’industria automobilistica in Italia – per il momento – è finita. Fiat dopo aver inglobato, con il consenso di una classe politica non disinteressata, l’intera, e una volta variopinta, industria automobilistica italiana ci ha salutato, “perché il mercato è diventato globale ed è impossibile competere restando italiani”, così dicono color che sanno. Resterà ancora per alcuni anni Ferrari (fino a quando un compratore molto più grosso non tirerà fuori una bella valanga di denaro). Addio Lancia, splendida e ipertecnologica Lancia. Addio Alfa, gioiello glamour di sportività ed eleganza. Addio Maserati. Addio Autobianchi. L’industria automobilistica italiana dai concessionari si è trasferita nei musei. L’era dell’auto elettrica o a idrogeno non vedrà l’Italia protagonista.

Anche prendersela con i governi e la politica sarebbe tropo facile. Certo – sia chiaro – in Germania e nemmeno in Francia tutto questo non sarebbe mai potuto accadere. È scontato dire che un governo che avesse avuto a cuore il futuro oltre che il presente dell’Italia avrebbe preteso che il capitale e il lavoro degli italiani continuasse a misurarsi con le nuove tecnologie, a battere la pista dello sviluppo e della ricerca industriali, perché questo è il dovere di un grande paese. Ma è inutile piangere sul latte versato, verosimilmente abbiamo avuto la classe dirigente che ci siamo meritati, egoista e di cortissime vedute.

Ora per dirla con il grande Bob, It’s all over now, baby Blue, take what you need, you think will last. But whatever you wish to keep, you better grab it fast… È la fine di un amore, non solo la morte di un’azienda, ma provate a spiegarlo alla famiglia Agnelli. L’Italia, velocemente, dovrà voltare pagina. Attenzione però: la perdita di un’azienda, la chiusura degli stabilimenti, la disoccupazione di migliaia di lavoratori non sono in fondo la iattura più grande, la disgrazia sulla quale piangere le lacrime più amare. Il danno maggiore è la perdita del patrimonio immateriale dell’industria automobilistica italiana, la cultura applicata all’impresa che ci ha consentito di produrre per un secolo veri e propri gioielli di design tecnologia e… profitti. Ma questa, ancora non è del tutto morta e, anche se sarà dura, nulla vieta che possa rinascere.

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Io ho creato dei mostri. Gente che non sapeva fare nulla, che una volta arrivata al successo e alla ricchezza non si è più ricordata nemmeno di fare una telefonata”. A dirlo, non senza un po’ di rammarico nella voce, è l’ex agente dei vip Lele Mora che si è raccontato in un’intervista a Radio Italia Anni 60, tirando le somme delle persone che gli sono state riconoscenti o meno in questi anni e spiegando che sono stati tanti gli “ingrati” che gli hanno voltato le spalle quando le cose si sono messe male. Uno fra tutti Alfonso Signorini, il direttore di Chi: “Qualcuno che faceva il maestro delle elementari, che io ho aiutato a diventare giornalista, poi direttore di giornali e oggi si sente anche un conduttore. Sto parlando di Alfonso Signorini. Lui mi ha proprio deluso in maniera pesantissima“, ha detto Lele Mora.

Tra gli ingrati mette poi anche l’ex tronista Francesco Arca che prima lo considerava come un padre e poi si è dimenticato di lui, mentre invece tra i “grati” mette la ministra di Forza Italia Mara Carfagna: “Lei è nata da me, facendo Miss Italia ha vinto la fascia di Miss Sorrisi e Canzoni poi l’ho accompagnata a fare la Domenica del Villaggio e poi è diventata ministro con il governo Berlusconi. Mara è una donna molto intelligente e ha saputo cambiare pelle. Lei la sua telefonata l’ha sempre fatta, è grata nei miei confronti”.

Infine più di qualche parola sul suo rapporto con Silvio Berlusconi e sul film di Paolo Sorrentino “Loro”, in cui entrambi compaiono: “Niente di quello che c’è in quel film è vero. Non c’è mai stata droga. Le donne sono la cosa più bella della vita. Tra me e Berlusconi c’è amore, amicizia e affetto che rimarrà per tutta la vita – ha concluso Lele Mora -. Sono stato io a prendere le distanze da quando mi è accaduto quello che mi è accaduto, ma entrambi sappiamo nei nostri cuori che ci vogliamo bene”.

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Il Pd è da “rifondare”. Nel senso che è necessario “ricostruire una comunità aperta” per offrire “in primo luogo ad una nuova generazione una opportunità di partecipazione e battaglia collettiva”. Nicola Zingaretti lancia così la convention di Bologna a novembre, dove, assicura, “apriremo un grande confronto politico e culturale su come pensiamo gli anni 20 del nuovo secolo”. In una lettera al Corriere della Sera, il segretario del Partito Democratico spiega: “Ci si domanda spesso perché Salvini e la destra siano così forti. I motivi sono molti tra cui sicuramente la presenza nel territorio. Ma ce ne è uno, in particolare, che generalmente viene poco analizzato nei commenti e nel dibattito politico”. Ovvero: “La destra ha saputo più di noi cogliere lo smarrimento degli italiani, lo sradicamento di legami antichi, la paura della frammentazione e della dispersione”.

“Si dice: è la globalizzazione. Ma come sappiamo essa crea opportunità, insieme a tante fragilità e incertezze – continua – I cittadini impauriti vogliono ritrovare la loro ‘casa’. La loro ‘casa interiore’, protettiva e in grado di far loro esprimere i bisogni, i desideri e i talenti di cui sono dotati. Non si vive senza una ‘casa’”. In questo senso, aggiunge, la destra sovranista “in tutto il mondo, e la Lega in Italia” propongono “approdi forti e chiari”. Che Zingaretti definisce “autoritari, regressivi e intollerabili per noi, illiberali e xenofobi”. Ma, sottolinea, “sono approdi, forme cui aggrapparsi. Simboli identitari e sicurezze ideologiche”. Matteo Salvini, aggiunge, “è il migliore a raccontare e rappresentare i problemi ma è il peggiore a risolverli. È un tifone di bugie raccontate con un sorriso”.

Il segretario del Pd fa quindi autocritica: “Di fronte a questo, ecco l’enorme macigno che abbiamo dinnanzi, il centrosinistra non è stato in grado di fare altrettanto sulla base di un suo rinnovamento ideale, programmatico e identitario. Negli anni nella dispersione ci abbiamo messo anche qualcosa di nostro: una storia di conflitti, separazioni, di chiusure e a volte di egoismi: il rintanarsi nel proprio io, quando era essenziale far sentire al popolo la forza del noi e la voglia di sentirsi parte di una comunità”. Una “spinta” che, a suo avviso, è stata presenta “solo nel campo democratico”, dove il primo pensiero è stato “difendere le proprie posizioni in modo assertivo e solitario”.

“Ho avvertito a volte una resistenza politica, ma persino psicologica, ad aprirsi davvero a una ricerca libera per costruire un destino comune. Per usare insieme la forza della critica e ritrovare un’identità comune”. Il Pd, ragiona, “in questo quadro ‘resiste'” e, aggiunge, “è allo stato attuale il solo partito ‘argine’ all’avanzata impetuosa della destra”. Ma, si chiede Zingaretti, “si può andare avanti così?”. Il segretario non risparmia una stoccata a quelli che definisce “picconatori”, un evidente riferimento alla scissione di Matteo Renzi: “Sbaglia chi lo vuole picconare, perché così si indebolisce la democrazia. Ma sbagliano anche tutte le derive conservatrici che ci rendono inadeguati a rispondere all’inquietudine degli italiani. E certo che a queste difficoltà non si risolvono con un partito monoculturale o del leader. Ma neanche con un arcipelago di confuse parzialità che ci portano a praticare una politica lontana dalla vita”.

Da qui, la necessità di una “rifondazione”. Zingaretti traccia anche le linee guida per il nuovo Pd: “La giustizia sociale, la rivoluzione verde per lo sviluppo, che sono l’anima del nostro progetto alternativo alla destra, richiedono pensiero e cultura. E nel medesimo tempo forme di rappresentanza più coinvolgenti e libere per i singoli iscritti. Per questo a Bologna a novembre apriremo un grande confronto politico e culturale su come pensiamo gli anni 20 del nuovo secolo”.

Un ripensare il Partito Democratico “in modo radicale” che non passa attraverso il “cambiare qualche regola”, ma “di una scelta politica di fondo” dopo 12 anni “di parole e auspici”. “Cambiare davvero tutto per dare alla democrazia italiana un soggetto plurale ricco e partecipato della politica – spiega – Per offrire in primo luogo ad una nuova generazione una opportunità di partecipazione e battaglia collettiva. Rifondare il Pd per me significa in primo luogo questo: ricostruire una comunità aperta”. Una scelta da fare “insieme”, assicura aggiungendo che “il mio impegno, fortissimo e sincero come leader del Pd, ha un senso solo se dalle generiche volontà si passerà alla realizzazione concreta di un nuovo Pd”. Che deve essere “aperto, plurale e radicato” e quindi “capace di coinvolgere le forze migliori della società” perché “questo processo riguarda tutti coloro che amano la democrazia italiana”.

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Il governo ha elaborato un piano da proporre a Bruxelles per la gestione dei flussi migratori. Nei giorni in cui si rinnova, tra le polemiche, il Memorandum Italia-Libia firmato nel 2017 dal governo Gentiloni, con Marco Minniti ministro dell’Interno, che ha bloccato le partenze dai porti del Paese nordafricano intasando, però, i centri di detenzione, Repubblica scrive che nel corso dell’incontro a Palazzo Chigi tra il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, il titolare della Difesa, Lorenzo Guerini, e quello degli Affari Europei, Enzo Amendola, quest’ultimo ha presentato il piano da proporre all’Ue: svuotare i lager libici e costruire hotspot gestiti direttamente dall’Unione europea dove accogliere i migranti, analizzare le loro domande d’asilo e organizzare, per chi ne ha diritto, il trasferimento in Europa attraverso corridoi umanitari sicuri. Tutti gli altri, invece, verrebbero rimpatriati nei Paesi di provenienza. Il tutto finanziato proprio dalle istituzioni europee, con lo spostamento delle risorse di Frontex, circa 9 miliardi, dai confini orientali alla Libia e lo sfruttamento dei nuovi fondi per la cooperazione previsti nel bilancio europeo.

La proposta, si legge, ha scardinato la resistenza di Di Maio, restio alla cancellazione o allo stravolgimento dell’accordo voluto da Minniti, che ha così aperto a delle modifiche migliorative del Memorandum. E il piano di Amendola potrebbe diventare la linea guida da proporre agli altri Paesi membri: un’idea che potrebbe incontrare meno resistenze a Bruxelles rispetto alle richieste di redistribuzione delle persone. Anche tra quei Paesi, soprattutto dell’est Europa, che hanno deciso di applicare la politica delle porte chiuse. Tanto che anche il prossimo Alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza (Pesc), Josep Borrell, avrebbe comunicato al presidente del Parlamento Ue, David Sassoli, la volontà di spingere per una modifica degli accordi in materia di immigrazione.

Minniti: “Memorandum? Lo rifarei. Ma può essere migliorato”
Chi non si dice pentito dell’accordo con il governo libico di Fayez al-Sarraj, sostenuto dalle Nazioni Unite, e indirettamente con la Guardia Costiera libica, accusata di violazioni dei diritti umani e coinvolgimento nel traffico di esseri umani, è l’ex ministro dell’Interno, Marco Minniti. In un’intervista con Repubblica, l’ex capo del Viminale ha dichiarato: “Non distinguo l’etica dalla politica. Se ritenessi di aver compiuto scelte sbagliate, o addirittura immorali, per incassare un consenso momentaneo, ne trarrei le conseguenze”.

Se gli viene fatto notare che, come rivelato dallo scoop di Avvenire, agli incontri tra i funzionari del Viminale e la delegazione libica erano presenti anche personaggi come Abd al-Rahman al-Milad, il trafficante di uomini a capo dei guardacoste di Zawiya meglio conosciuto come Bija, Minniti risponde: “Non ho mai conosciuto Bija. Leggo dai giornali che è venuto in Italia per un viaggio di formazione organizzato dall’Oim. Ma non ho mai autorizzato accordi che sacrificassero l’etica e i diritti umani. Dovevo dimostrare che eravamo in grado di governare i flussi migratori senza perdere l’anima”.

L’ex ministro dell’Interno, però, ammette anche che l’accordo può essere migliorato: “Gli otto articoli di quel Memorandum non sono le Tavole della Legge. Non è immodificabile. resto però dell’avviso che non lo si possa cambiare in maniera unilaterale. Dobbiamo tentare delle modifiche concordate”.

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Morgan diventa papà per la terza volta. A rivelarlo è il settimanale Chi, secondo cui la nuova compagna del cantante, Alessandra, è incinta e già al quinto mese di gravidanza. Lei e Marco Castoldi si frequentano ormai da quasi tre anni e sarebbero in attesa di un maschietto. Se così fosse, sarebbe il primo fiocco azzurro per il cantante, che ha già due figlie femmine avute dalle precedenti relazioni: Anna Lou, 18 anni, con Asia Argento, e Lara, 6 anni, nata dalla storia con Jessica Mazzoli, ex concorrente di X Factor che Morgan ha conosciuto proprio quando era giudice della trasmissione.

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Jovanotti arriva a sorpresa alla festa di compleanno di don Gino Rigoldi, ma non si presenta a mani vuote. Il cantante ha scritto una canzone per lo storico cappellano del carcere minorile Beccaria di Milano al party per i suoi 80 anni. La festa è stata organizzata dalla Fondazione a lui intitolata nella cornice della Triennale, nel capoluogo lombardo. Tra gli auguri ricevuti dal sacerdote, sono arrivati anche quelli del presidente della Repubblica Sergio Mattarella, che però non ha potuto partecipare.

Gli auguri in stile Jovanotti

Arrivato a sorpresa, è salito sul palco e ha cantato “Una volta don Gino” accompagnato dal basso del musicista Saturnino. “Ieri ho pensato di regalargli una canzone e l'ho scritta. Don Gino è una delle persone più importanti della mia vita, questa grande città ha bisogno di lui" ha detto il cantante. Sul palco è intervenuto, tra gli altri, anche il sindaco di Milano, Giuseppe Sala Secondo lui don Gino Rigoldi è "Il tipico milanese. Così serio e anche così matto perché ha dei sogni e delle ambizioni che lo fanno essere così - ha detto - come sono oggi i milanesi, che coniugano il rigore e la follia". Il sacerdote ha appena compiuto 80 anni ma di certo non si ferma e pensa già ai prossimi progetti. "Sono orgoglioso e mi fa stare bene vedere oggi tanti ragazzi che aiutati si sono messi in movimento e stanno bene. Il desiderio che ho è quello di fare un grosso centro nuovo per i giovani, per la musica, il teatro. Ma vorrei anche avere occasioni per addestrare i ragazzi a stare in gruppo, ad avere una relazione costruttiva e positiva".



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Cinque uomini sono entrati in casa nostra a Vinovo, mi chiedevano della cassaforte, ma noi non ce l’abbiamo. Non ci credevano, ma è davvero così. Allora hanno preso tutto ciò che potevano e sono andati via. Avevo paura per me, per mia moglie Roberta e ringraziavo il cielo che in casa non ci fossero i nostri figli. Erano a giocare a pallone, dovevano rientrare alle 8 accompagnati dal nonno e l’allenatore è stato il primo a insospettirsi perché non rispondevamo al telefono. Quando i rapinatori l’hanno capito hanno fatto in fretta, è stata la nostra fortuna”. Così l’ex calciatore della Juventus Claudio Marchisio, 33 anni, ha ricostruito in un’intervista al Corriere della Sera i terribili momenti vissuti martedì pomeriggio, quando cinque malviventi sono riusciti ad eludere i sistemi di sicurezza e entrare in casa sua per derubarlo, minacciando lui e la moglie con le pistole.

È stata tosta, perché due pistole vere non le avevo mai viste e stavolta le avevamo puntate alla testa, ma siamo riusciti a restare lucidi“, ha raccontato Marchisio che solo il 3 ottobre scorso ha detto addio al calcio. Sulla rapina indaga la polizia scientifica che è al lavoro nella sua abitazione su alcune impronte, lasciate forse proprio dai malviventi. “Se entri nella casa di una persona per derubarla sei un delinquente. Se punti la pistola al volto di una donna sei un balordo. Se da una storia simile tutto quello che riesci a ricavarne è una battuta idiota o una discriminazione territoriale di qualsiasi tipo, sei un poveretto. A tutti gli altri un sentito grazie per la vostra vicinanza”, ha aggiunto l’ex calciatore spiegando di non aver voluto condividere niente sui social di quanto accaduto per evitare che la sua vicenda venga strumentalizzata.

“Stavolta è capitata a noi, per fortuna possiamo raccontarla, nessuno si è fatto male. Delle cose materiali mi importa meno, conta che stiamo tutti bene”. Ora, a mente fredda, ciò che gli rimane di questa brutta esperienza è “il ricordo dei momenti di paura, quando neppure sai cosa accada nel tuo corpo ma riesci a restare tranquillo, anche con una pistola puntata contro. Poi tanti altri pensieri che si rincorrono”, conclude Marchisio.

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Continuano gli scontri in Bolivia tra gli oppositori e i sostenitori del presidente Evo Morales dopo le elezioni dello scorso 20 ottobre che lo hanno confermato alla guida della nazione: da una parte i militanti del governativo Movimento al socialismo (Mas), minatori e membri delle organizzazioni di ‘cocaleros’ del Chapare, dall’altra molteplici comitati civici, aderenti a partiti di opposizione e formazioni giovanili paramilitari antigovernative.

Secondo quanto annunciato dal ministro della Difesa Javier Zabaleta, negli scontri di Montero, nel dipartimento di Santa Cruz nell’Est della Bolivia, due persone hanno perso la vita durante le rivolte nella città di Montero: “La verità è che due vite umane sono andate perdute e questo è irreparabile”, commenta il ministro. E aggiunge: “La cosa peggiore di tutte è che se noi, come politici, non troviamo una soluzione, quello che è successo ora a Montero può ripetersi non solo a Santa Cruz, ma anche in altre zone del Paese”. Il giornale El Debe precisa che le vittime avevano 48 e 60 anni e sono morte a causa di un colpo d’arma da fuoco. La conferma arrivata anche da un altro quotidiano La Razon che riporta le parole del medico di Montero: “Entrambi i morti presentavano le stesse caratteristiche, con armi dello stesso calibro”.

Nei giorni scorsi i sostenitori dei partiti di opposizione, convinti che ci siano stati brogli nelle elezioni tenutesi domenica 20 ottobre, e dei comitati civici hanno attaccato ed incendiato l’edificio del Tribunale elettorale dipartimentale di Potosí e saccheggiato gli uffici elettorali di altri dipartimenti, fra cui Sucre e Tarija. Qui la polizia ha battuto in ritirata di fronte alla determinazione dei manifestanti e due persone si sono lanciate dal secondo piano del Tribunale elettorale per sfuggire a un incendio. Intanto a Riberalta, città amazzonica a Nord di La Paz, è stata abbattuta la statua dell’ex presidente venezuelano Hugo Chávez, di cui Morales era amico.

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Un sintetico richiamo a qualche dato particolarmente eloquente può aiutare a capire quello che è successo in Umbria dove è verissimo che, come sottolineava Marco Travaglio, a ridosso del voto, la regione era già pacificamente persa ed “essere in partita era già un successo”. Ma dopo il voto la valutazione è condivisibile solo per quanto riguarda il Pd che con un modesto 22% ha confermato la performance non entusiasmante delle Europee e non certamente per il M5S che, come ha rilevato l’Istituto Cattaneo, ha perso in pochissimo tempo un elettore su due e ha subito un deflusso del 3,6% verso la Lega.

Benché sia andato a votare il 10% in più rispetto alle Europee, l’astensionismo ha colpito molto duramente il M5S che, accostando dati compresi in un arco temporale che va dal 6 marzo 2018 ad oggi, è passato in Umbria dal 27% delle Politiche quando era primo partito al 14% delle Europee fino a toccare il 7,4% diventando così quarto partito dietro a FdI.

Le peculiarità negative dell’alleanza giallorossa sono troppo note e troppo dirompenti sia sotto l’aspetto tempo, modalità e storia pregressa quanto “scottanti” per dover essere ricapitolate. Così come non esistono motivi oggettivi per cui il risultato umbro possa essere incredibilmente invocato per pretendere la fine del Conte 2 in quanto “governo abusivo”, non ci sono ragioni inoppugnabili per cui “l’esperimento” che ha condotto a questa complessiva disfatta, solo in parte prevedibile nelle dimensioni, debba essere automaticamente replicato in qualsiasi competizione regionale esclusivamente in funzione dello slogan-assioma “perché se no vince Salvini”.

Il disorientamento già avvertito da una consistente parte dell’elettorato del M5S a livello nazionale per le modalità e per la tempistica con cui ha preso vita il Conte 2 ed il distacco che si è materializzato drammaticamente in Umbria dove il percorso è stato ancora più accidentato e “spericolato”, nonostante la presenza di un candidato civico rassicurante come Vincenzo Bianconi, non devono più essere ignorati o sottovalutati in vista delle prossime elezioni regionali.

Se Di Maio constata, quando gli viene chiesto di commentare le parole di Zingaretti “o l’alleanza con M5S è unita o niente governo”, che “non ci sono i presupposti per un accordo strutturale con Pd e M5S” e che non è per niente proficuo passare disinvoltamente da “mai con il M5S” ad una alleanza strutturale da riproporre sempre e comunque in quanto “alternativa vincente” nel paese, mi sembra che si limiti a prendere atto della realtà senza volerla piegare a pur legittime ma irrealistiche speranze ed aspettative e che eserciti semplicemente un po’ di buon senso politico senza fughe in avanti.

Ha ragione Giuseppe Conte quando ha affermato prima del voto e ribadito dopo che lo schiaffo sonoro all’alleanza improvvisata a tavolino tra Pd e M5S da parte di quel 2% di elettorato “non può essere letto come un giudizio sull’operato del governo” e, aggiungo, le pretese di sfratto dei vincitori umbri sono semplicemente ridicole come le accuse pittoresche e involontariamente comiche riversate sull’operato del governo che secondo FI ci garantisce un “Halloween da incubo, tutto tasse, manette, immigrati”, dunque imperdibile.

Ma il presidente del Consiglio dovrebbe forse considerare che l’avversione del tutto immotivata al suo esecutivo e alla manovra economica, che pure conserva misure condivisibili del precedente esecutivo e introduce meritevolmente incentivi alla green economy e rilevanti misure anti-evasione, deriva dal “peccato originale” del cosiddetto ribaltone e da un programma di governo last minute tra avversari-nemici percepita come una specie di improvvisata “santa alleanza” contro Salvini.

Questa “miscela negativa”, che ha nociuto in modo particolare al M5S, non deve essere riprodotta come un modello pedissequo e preteso in nome dell’asserita necessità di arrestare la corsa dei “barbari”, per il semplice motivo che non è con una manovra tattica che si mina la popolarità, fondata quanto si vuole sulla propaganda, ma reale di Salvini e Meloni.

Per questo non credo che debbano essere ascoltati “i consigli non richiesti” e dati certamente in buona fede a favore di un’alleanza tout-court in Emilia Romagna con il Pd a sostegno di Stefano Bonaccini, da sempre vicino a Matteo Renzi e già coordinatore della sua campagna elettorale nel 2013. E la circostanza che attualmente Renzi con la sua Italia Viva seguendo i tempi che ritiene più propizi cerchi di logorare il governo e inviti Conte “a stare sereno” non mi sembra possa favorire le ragioni di un’intesa elettorale tra Pd e M5S per eleggere Bonaccini.

Infine il punto essenziale sulla sonora sconfitta in Umbria ed alleanze per il M5S credo che l’abbia centrato Chiara Appendino: “Il nostro problema non è l’alleanza con il Pd ma interrogarsi sul perché Meloni e Salvini abbiano così tanto consenso… ci sono temi che loro pongono e che hanno bisogno di risposte”.

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Il Pentagono ha pubblicato le prima immagini del raid al compound nella provincia di Idlib che ha portato all’uccisione del leader dell’Isis, Abu Bakr al-Baghdadi. Il video condiviso su Twitter dall’Us Central Command mostra le forze americane avvicinarsi al compound. Baghdadi è stato tradito da uno dei suoi uomini più fedeli, che voleva vendicarsi dell’assassinio di un parente ordinato dai vertici Isis e che ora incasserà la taglia da 25 milioni di dollari. Kenzie ha anche detto che le analisi del Dna hanno confermato “al di là di ogni dubbio” che l’uomo morto nel weekend sia al Baghdadi. Il generale Frank McKenzie, capo del Comando Centrale degli Stati Uniti, ha parlato di “una corrispondenza diretta” che “ha prodotto un livello” altissimo “di certezza che i resti fossero di al Baghadi”. Per quanto riguarda la sepoltura, il generale ha confermato che “è stato sepolto a mare in accordo con la legge dei conflitti armati entro le 24 ore dalla sua morte”

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Se a scuola fai il presepe, lo paga la Regione Lombardia. In vista del Natale la giunta regionale ha approvato una delibera che stanzia 50mila euro per finanziare progetti che prevedono la realizzazione del presepe nelle scuole dell’infanzia, primarie e secondarie. Il contributo di 250 euro per l’acquisto di materiale necessario alla realizzazione del presepe sarà concesso alle prime 200 scuole che presenteranno la domanda. Dio non ci maledica ma siamo di fronte ad un proselitismo di Stato.

Non ho nulla contro la tradizione del presepe. Anzi, pur essendo ateo, ho sempre ammirato il rito del ricostruire la natività, del rappresentare la nascita di Gesù, attraverso l’arte. Non ho nulla nemmeno contro i presepi fatti nelle scuole dal momento che spesso sono un’occasione preziosa di scambio, di condivisione di una tradizione. E’ bello, ad esempio, sapere e notare con i bambini le differenze che vi sono tra un presepe ortodosso rappresentato su un’icona e quello cattolico.

Il presepe diventa patrimonio di tutti, di bambini e genitori di qualsiasi religione in quanto rappresenta un messaggio di pace e di gioia che appartiene ad ogni credo. Fa riflettere, tuttavia, che sia un ente statale quale la Regione a fare una campagna pro-presepio. C’era bisogno che lo Stato si facesse garante della promozione di una tradizione legata al cristianesimo? La Regione Lombardia avrebbe fatto bene a spendere quei 50mila euro in maniera diversa in una scuola dove manca anche la carta igienica e la carta per le fotocopie. I presepi sono una priorità in una scuola che cade a pezzi?

Non solo. Il messaggio che arriva dal Pirellone è quello di realizzare un presepe “ricco”: 250 euro per la realizzazione di un presepe non sono cifra da poco. Eppure il presepe dovrebbe essere una rappresentazione povera, umile, semplice. Per farlo a scuola basta del materiale da riciclo, del cartone, il dono di qualche falegname del paese e la collaborazione di qualche genitore. Nulla di più. Forse ogni scuola potrebbe meglio usare quei 250 euro per comprare del cibo per i più bisognosi della comunità e per festeggiare in qualche modo con loro il Natale.

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Il segretario del Pd, Nicola Zingaretti, intervistato da Radio Capital, ha proposto a sorpresa di cambiare nome al suo partito. “Daremo vita a un nuovo partito che si chiamerà Partito democratico o quello che decideremo”, ha detto.

Quella di cambiare nome al Partito democratico è un’idea che aleggia da tempo al Nazareno, ma finché c’era Renzi non era mai stata presa sul serio. Oggi a proporla è il segretario del partito, nell’ottica di un restyling che comprenderà anche lo statuto, da fare orientativamente ad inizio 2020 in occasione di un congresso Pd.

In termini di consenso, quella di cambiare nome al Partito democratico è oggi una buona idea, per tre motivi.

1 – Il nome del Pd è ormai un marchio del diavolo

Nascosto sempre più spesso dai manifesti elettorali dei suoi candidati, il simbolo del Pd è associato alla vecchia politica, a scandali di ogni tipo, arresti e nefandezze varie.

Nel marketing politico, esattamente come in quello aziendale (una delle rare analogie) un logo non è solo un disegno, ma un simbolo nel suo vero senso, ovvero un segno che racchiude in sé dei valori, una storia (positiva o negativa che sia) e delle emozioni.

Che tipo di valori, storia ed emozioni racchiude oggi agli occhi dell’elettorato il simbolo del Partito democratico? Molto negativi. Se non puoi cambiare le persone, almeno cambia la veste.

2 – Il momento è giusto, occorre sfruttare l’alleanza col M5S per rifarsi l’immagine

Il Pd con il volto di Zingaretti ha recuperato consensi come dimostra la crescita alle elezioni Europee ed il sorpasso nei confronti del M5S. Nel voto in Umbria ha pesato lo scandalo nella sanità che ha coinvolto il Pd locale. Eppure rispetto alle europee il partito è sceso di poco.

Si può crescere ancora molto, e l’alleanza col M5S fa bene a tutti (tranne che ai 5 Stelle), come abbiamo visto con la Lega di Salvini che durante il periodo in cui hanno governato insieme ha raddoppiato i consensi, rispetto alle politiche del 2018.

L’abbraccio col M5S è salutare per tre motivi. Prima di tutto, ti toglie di mezzo un nemico – ora alleato – che ogni giorno ti attaccava. Il Pd non può ricevere attacchi dall’alleato di governo, come accadde a Salvini prima della rottura. Il secondo motivo è che, essendo liberi da scandali e potendo parlare ancora di onestà, i 5 Stelle danno una sorta di patente ai propri alleati, facendoli apparire come il meno peggio, un’alternativa. La Lega non era come il Pd, durante l’alleanza. Il Pd di oggi non è mafioso e corrotto come quello antecedente all’alleanza. Questo è il messaggio implicito.

Infine Nicola Zingaretti ha il merito di aver appoggiato Conte premier, il politico che gode di più fiducia da parte degli italiani. In questo preciso momento in cui il governo giallorosso va avanti, Zingaretti ha anche come leader in prima persona tutte le carte in regola per crescere ancora, se slega la sua immagine dal passato del Pd con un restyling.

3 – Con la nascita di Italia Viva ora il Pd ha due nemici

Oggi Salvini e Renzi attaccano il “Partito democratico”, un nome che tutti gli italiani conoscono. Dopo il cambio nome chi attaccheranno? Il nuovo nome del partito sarà meno conosciuto dalla popolazione, almeno per i primi mesi. Se invece decideranno di attaccare Zingaretti, la cosa non funzionerà molto, visto che ad oggi il segretario non ha scandali o vicende gravi da cui difendersi. Non è ancora un nemico pubblico.

Cambiare nome al Pd quando c’era ancora Renzi sarebbe servito a poco, essendo il suo stesso un nome molto polarizzante e poco amato. Attaccando Renzi, attaccavi il Pd. In buona parte valeva lo stesso per Maria Elena Boschi. Con la loro uscita ci sono tutte le condizioni ideali per un restyling che porti consensi.

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“Il Memorandum con la Libia? Si può migliorare, ma sarebbe un vulnus politico bloccarlo“. Così il ministro degli Esteri Luigi Di Maio aveva difeso il patto tra Roma e Tripoli, che sarà rinnovato il prossimo 2 novembre in modo automatico, al di là delle richieste di sinistra e associazioni per stralciare l’accordo, di fronte a un Paese in piena guerra civile e considerato dall’Ue un porto non sicuro. Dal ministro degli Esteri nessun passo indietro, nonostante la notizia che Abdul Rahman Milad, più noto come Bija, dall’Onu considerato un trafficante di essere umani e già noto per la sua presenza al vertice con i funzionari del Viminale in Italia, sia stato confermato alla guida della Guardia costiera libica di Zawiya.

Di Maio ha mostrato la sua realpolitik: “Complicità dell’Italia con le violazioni di diritti umani in Libia con il rinnovo del Memorandum? Questo memorandum con la Libia, firmato dal presidente del Consiglio Paolo Gentiloni e dall’allora ministro degli Interni Marco Minniti, può essere migliorato soprattutto nella parte che riguarda i centri e che riguarda le condizioni dei migranti. Ma ovviamente lo facciamo nell’ambito delle norme previste dallo stesso memorandum, che ci permettono di riunire la commissione Italia-Libia”, ha avvertito. Tradotto, l’impianto generale non cambierà. E ancora: “Nessuno può smentire che grazie a quel memorandum siamo passati da 170 mila sbarchi a 2.200 sbarchi in Italia nel giro di due anni”, ha tagliato corto il capo politico M5s, non volendo rispondere ad altre domande. A partire dal fatto che quegli sbarchi siano calati soltanto perché la presunta Guardia costiera libica, in realtà le stesse milizie che pattugliano la costa libica, blocca i migranti riportandoli indietro nei campi di detenzione libici. Gli stessi per i quali sia l’Onu che diverse ong hanno più volte denunciato torture nei confronti dei migranti e condizioni disumane

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Il Napoli pareggia con l’Atalanta in un mare di polemiche, la Juve batte il Genoa sospinta da un paio di decisioni più che favorevoli, la Roma stravince contro l’Udinese nonostante un putiferio arbitrale. Almeno quattro episodi decisivi per la giornata (per il campionato sarebbe un’esagerazione, ma certo la vittoria in extremis dei bianconeri e lo stop degli azzurri peseranno anche alla fine). E nessuno che va a controllare, rivedere, accertarsi di aver preso la decisione giusta. Perché in Italia i fischi arbitrali non si discutono, si accettano come legge divina.

La Serie A era iniziata male con l’applicazione delle nuove regole sui falli di mano (internazionali certo, ma l’interpretazione è tutta italiana), prosegue peggio. Il turno infrasettimanale è stato forse la giornata più negativa dall’inizio della stagione. Non tanto nei risultati quanto nelle polemiche. A guardare gli episodi nel merito, infatti, non c’è stato alcuno scandalo epocale. L’unica vera topica è l’espulsione di Fazio per una normale spallata, ma col 4-0 della Roma l’errore si sarebbe potuto facilmente archiviare. Il rigore su Ronaldo è generoso, più grave è l’ingenuità del giocatore del Genoa che al 95’ sgambetta un avversario in area in posizione defilata. Idem l’espulsione di Cassata: severa, impensabile a parti invertite, ma si è visto di peggio. Persino l’episodio più discusso, quello di Napoli, non è così netto: Kjaer si disinteressa del pallone e travolge Llorente, ma prima è lo spagnolo a colpirlo con un gomito alto. Perché tutto questo caos allora? Per colpa degli arbitri: non delle loro scelte, ma del loro atteggiamento. Una “casta” che non accetta sia messo in discussione il suo potere e fa di tutto per resistere al cambiamento.

Stavolta ha detto tutto Aurelio De Laurentiis: “Io non voglio dire se sia rigore o meno. Io dico che ho il diritto di vedere le immagini al Var. Venissero a spiegarci le cose, anziché pontificare dall’alto. Ma chi siete? Calmi, tranquilli, sereni. Questo è il più bel gioco del mondo, che state cercando di avvelenare”. Da un anno e mezzo, infatti, il calcio (non solo quello italiano, ma soprattutto quello italiano) è prigioniero del paradosso del Var: abbiamo finalmente introdotto uno strumento tecnologico che potrebbe ridurre al minimo errori e contestazioni, eppure non lo sfruttiamo a pieno per non mettere in discussione il ruolo degli arbitri. Come se il direttore di gara fosse una componente del gioco e non un suo giudice terzo.

All’inizio è stata una restaurazione silenziosa, poi conclamata dalle modifiche dei protocolli internazionali: è bastato introdurre un cavillo, la capziosa definizione di “chiaro ed evidente errore” a cui è condizionato il ricorso alla moviola, per sterilizzare l’oggettività della tecnologia e tornare all’antico. A parte una casistica davvero circoscritta, praticamente qualsiasi decisione può essere considerata una scelta dell’arbitro. Così sono liberi di utilizzare il Var ma anche di non farlo. Ed è quello che è successo di nuovo, per l’ennesima volta, ieri sera.

Sarebbe stato così semplice aiutarsi. Magari il Genoa non avrebbe giocato oltre mezz’ora in dieci e oggi la Juve non sarebbe prima in classifica. Magari il Napoli avrebbe vinto 3-1 invece che pareggiato 2-2. O magari no, non sarebbe cambiato nulla. Perché ci poteva stare anche confermare le stesse decisioni davanti alla moviola. Ma rivedendo l’episodio al rallentatore, ascoltando cosa si sono detti arbitro e assistente, mostrando magari il fermo immagine della gomitata di Llorente e spiegando che quella era la ragione della scelta, sarebbe stato diverso. Qualcuno avrebbe accettato, qualcun altro sarebbe rimasto dell’opinione contraria perché il calcio è vario. Però almeno tutto sarebbe stato trasparente. In fondo, chiediamo così poco: non vogliamo arbitri perfetti, solo meno presuntuosi.

Twitter: @lVendemiale

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Una “piena aggregazione” alla pari che mira a trasformare il nuovo gruppo nel “leader della mobilità sostenibile” a livello mondiale. Il consiglio di amministrazione di Fiat Chrysler Automobiles e il consiglio di sorveglianza di Psa Peugeot hanno concordato all’unanimità di lavorare per il matrimonio tra l’ex Fiat e il gruppo francese che ha tra i propri marchi Peugeot, Opel e Citroen. L’annuncio arriva da una nota congiunta, dopo le indiscrezioni dei giorni scorsi.

Entrambi i consigli hanno dato mandato ai rispettivi team di portare a termine le discussioni per raggiungere nelle prossime settimane un memorandum of understanding vincolante. La fusione proposta creerebbe il quarto costruttore automobilistico al mondo in termini di unità vendute (8,7 milioni di veicoli), con ricavi congiunti di quasi 170 miliardi di euro e un utile operativo corrente di oltre 11 miliardi di euro, sulla base dell’aggregazione dei risultati del 2018 ed escludendo Magneti Marelli e Faurecia.

Fca e Psa prevedono “sinergie annuali a breve termine stimate in circa 3,7 miliardi di euro”, il tutto, si specifica nella nota, “senza chiusure di stabilimenti”. Si prevede che l’80% delle sinergie siano raggiunte dopo 4 anni e il “costo una tantum per raggiungere tali sinergie è stimato in 2,8 miliardi di euro”. Sotto il profilo della struttura societaria, Fca e Psa hanno concordato che i rispettivi azionisti “deterrebbero il 50% del capitale del nuovo gruppo risultante dalla fusione e, pertanto, i benefici derivanti dall’aggregazione sarebbero equamente divisi”.

“Sono contento di avere l’opportunità di lavorare con Carlos e il suo team su questa aggregazione che hai potenziale per cambiare il settore. Abbiamo una lunga storia di cooperazione con Group Psa e sono convinto che, insieme a tutte le nostre persone, potremo creare una società leader nella mobilità a livello globale”, spiega l’a.d. di Fca, Mike Manley. Per Tavares, invece, “questa convergenza crea un significativo valore per tutti gli stakeholder e apre a un futuro brillante per la società risultante dalla fusione”.

L’operazione verrebbe effettuata in forma di fusione sotto una capogruppo olandese – quotata a Parigi, Milano e New York – e la struttura di governance della nuova società sarebbe bilanciata tra gli azionisti, con una maggioranza di consiglieri indipendenti: “Il consiglio di amministrazione sarebbe composto da 11 membri – scrivono le società – Cinque membri del consiglio di amministrazione sarebbero nominati da Fca (incluso John Elkann in qualità di presidente) e cinque da Groupe Psa (incluso il Senior independent director e il vice presidente). Carlos Tavares sarebbe Chief Executive Officer, oltre che membro del consiglio di amministrazione, per un mandato iniziale di cinque anni”.

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Almeno 67 persone sono morte e altre 14 sono rimaste ferite a causa di un incendio divampato su un treno passeggeri in viaggio tra Karachi e Rawalpindi, in Pakistan, vicino alla città di Liaquatpur, nella provincia del Punjab. Secondo le prime ricostruzioni, il rogo è stato causato dall’esplosione di un cucinino a gas che alcuni passeggeri stavano usando impropriamente per prepararsi la colazione a bordo. Il primo ministro Imran Khan ha espresso il suo “profondo dolore per la perdita di vite preziose” e ha invitato le autorità a fornire “la migliore assistenza possibile” ai feriti.

L’incendio ha coinvolto tre vagoni sui quali viaggiavano circa 200 persone, ha detto Baqar Hussain, un funzionario dell’ufficio per le emergenze, sottolineando che il bilancio dei morti sta aumentando rapidamente.

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Al presidente del consiglio, Giuseppe Conte;
al presidente del Senato, Maria Elisabetta Alberti Casellati,
al presidente della Camera, Roberto Fico;
al ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede;
ai segretari, leader e capigruppo di tutti i partiti politici: Luigi Di Maio, Gianluca Perilli e Francesco Silvestri (Movimento 5 stelle), Nicola Zingaretti, Andrea Marcucci e Graziano Delrio (Pd), Pietro Grasso, Loredana De Petris e Federico Fornaro (LeU) Matteo Renzi, Davide Faraone e Maria Elena Boschi (Italia Viva), Matteo Salvini, Massimiliano Romeo e Riccardo Molinari (Lega), Giorgia Meloni, Luca Ciriani e Francesco Lollobrigida (Fratelli d’Italia), Silvio Berlusconi, Anna Maria Bernini, Mariastella Gelmini (Forza Italia);

La Corte costituzionale ha stabilito che i boss mafiosi all’ergastolo per stragi e omicidi potranno ottenere permessi premio, anche se non collaborano con la giustizia. Dopo la sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo e della Grande Chambre, questo è un altro colpo mortale all’ergastolo “ostativo”: la condanna a vita che impedisce la concessione di benefici ai detenuti per mafia, stragi e omicidi che si rifiutano di rompere i legami con le organizzazioni criminali raccontando tutto quello che sanno. Si tratta di un crepa nella legislazione contro le cosche che rischia di allargarsi se la politica (e il governo) non interverranno subito.

La Consulta, infatti, ha dichiarato incostituzionale l’articolo 4 bis comma 1 dell’Ordinamento penitenziario “nella parte in cui non prevede la concessione di permessi premio in assenza di collaborazione con la giustizia, anche se sono stati acquisiti elementi tali da escludere sia l’attualità della partecipazione all’associazione criminale sia, più in generale, il pericolo del ripristino di collegamenti con la criminalità organizzata. Sempre che, ovviamente, il condannato abbia dato piena prova di partecipazione al percorso rieducativo”.

Ma come si fa a capire se boss all’ergastolo, come Leoluca Bagarella e Giuseppe Graviano, condannati per le stragi, stiano realmente compiendo un percorso rieducativo? Nei casi degli altri ergastolani “comuni” (per i quali già prima della sentenza della Consulta era permesso ottenere benefici) la valutazione si basa principalmente sul comportamento da loro tenuto in carcere. Un comportamento che per i boss mafiosi è, però, tradizionalmente sempre impeccabile. Come allora stabilire se un capomafia vuole cambiare davvero vita e non sta fingendo? È realmente possibile concedere benefici ai boss delle stragi, sebbene non abbiano raccontato i segreti di cui sono depositari? L’ergastolo ostativo era stato introdotto dopo la strage di Capaci. Da oggi in poi basterà invece trovare un giudice di sorveglianza che applichi pedissequamente la sentenza della Consulta per vedere mafiosi pericolossimi uscire dal carcere in permesso premio. Anche perché se un giudice da solo dovrà decidere se concedere un beneficio a un boss, sarà inevitabilmente esposto alle pressioni, ai ricatti, alle minacce di morte (per sé e i suoi familiari) e ai tentativi di corruzione dei clan.

È qui che entra in campo la politica. Se la Consulta ha considerato incostituzionale l’articolo 4 bis dell’Ordinamento penitenziario, il legislatore deve adoperarsi subito per approvare una nuova norma che stabilisca parametri e principi fissi da seguire per concedere o negare i permessi agli ergastolani “ostativi”. Una legge che li sottragga alla discrezionalità dei semplici giudici di sorveglianza sul “percorso rieducativo” e “l’attualità della partecipazione all’associazione criminale”.

“Mi aspetto e voglio un legislatore che riduca la fisarmonica del potere discrezionale del giudice”, ha detto per esempio Nicola Gratteri, procuratore capo di Catanzaro. “Spero che la politica sappia prontamente reagire e approvi le modifiche normative necessarie a evitare che le porte del carcere si aprano indiscriminatamente ai mafiosi e ai terroristi condannati all’ergastolo”, ha commentato Nino Di Matteo, componente del Csm ed esperto pm antimafia. Un altro membro di Palazzo dei Marescialli, Sebastiano Ardita, teme per la “pressione” che le organizzazioni mafiose potrebbero esercitare sui magistrati di sorveglianza. Ora, dice, “il legislatore ha il compito di modulare in concreto l’ampiezza di questa innovazione e impedire che quella che dovrebbe essere una eccezione diventi una regola, che va a beneficio di personaggi capaci di riorganizzare Cosa nostra e non rivolta a chi sta fuori dalla organizzazione”. Alfonso Sabella, l’ex pm che catturò decine di boss corleonesi latitanti, invoca una “norma salva-magistrati” che preveda una “competenza collegiale” e non monocratica, per non “personalizzare la decisione” e “diluire le responsabilità tra i magistrati e quindi proteggerli”.

Per questo, considerata la necessità e urgenza della lotta alla mafia, chiediamo una legge – o meglio ancora un decreto legge – che impedisca a capimafia e agli altri responsabili di stragi di truffare lo Stato, i magistrati e i cittadini onesti ottenendo permessi e altri benefici senza meritarli. Una norma che il Parlamento dovrebbe approvare all’unanimità.

Firma la petizione del Fatto Quotidiano e del Ilfattoquotidiano.it su Change.org

Peter Gomez, Marco Travaglio e le redazioni del Fatto Quotidiano e de ilfattoquotidiano.it

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Amerigo ha sette anni e vive con la madre Antonietta in un quartiere popolare della città di Napoli: spesso non hanno di che mangiare, vivono di espedienti. Ma nel rione gira voce che i bambini poveri possono avere una speranza: vivere al Nord per qualche tempo. Amerigo verrà dunque accompagnato, insieme ad altri bambini, a prendere il treno che lo porterà verso una destinazione a lui sconosciuta, Modena, dove troverà una famiglia accogliente che lo farà sentire protetto e amato.

E’ la trama dell’ultimo libro di Viola Ardone Il treno dei bambini (Einaudi, 248 pagg, 17,50 euro) che, partendo dal racconto di una storia realmente accaduta, apre la finestra su una storia quasi sconosciuta: “l’operazione ideata” nel Dopoguerra dal Partito comunista insieme all’Udi, l’Unione delle donne italiane, per portare, tra il 1946 e il 1952, circa 70mila bambini poveri del Sud in affidamenti temporanei in famiglie del Nord. Li chiameranno i “treni della felicità“: i bimbi infatti potranno vivere molte “prime volte”, a partire dal primo viaggio in treno fino alla prima cameretta tutta per loro.

Dietro, però, la realtà era più complessa, più drammatica, più dolorosa com’era la separazione dai genitori. Fu un affido di massa. Le comunicazioni erano limitate e le informazioni giungevano solo tramite lettera e, spesso, dato il tasso di analfabetismo elevato, bisognava ricorrere a chi sapeva leggere. E poi le dicerie, le leggende nere: si raccontava che i comunisti gli avrebbero tagliato le mani e che li avrebbero mangiati o che da quel treno non sarebbero ritornati vivi perché spediti in Russia.

In realtà, ovviamente, non accadde nulla di tutto questo, ma la condizione di fragilità psicologica in cui vertevano le famiglie era tangibile. In un’Italia lacerata dal conflitto, era necessario ripartire in qualche modo e la soluzione più immediata per garantire un futuro degno ai propri figli fu questa. Bambini dai 4 ai 12 anni furono portati, per un breve periodo, nelle regioni del Centro Nord e furono affidati ad altre famiglie di modo che potessero superare l’inverno.

E tra i protagonisti di quella storia ci fu anche Amerigo, ragazzino proveniente dai Quartieri Spagnoli, che si ritrovò ad affrontare il viaggio della speranza. Dal suo finestrino vedeva paesaggi sconosciuti, cercando di farsi forza quando il ricordo della madre si faceva più insistente e, nel frattempo, chiacchierava con i suoi amici più cari, Tommasino e Mariuccia, che avrebbero condiviso con lui il suo stesso destino. Ecco che il viaggio diventa metafora, il luogo perfetto per guardarsi dentro e maturare.

Il treno dei bambini, caso editoriale già prima di uscire – all’edizione 2018 della Fiera di Francoforte – e in corso di traduzione in venticinque lingue, è un romanzo che racconta uno spaccato d’Italia che commuove e Viola Ardone ha saputo, con il suo stile unico e puro, confezionare un libro di una bellezza straordinaria. Ha dato voce agli ultimi, si è immedesimata in Amerigo, rendendolo un protagonista coraggioso, fiero e sensibile ed ha riscattato la sua condizione, partendo dalla sua voglia di imparare e di sentirsi accettato, senza doversi più nascondere all’interno di una società che lo vedeva come un reietto.

Amerigo della dignità ha fatto il suo scudo e trasmette una grandissima lezione di vita: non importa dove sei nato, se tu vuoi, con spirito di sacrificio e determinazione, puoi arrivare dove tu desideri. L’importante è crederci. Questo darà la spinta ai sogni. Lui ce l’ha fatta e, da ragazzo di quartiere con le scarpe bucate, è diventato un uomo che della sua passione ne ha fatto un mestiere. Prendere quel treno, forse, ne è valsa la pena.

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Una “spiacevole sorpresa”, l’ha definita Sophie Coignard sul settimanale Le Point. I visitatori della mostra “In Memory of Me” dell’artista Stéphane Simon, allestita nella sede dell’Unesco nel settimo arrondissement di Parigi durante le Giornate del Patrimonio sono rimasti senza parole. Ma non a causa delle opere dell’artista, cioè statue di uomini nudi che posano per un selfie senza avere alcun cellulare. A lasciarli senza parole sono stati i perizoma indossati da due delle statue in esposizione. La spiegazione? “Non offendere la sensibilità di nessuno”. L’Important, la testata online che riporta informazioni tramite social network, è tempestata di messaggi di utenti, increduli. “La questione della nudità è stata discussa” spiega Stéphane Simon. “Capisco che può disturbare. Così ho proposto di poter restare nelle vicinanze della mostra, in occasione delle Giornate del Patrimonio, con un panno: in modo da nascondere, se necessario, il sesso delle statue”. Si tratta di una nuova versione dei fatti: come l’artista ha cercato di spiegare a ChekNews Libération, la sua proposta non sarebbe stata compresa dall’Unesco, che, pochi giorni prima dell’inizio dell’evento, gli avrebbe chiesto conferma del suo proposito di nascondere definitivamente il sesso delle statue. Così il giorno prima della mostra, l’artista,”rimasto interdetto”, ha quindi proposto di coprire le sue opere con della biancheria intima.

L’Unesco, però, contattato da le Figaro, ha dichiarato che “non impone nulla agli artisti”: si sarebbe quindi trattato di un equivoco e non di una censura. Come in altri casi, anche recenti. Si pensi per esempio a gennaio 2016, quando Matteo Renzi aveva cercato di censurare le nudità dei Musei Capitolini per non turbare la sensibilità del premier iraniano, in visita in Italia. Stessa scelta che l’allora premier fece nell’ottobre 2015, quando in occasione della visita a Firenze del principe ereditario di Abu Dhabi, Mohammed bin Zayed, aveva deciso di nascondere alcune statue dell’artista americano Jeff Koons, in esposizione a Palazzo Vecchio. Ma la casistica al riguardo è vastissima. Ancora nel 2015 il canale MyFoxNy nel dare la notizia che il dipinto di Pablo Picasso Les femmes d’Alger era stato battuto all’asta per quasi 180 milioni di dollari, pensò bene di mostrare il quadro offuscando i capezzoli delle donne raffigurate. Per non parlare del Nu Couché di Modigliani, battuto all’asta a novembre 2015 da Christie’s a 170 milioni di dollari, e censurato da alcuni media anglosassoni che hanno avuto l’accortezza di coprire seno e pube della donna distesa sul letto rosso e il cuscino azzurro. “Il Nudo è una componente fondativa della nostra civiltà che affonda le radici nell’Atene di Pericle. È la dimostrazione della profonda armonia con la Natura, dell’uomo misura delle cose, testimoniato dal modulo geometrico dell’uomo vitruviano di Leonardo”, spiega a Ilfattoquotidiano.it, Marco Nocca, professore di Storia dell’Arte Antica all’Accademia di Belle Arti di Roma. “La barbarie non è nell’Islam che non ammette il nudo come manifestazione pubblica – sentenzia – Stavolta è nell’Occidente, col suo rispetto piagnone e filisteo che ha paura della propria identità, a cui è fatalmente disposto a rinunciare, coprendo non solo le pudenda. Coprendosi di ridicolo”.

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Il governo di Atene ha varato un piano straordinario per spostare 25mila migranti dalle isole alla terraferma, redistribuendo quote di rifugiati e richiedendo asilo in hotel e appartamenti su tutto il territorio nazionale. La misura, tuttavia, difficilmente risolverà il problema perché gli arrivi non si arrestano e la congestione sembra non avere fine. Con una aggravante: gli alberghi che lo scorso anno hanno ospitato migranti e rifugiati al costo giornaliero di 12 euro a persona non sono ancora stati pagati dallo Stato.

Gli arrivi via terra e via mare nel 2019 sono stati 46.100, in aumento del 24% rispetto al 2018, mentre i soli arrivi via mare sono aumentati del 54% contribuendo a spostare l’attenzione sulle reali intenzioni della Turchia, sempre meno compartimento stagno. Va ricordato che dopo l’accordo da 6 miliardi stretto dall’Ue con la Turchia nel marzo 2016, il presidente turco Recep Tayyip Erdogan ha detto chiaramente che ha bisogno di altri soldi europei per tenersi i migranti. E aprirà le sue frontiere settentrionali con la Grecia per mandare in Europa i 3,6 milioni di profughi che si trovano oggi sul suolo turco. Ecco che a preoccupare è non solo la frontiera turco-ellenica sul fiume Evros, ma anche quel fazzoletto di mare che separa Grecia e Turchia da sole 3 miglia marittime, da dove transitano non solo migranti ma anche una notevole quantità di stupefacenti (passaggio che ha attirato le attenzioni della Dea, ormai in pianta stabile in Grecia con un nucleo investigativo ad hoc).

Solo martedì, in tre diverse operazioni, la Guardia costiera ellenica ha salvato 116 profughi tra le isole di Samos e Farmakonisi, oltre che nel porto settentrionale di Alexandrupolis.

Il tema è al centro del vertice euro-arabo in programma ad Atene, con l’incontro tra il premier greco Kyriakos Mitsotakis e il segretario generale della Lega Araba Ahmed Abdul Gheit. Ma il problema resta di natura politica con Ankara e le sue strategie anche nei confronti dell’Ue.

Come ha osservato l’Ambasciatore turco ad Atene, Burak Ozugergin, la Turchia attende la nuova legislazione greca, che potrebbe facilitare un aumento dei tassi di rimpatrio nei paesi di origine perché “potrebbe davvero ravvivare l’aspetto dissuasivo dell’accordo Turchia-Ue”. Se gli aspiranti migranti sanno che alla fine verranno rimpatriati anche se riusciranno a raggiungere le coste di un’isola greca, è la sua tesi, potrebbero non imbarcarsi su tali viaggi potenzialmente letali. “Non vogliamo vedere più foto di bambini a terra – ha detto il diplomatico – È una macchia sulla faccia della civiltà. Detto questo, vorrei ricordare anche che l’accordo Turchia-Ue contiene diversi elementi che non sono stati rispettati dall’Ue”. Il riferimento è alla condivisione degli oneri in Siria, dove secondo il diplomatico non vi sono opportunità eque per una vita dignitosa.

Non è d’accordo Mitsotakis, che ha replicato ad Ankara così: “Coloro che hanno ingigantito la crisi dei rifugiati, usando i perseguitati come pedine per inoltrare i propri obiettivi geopolitici, dovrebbero essere più cauti quando si riferiscono alla Grecia”, ricordando che ad oggi su suolo ellenico sono ospitati 78mila rifugiati e migranti, di cui circa 33.700 sulle isole inviati dai trafficanti di esseri umani a cui la Turchia consente di operare.

twitter@FDepalo

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Trentasette fogli e dodici emendamenti. Su ogni foglio le firme del capogruppo Gerhard Lanz, e dei consiglieri Helmut Tauber e Josef Noggler, rappresentanti di Sudtiroler Volkspartei, il partito che da sempre governa la Provincia autonoma di Bolzano (anche se ora lo fa assieme alla Lega) e che ha un peso importante nel consiglio regionale del Trentino Alto Adige. Svp ha schierato tre dei suoi uomini più rappresentativi a difesa del vecchio sistema dei vitalizi. Perchè ognuno di quegli emendamenti è stato presentato all’ultimo momento per tagliare la strada in commissione al disegno di legge che deve equiparare la Regione, sul tema del trattamento economico, a tutte le altre regioni italiane. Così hanno deciso una legge dello Stato e la conferenza Stato-Regioni dello scorso aprile, intimando un adeguamento che in realtà dovrebbe già essere in atto.

La modifica legislativa è meno scontata di quanto si credesse nel momento in cui la giunta regionale, a luglio, illustrò il disegno di legge numero 11 che prevede “la rideterminazione degli assegni vitalizi e di reversibilità secondo il metodo di calcolo contributivo”. La novità è nel calcolo che tiene conto dei contributi versati (anche se in parte pagati dalla Regione), come avviene per tutti i lavoratori. Il 19 settembre la Commissione competente della Regione Trentino Alto Adige avrebbe dovuto esaminare la legge per poi portarla in aula. Sembrava una formalità. Invece fu deciso un rinvio e quelli dei Cinquestelle cominciarono a sentire puzza di bruciato. Ecco che alla vigilia della nuova riunione, Svp ha protocollato le 37 pagine e i 12 emendamenti.

Lo scopo? “Evitare problematiche interpretative e vuoti legislativi”. E ancora: “Creare equità all’interno della legge 2014… usare tavole di mortalità non obsolete…”. In realtà l’obiettivo sembra essere più concreto, anche se di difficile lettura finchè gli uffici tecnici non avranno fatto i calcoli. Di sicuro Svp si è applicata con impegno, vista la mole degli interventi. In pratica verrebbe tolto il contributo di solidarietà agli assegni vitalizi, non appena si passerà al sistema contributivo. L’indennità differita (una specie di pensione) è il nome nuovo dei vitalizi e sarà calcolata sulla base di quanto effettivamente versato, e su un’età di 67 anni, ma con la possibilità di anticipare il termine di 5 anni (seppure con riduzioni dell’assegno). Viene posto un limite di cumulo a 9.000 euro lordi al mese in caso di altri vitalizi europei o nazionali. Vengono ricalcolate le somme riguardanti attualizzazioni e anticipi sulla base di tabelle Istat con aspettative di vita superiori a quelle precedenti.

Il capogruppo Lanz ha dichiarato in Commissione: “Noi riteniamo che la riforma del 2014 abbia già dato una risposta alla questione dei vitalizi”. Detto così, è un tentativo di riportare l’orologio delle prebende politiche indietro di cinque anni. Filippo Degasperi, dei Cinquestelle, usa il sarcasmo: “Non solo Svp è pienamente legittimata a portare avanti l’iniziativa, ma visto il consenso raccolto dai partiti (tutti) che con i vitalizi hanno allegramente (e segretamente) banchettato, fa anche bene…”. Poi però ricorda: “Con una battaglia ormai di retroguardia, ho provato (talvolta riuscendoci) a far sapere quello che stava succedendo, ho spiegato che distribuire in segreto quasi 100 milioni di euro di anticipi sulle future pensioni rappresentava un privilegio, ho evidenziato che le restituzioni promesse si avvicinavano molto alla farsa e che nessuno si era attivato per avviare le procedure di riscossione coattiva nei confronti dei consiglieri renitenti”.

Tagliente Alex Marini, consigliere trentino M5S: “Gli esponenti Svp si sentono autorizzati a fare qualsiasi cosa, come fossero antichi signori feudali e il ceto politico non vede l’ora di restaurare i propri privilegi castali. Fino ad oggi la maggioranza regionale sui vitalizi ha fatto melina: evitano accuratamente di fornire le formule di calcolo e i dati richiesti su versamenti, anticipi e quant’altro, rendendo impossibile effettuare valutazioni oggettive sul tema”. Paolo Ghezzi del gruppo Futura: “La maggioranza regionale scricchiola sulla riforma dei vitalizi. Gli emendamenti riducono fortemente l’impatto, cercando di limitare i tagli previsti alle ‘pensioni’ dei consiglieri regionali (e dei loro familiari)”.

Forse la maggioranza non scricchiola, eppure una difformità sta emergendo. Il presidente del consiglio regionale, il leghista Roberto Paccher, è contrario alla proposta Svp: “Avanti con il disegno di legge che prevede un risparmio del 20 percentro per le casse regionali. Lo prevede la legge nazionale, ma soprattutto è un fatto morale, di equità verso gli altri cittadini”. Gli emendamenti? “Quasi tutti i partiti li giudicano inopportuni e inapplicabili”. Il 4 novembre, la prima resa dei conti in commissione.

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