marzo 2021

Qualcuno dice di averlo visto in giro con un puma. Altri di averlo riconosciuto mentre comprava una Porsche in contanti. C’è addirittura chi giura di averlo notato al volante della sua Volvo, con il motore acceso mentre aspettava che due complici rapinassero un negozio di sport. Barry Bennell è stato molte cose nel corso della sua vita. Anche se Clement Goldstone, il giudice che lo ha condannato per violenze e molestie su minori, ha preferito definirlo “incarnazione del diavolo”, “male allo stato puro” e “molestatore di bambini su scala industriale”. Sì, perché Barry Bennell è stato soprattutto un pedofilo, un uomo che ha sfruttato la sua posizione di allenatore delle giovanili di Manchester City e Crewe Alexandra per abusare di centinaia di ragazzini. E ha potuto agire indisturbato per quasi vent’anni. Bastava pronunciare il suo nome per far restare senza fiato un’intera generazione di piccoli calciatori inglesi. Solo che questa volta è andata in maniera diversa. Perché dal 2016 in molti hanno iniziato a scandire il suo cognome. Senza più paura.

Il primo è stato Andy Woodward, ex difensore di Crewe Alexandra e Bury che da ragazzo ha subito per anni abusi e violenze da parte del suo allenatore. Woodward ha raccontato la sua storia al Guardian. E da quel momento decine e decine di vittime hanno deciso di farsi avanti. Ne è nata una nuova serie di processi contro violentatori seriali che si annidavano nel calcio giovanile inglese. Ma anche un’inchiesta indipendente che si è conclusa un paio di settimane fa. Con un risultato sconcertante: fra il 1970 e il 1995 la Football Association non è stata in grado di garantire la sicurezza dei suoi piccoli calciatori. Un’assenza che ha permesso a Barry Bennell di distruggere la vita di quei ragazzi che avrebbe dovuto trasformare nei futuri fuoriclasse del calcio britannico. Lui stesso ha ammesso di essere “un mostro”. E lo è diventato eludendo lo stereotipo che si era stampato nell’immaginario collettivo. Allora la parola pedofilo faceva pensare subito a un vecchio sporcaccione, a un freak che viveva ai margini della società. Lui invece era molto diverso. Indossava abiti firmati, girava su auto costose, coltivava un’autonarrazione da vincente. Tutti lo adoravano, tutti volevano stargli accanto. Perché lui riusciva a vedere il talento prima degli altri allenatori. Ed era in grado di realizzare i sogni degli aspiranti calciatori. Ma anche quelli dei loro genitori.

Bennell era una figura rassicurante, ma anche affascinante. La mamma di uno dei suoi giocatori lo ha descritto al Guardian come un uomo “perfettamente abbronzato, bello, con i capelli ricci che saltellavano”. Al resto ci hanno pensato i suoi modi così eccentrici. Pretendeva che gli altri lo chiamassero Bené, scandendo bene l’accento sull’ultima vocale. Perché anche Pelé si pronunciava in quel modo. E lui non voleva essere da meno. Agiva sempre nello stesso, identico, modo. Sceglieva i bambini più introversi, quelli più fragili, quelli più giovani. Li invitava a casa sua. Un appartamento che assomigliava più a una sala giochi che a un’abitazione. Dentro c’era tutto quello che un ragazzino poteva sognare. Tre slot machine, un tavolo da biliardo, tv giganti, console, cabinati di videogiochi, juke box, due cani dei Pirenei, una scimmietta ammaestrata, un cane alsaziano chiamato Zico, un puma. Spaventava i suoi piccoli ospiti con storie di fantasmi e con film dell’orrore. Poi gli diceva che sarebbero stati più al sicuro nella sua stanza. È lì che avvenivano le violenze. Di continuo.

Per convincerli a non parlare tirava fuori dei nunchaku. Esibiva la forza bruta contro qualche oggetto di poco conto. Ma a volte passava alle minacce psicologiche. Diceva che se avessero aperto bocca non sarebbero mai diventati dei calciatori professionisti. Perché lui non glielo avrebbe mai permesso. Ma non finisce qui. Perché Barry Bennell si era procurato un doppione delle chiavi di casa di Dario Gradi, il tecnico che gli aveva affidato il settore giovanile del Crewe Alexandra. E a sua insaputa aveva molestato un bambino nel suo appartamento. Le voci sul suo conto si sono moltiplicate. Ma nessuno ha mai avuto molta voglia di approfondirle, di capire dove la leggenda metropolitana si trasformava in realtà. Perché Bennell era anche un manipolatore. Riusciva a coprire una realtà che chi lo frequentava non riusciva a vedere. O forse non voleva vedere. Secondo il Guardian i genitori di alcuni dei ragazzi che giocavano nelle sue squadre sono andati in vacanza con lui. Addirittura un gruppo di mamme aveva deciso di pulire la sua casa per fargli “una sorpresa”.

Sul finire degli anni Ottanta qualcosa iniziava a trapelare. La sua figura era compromessa, anche se non era ancora mai stato condannato. Alcuni club di Manchester gli avevano vietato l’accesso ai loro campi. Era stato vicino a passare allo United. Tanto che aveva inviato delle lettere per convincere i suoi calciatori migliori a seguirlo. E per persuaderli aveva scritto “Ti amo”. Solo l’intervento di Alex Ferguson in persona aveva fatto saltate la trattativa. Nel 1992 aveva abbandonato il Crewe. Qualche anno più tardi Norman Rowlinson, storico presidente del club, lo definirà “un pifferaio magico con un’attrazione magnetica per i bambini”. Per Bennell era iniziata una nuova fase della sua carriera. Era diventato un collaboratore di Stoke City e Stone Dominoes. Proprio con quest’ultima società aveva organizzato una tournée negli Stati Uniti nel 1994. Niente di speciale, lo faceva praticamente tutti gli anni. Solo che quella volta la storia è andata in maniera diversa. La polizia lo ha arrestato per molestie a un ragazzino. Uno scandalo che non aveva sconvolto più di tanto i genitori dei piccoli calciatori. Secondo il Guardian, infatti, padri e madri dei “suoi” ragazzi avevano dato vita al fondo “Amici di Barry Bennell”, che ha raccolto i soldi necessari per pagare la sua cauzione di centomila dollari.

“I nonni di un ragazzo – scrive il quotidiano – gli hanno versato 6mila sterline, i risparmi di tutta una vita, poi hanno perso tutto quando Bennell ha infranto le condizioni ed è tornato dritto in prigione”. Sì perché nonostante gli fosse stato ordinato di tenersi lontano dai bambini, l’allenatore era stato sorpreso a filmare una squadra di undicenni. La prima condanna non era stata troppo pesante. Perché dopo aver ammesso la sua colpevolezza aveva ricevuto una pena di quattro anni. Nel 1998, però, era stato estradato in Inghilterra. E giudicato colpevole di 25 reati contro minori. Fanno altri nove anni di carcere. Ma dopo sei era già fuori. Si era trasferito a Milton Keynes. E si faceva chiamare Richard Jones. Per mettere insieme il pranzo con la cena riparava computer. Voleva che tutti si dimenticassero di lui. Tranne le vittime dei suoi abusi alle quali aveva chiesto l’amicizia sui social network. Ma nel 2011 era successo qualcosa di particolare.

Gary Speed, ex capitano del Galles e bandiera di Leeds e Newcastle, si era suicidato. Qualcuno si era ricordato di averlo visto a casa di Bennell anni prima, quando era ancora un bambino. Le voci si sono moltiplicate. E in molti hanno collegato la sua fine al suo passato. Bennell ha detto di non aver mai abusato di Gary Speed. Ma ha anche detto che anche se lo avesse fatto, non lo avrebbe mai ammesso. La famiglia dell’ex capitano del Galles – e i suoi avvocati – hanno affermato che il calciatore non è mai stato molestato da Bennell. L’allenatore torna sotto i riflettori. Nel 2015 viene ancora condannato: 2 anni per molestie a un dodicenne. Poi nel 2016 ecco la denuncia straziante di Woodward. Inizia un altro processo. Bennell non mostra neanche una goccia di pentimento. I giudici dicono che una cosa è piuttosto chiara: “A Barry Bennell sta a cuore solo una persona: Barry Bennell”. L’ex pifferaio magico si difende dalle accuse dicendo che due ragazzi non sono stati abusati da lui. Il motivo? Erano troppo grandi. Lui era un cacciatore di tredicenni. Frasi agghiaccianti. Parole che strozzano il respiro. Barry Bennell è stato nuovamente condannato. Ora sta scontando una condanna a 30 anni. È malato di cancro. E secondo il giudice Goldstone “morirà in prigione”. Il problema è che il dolore che ha causato ai suoi piccoli calciatori gli sopravvivrà. Cicatrici invisibili che non si rimargineranno. Mai più.

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Quest’anno sarà possibile bocciare. Nonostante la scuola secondaria sia stata a intermittenza, tra didattica a distanza e in presenza, il ministro dell’Istruzione, Patrizio Bianchi, ha deciso di tornare all’epoca pre-Covid, dopo un anno dove erano stati tutti ammessi alla classe successiva. Una decisione che trova il plauso convinto dei dirigenti scolastici e le critiche degli studenti e delle organizzazioni sindacali. L’unico punto che accomuna tutti è la certezza che fioccheranno i ricorsi da parte dei genitori ai giudici. Tutto ora passa nelle mani delle scuole che non si accontentano della scelta dell’inquilino di viale Trastevere, ma sono già al lavoro perché – come dicono i dirigenti – “non possiamo promuovere tutti come lo scorso anno, ma non possiamo nemmeno valutare senza tener conto della situazione di quest’anno”.

A lanciare una proposta concreta è Danilo Vicca a capo del liceo artistico “Enzo Rossi” di Roma: “Dobbiamo ampliare il numero di materie (solitamente sono tre) per le quali non si è ammessi con l’insufficienza, va prevista l’obbligatorietà dei corsi di recupero con uno scrutinio a settembre, la non ammissione dev’essere un’opzione condivisa da tutto il consiglio di classe”. Vicca è pragmatico. Sa che non basterà sedersi al tavolo e valutare i voti presi: “Non possiamo pensare che quest’anno si possa bypassare la valutazione, significa perpetrare un sistema che potrebbe creare dei vulnus nelle competenze degli studenti. Tuttavia mi metto anche dalla parte del ragazzo che magari non ha avuto tutte le occasioni per fare didattica come si deve, penso alla capacità di concentrazione, alla mancanza di connessione, di device, alle difficoltà ambientali”.

I colleghi del preside dell’artistico sanno che i ricorsi quest’anno saranno dietro l’angolo ma non temono: “Certo – spiega Cristina Costarelli, dirigente del liceo “Newton” di Roma – si rivolgeranno in molti alla Giustizia ma noi dobbiamo lavorare come sempre in scienza e coscienza. Insomma, non ci dobbiamo assolutamente preoccupare. Mandare avanti tutti per indulgenza non ha senso per i ragazzi. L’alunno deve avere un confronto rispetto a quello che ha fatto e poter, eventualmente decidere di cambiare anche indirizzo”. Dello stesso parere Silvia Bertone, preside del liceo “Gramsci” di Firenze: “La scuola deve avere la possibilità di valutare caso per caso senza ammettere tutti per forza. Certo, siamo consapevoli che sarà più facile fare ricorso ai giudici di fronte ad una bocciatura, visto l’anno particolare, ma dobbiamo rispondere a questa situazione con un’attenzione maggiore nei confronti dei ragazzi, in modo particolare a quelli delle prime classi che non hanno potuto frequentare la scuola come dovrebbe essere. La ripetenza dev’essere un’opportunità e non una punizione”.

C’è anche chi, come Ludovico Arte, capo dell’istituto “Marco Polo” del capoluogo toscano, sottolinea la differenza che c’è stata tra regioni: “Qualcuno è andato a scuola in presenza solo per il 10% dell’anno. Gli appigli per fare ricorso affermando che è mancata un’istruzione effettiva ci saranno ma non possiamo immaginare ancora un tutti promossi”. Anche Arte ha qualche idea su come affrontare questa situazione: “Se fossi ministro farei una raccomandazione. Nessuna sanatoria ma non si può giudicare quest’anno come se fosse un periodo normale. Troviamo un punto di equilibro. I ragazzi che hanno tantissime insufficienze li fermiamo, chi si trova sul filo del rasoio lo mandiamo avanti. Dell’effetto pandemia bisogna tenere conto. Questa è la grande occasione per fare una bella riflessione sulla valutazione, non dobbiamo arrivare impreparati a giugno”.

A non condividere il pensiero del ministro sono molti studenti. Per Federico Allegretti, coordinatore nazionale della Rete studenti medi “vale il ragionamento dell’anno scorso. Non ci sono le condizioni per fare in maniera diversa. La stessa ministra Lucia Azzolina – ricorda – prima d’andarsene da viale Trastevere ha detto che la dad non funzionava. È legittimo che i ragazzi e le loro famiglie si appellino alla Giustizia. Non ci resta che fare un appello ai nostri docenti perché tengano conto del disagio che abbiamo subito”. Considerazioni che non sono condivise da tutti i ragazzi. Secondo un sondaggio di Skuola.net, infatti, il 56% degli studenti è contro il tutti ammessi.

A difendere gli alunni è, invece, Pino Turi, segretario nazionale della Uil Scuola: “Lo Stato è stato di fatto inadempiente perché non ha dato ai ragazzi quello che avevano il diritto di avere, ossia l’istruzione. C’è da bocciare il Governo non gli studenti. Tuttavia, non credo che i ricorsi siano la giusta strada da intraprendere perché delegittimano l’istituzione attribuendo ai genitori il ruolo di sindacalisti dei loro figli”.

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Si può davvero migliorare rapidamente la velocità di Internet in Italia sfruttando contemporaneamente fibra, 5G, satelliti e ponti radio Fwa? Il piano B che sta mettendo a punto il ministro per l’innovazione tecnologica, Vittorio Colao, può funzionare. Ma la questione della rete unica in fibra e del futuro di Telecom Italia resteranno comunque il tema più spinoso da affrontare per il governo di Mario Draghi.

Ne è convinto Fabio Colasanti, economista che, nel 2010, era direttore generale dell’Information society alla Commissione europea. La ragione? “Quindici anni di dibattito, fra la fine degli anni 90 e il primo decennio del Duemila, portarono alla conclusione che il progetto pubblico della rete unica in fibra non genera alcun vantaggio – spiega l’esperto- . Anzi, nella discussione di quel periodo, emerse persino la preoccupazione, forse per alcuni versi eccessiva, che la rete unica di Stato avrebbe potuto limitare gli investimenti necessari sull’infrastruttura frenando le esigenze delle compagnie telefoniche per offrire servizi sempre più avanzati”. Ecco perché alla fine nessun Paese ha realizzato una rete pubblica unica. Salvo il Qatar e Singapore.

Ma allora perché in Italia il tema dell’infrastruttura unica continua ad essere d’attualità? “Ho l’impressione che il piano della società della fibra sia fatto soprattutto per salvare Telecom Italia. Che senza le nozze fra la sua FiberCop e Open Fiber rischia a causa del pesante fardello di dipendenti e debito” riprende l’economista che precisa come la situazione di Telecom Italia non sia un unicum in Europa. “Tutte le società ex monopoliste delle telecomunicazioni hanno grossissime difficoltà perché si portano dietro una quantità di personale che non è assolutamente più giustificato dalle esigenze attuali – evidenzia l’esperto – E’ questo il motivo per cui il governo francese e quello tedesco hanno mantenuto una quota azionaria nel capitale di France Télécom e di Deutsche Telekom. Credo Telecom Italia oggi abbia il doppio dei dipendenti di cui ha bisogno.

Senza contare che man mano che si va verso la fibra, si va verso un tipo di rete che ha molto meno bisogno di manutenzione della vecchia rete in rame. Purtroppo non è facile tagliare i dipendenti. Pensi che sia in Francia che in Germania ci sono ancora tantissimi dipendenti degli ex monopolisti che ancora hanno lo statuto di dipendenti pubblici”. Come se non bastasse poi il gruppo guidato da Luigi Gubitosi, che, come ricorda l’economista, sconta anche pesanti debiti: “per due volte la società è passata di mano facendo pagare a Telecom Italia il costo dell’acquisizione da parte della nuova società. Quindi Telecom si porta dietro una massa di debiti enorme e se i tassi d’interesse dovessero normalizzarsi un po’, la cosa sarebbe quasi impossibile da gestire” precisa.

Secondo Colasanti, la realizzazione di una nuova società della rete in fibra che fonda l’infrastruttura di Telecom Italia e quella della rivale Open Fiber, lasciando il controllo della rete all’ex monopolista, renderebbe più facile al vita alla società guidata da Gubitosi. Tuttavia “è un progetto che di per sé non ha grande senso – riprende – La cosa è un po’ assurda perché Open Fiber è stato il concorrente che ha dato fastidio a Telecom Italia. Dire ora che bisogna mettere assieme due concorrenti che si sono fatti la guerra, anche in tribunale e che quindi erano veramente in concorrenza l’uno con l’altro, è un’assurdità. La Commissione non potrebbe assolutamente accettare una soluzione simile, a meno che nella società della rete non ci sia alcun azionariato delle compagnie telefoniche. O solo una minima presenza. L’idea che questa nuova società possa essere controllata da Telecom Italia non sta né in cielo né in terra e la signora Vestager (Commissario Ue alla Concorrenza, ndr) ha già fatto dichiarazioni in questo senso”.

Tuttavia, qualora il progetto dovesse andare in porto, la realizzazione della rete unica potrebbe avere degli effetti collaterali importanti. “Potrebbe accadere che la Commissione intraveda nell’operazione degli aiuti di Stato – conclude – E gli aiuti sono possibili solo quando accompagnano una ristrutturazione. Di conseguenza l’aiuto all’azienda sarebbe accompagnato dalla richiesta che Telecom Italia riduca fortemente l’occupazione, diventi più efficace e che quindi abbia delle prospettive di sopravvivenza”. Ma, in un certo senso, pur essendo le condizioni finanziarie completamente diverse, è quello che è accaduto all’Alitalia? “Sì, praticamente sì”.

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Centosette miliardi di euro. È la scandalosa cifra accertata dell’evasione fiscale in Italia. Con milioni di contribuenti disonesti che continuano a farla franca e a pesare sulle spalle dei cittadini che le tasse le pagano. Ma quanti sono esattamente gli evasori? Perché restano impuniti, con quali complicità politiche? E per quali ragioni l’amministrazione finanziaria non è in grado di contrastare i comportamenti illeciti? Nel libro denuncia “Parassiti” scritto dal senatore Primo Di Nicola e dai giornalisti Antonio Pitoni e Ilaria Proietti (edito da PaperFirst) tutto quello che c’è da sapere su uno dei più grandi scandali della Repubblica. Che mina la coesione democratica e che continua a sottrarre alle casse pubbliche risorse vitali per finanziare stato sociale e debito pubblico. Con una carrellata su tutti i regali fatti agli evasori con condoni, scudi fiscali e rottamazioni varie

PARASSITI
Ladri e complici: così gli italiani evadono (da sempre) il fisco

di Primo Di Nicola, Antonio Pitoni e Ilaria Proietti
edito da PaperFirst, in libreria (e in formato ebook) da giovedì 1 aprile

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“Ho visto che molti non indossavano la mascherina e che non rispettavano le regole sul distanziamento, così il nostro modello è a rischio”. Da metà marzo a Tubinga è in corso un progetto pilota: sono stati allestiti dei centri dove vengono eseguiti tamponi rapidi, chi risulta negativo riceve un ticket con il quale può liberamente girare per la città, fare shopping nei negozi, bere una birra al ristorante, andare al cinema o a teatro. In breve tempo la città universitaria tedesca, 90mila abitanti a 30 minuti di auto da Stoccarda, è diventata il simbolo di chi è contrario alle chiusure per combattere il coronavirus ed è stata subito indicata come la dimostrazione che un’alternativa alle restrizioni esiste: le regole previste però corrispondono a quelle di una zona gialla in Italia, nelle intenzioni non è un liberi tutti. Dopo due settimane, inoltre, i contagi stanno presentando il conto: il 18 marzo scorso l’incidenza settimanale in città era di 19,7 casi ogni 100mila abitanti, ora è schizzata a 78,7 casi, in pratica è quadruplicata. Se si allarga lo sguardo al distretto di Tubinga, l’incidenza è risalita a 104 casi ogni 100mila abitanti, sopra la soglia di allerta fissata dal governo tedesco ma ancora sotto la media nazionale. Certo, il maggior numero di test effettuati porta a trovare più positivi, ma ora è la stessa ideatrice del modello Tubinga, la dottoressa Lisa Federle, ad ammettere che se i contagi continueranno a salire il suo modello fallirà. Sempre che non intervenga prima il Land del Baden-Württemberg, che dopo i nuovi dati sull’incidenza non scarta più l’idea di fermare tutto.


“Il primo obiettivo del progetto è rilevare le persone infette e metterle in quarantena”, ha spiegato Federle a Rtl, la principale emittente privata tedesca. “Il fatto che le persone ottengano più libertà attraverso i test è anche molto importante per evitare la depressione e ridare alle persone il coraggio di affrontare la vita – ha sostenuto la responsabile per la pandemia della città – ma ovviamente non al prezzo che altri morirebbero in massa, questo non è possibile“, ha chiarito. Perché il suo modello funzioni, quindi, è cruciale che le persone continuino a rispettare le regole dalla pandemia: “Il problema è che molti ora hanno la sensazione che a Tubinga tutto sia fantastico, non ci sia più il virus. Non ha senso! Essere testato non significa che posso fare quello che voglio”, ha sottolineato Federle, chiedendo più controlli e più restrizioni, ovvero il contrario di quello a cui il suo modello aspirerebbe.

Ma come funziona il progetto di Tubinga? In città sono stati allestiti dei centri ad hoc dove si possono eseguire i test rapidi nasali. Già dalle 9 di mattina, mezz’ora prima dell’apertura, si vedono lunghe code di persone in fila. Se l’esito è negativo, si riceve un biglietto giornaliero che consente di vivere per 24 ore senza restrizioni: si può accedere ai negozi, consumare nei tavoli dei locali all’aperto, andare al cinema. I ticket sono disponibili solo per i residenti, dopo che il Comune ha dovuto chiudere i rubinetti per i troppi turisti in arrivo: per chi non abita a Tubinga ci sono a disposizioni solo 3mila biglietti extra per una giornata in città. Il problema, come ha ammesso la stessa Federle, è che il lasciapassare viene vissuto come un ritorno alla normalità: i reportage dei quotidiani tedeschi, ultimo quello realizzato dal settimanale Die Zeit, raccontano di una città che sembra un altro mondo, “un ritorno al passato” pre-pandemia. La Südwestrundfunk (SWR), l’emittente pubblica locale, ha raccontato di diversi episodi di party senza mascherine e distanziamento anche dopo l’orario di chiusura dei locali, quando le regole e le restrizioni dovrebbero tornare in vigore fino ai test della mattina successiva.

L’altra grande falla del sistema è rappresentata dai biglietti: sono già emersi diversi casi di falsificazione, così come di ticket utilizzati più volte da persone diverse. Un barbiere ha distribuito oltre 350 lasciapassare fasulli. Una criticità rilevata dallo stesso sindaco della città, il Verde Boris Palmer, che ha presentato la nuova contromisura: al posto dei biglietti cartacei, da martedì viene distribuito un braccialetto da festival con un QRcode. Non può essere tolto senza rompersi e quindi non può essere trasferito a un’altra persona. I braccialetti però non sono ancora disponibili per tutti, come denunciano in molti su Twitter. Nonostante l’aumento dell’incidenza del virus, il sindaco Palmer non ne vuole sapere di abbandonare il progetto e anzi lo ha prorogato fino al prossimo 18 aprile: “A medio termine possiamo ridurre l’incidenza con i casi scoperti finora, perché siamo stati in grado di spezzare le catene di infezione”, ha spiegato alla Swr. Diversa la valutazione del ministero della Salute di Stoccarda: “Anche se Tubinga presenta ancora valori inferiori alla media in un confronto complessivo, lo sviluppo attuale deve essere considerato in modo critico“. Il Land del Baden-Württemberg sta valutando se intervenire e sospendere tutto, dopo i nuovi dati sull’incidenza.

Per ora il progetto portato avanti da Palmer è stato già bollato come un modello di successo da chi è contrario alle restrizioni, mentre è stato duramente criticato dagli esperti e accolto con scetticismo anche dalla cancelliera Angela Merkel. Il responsabile di Sanità per la Spd, Karl Lauterbach, su Twitter ha commentato che “testare al posto di chiudere” è come tentare di “dimagrire mangiando“. Fuori dal dibattito politico, gli scienziati evidenziano come da Tubinga non si possa trarre nessuna conclusione per definire un modello generale: la ricercatrice dell’università di Göttingen, Viola Priesemann, ha spiegato alla Swr quali sono i limiti. Innanzitutto, è una città troppo piccola. Inoltre, “nessuna conoscenza scientifica può essere ricavata da una singola regione modello”: servirebbe almeno un termine di paragone. È la stessa obiezioni mossa dal virologo berlinese Christian Drosten, che invoca alla prudenza prima di dire che Tubinga “ha avuto successo”, ma allo stesso tempo chiede di dare supporto scientifico a un progetto dal quale potrebbero essere comunque tratte preziose indicazioni.

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Ogni anno dai bilanci dello Stato mancano 107 miliardi di euro: è la somma delle tasse che milioni di contribuenti disonesti continuano a non pagare, pesando di fatto sulle spalle di chi invece paga fino all’ultimo centesimo. Ma quanti sono gli evasori fiscali? Perché restano impuniti? Con quali complicità politiche? Tutto quello che c’è da sapere su uno dei più grandi scandali della Repubblica da oggi lo si può leggere in “Parassiti – Ladri e complici: così gli italiani evadono (da sempre) il fisco“: si tratta del libro-denuncia scritto dal senatore M5s Primo Di Nicola e dai giornalisti Antonio Pitoni e Ilaria Proietti. Edito da PaperFirst (208 pagine, 15 euro, da oggi in tutte le librerie e disponibile anche in formato ebook), contiene anche una grottesca carrellata su tutti i regali fatti agli evasori con condoni, scudi fiscali e rottamazioni varie. Qui sotto la presentazione degli autori del libro.

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Promettono, promettono ma alla fine sono tutti uguali. Dalle vecchie cariatidi della prima Repubblica agli ultimi salvatori della Patria. Tutti compiacenti con gli evasori fiscali. Da Luigi Preti a Mario Draghi. “Basterà spingere un bottone e avremo i nomi degli evasori”, aveva giurato agli inizi degli anni Settanta, l’allora ministro socialdemocratico delle Finanze, Preti, lanciando l’avveniristico Progetto Athena, il rivoluzionario embrione dell’anagrafe tributaria, rivelatasi poi un fiasco completo. La stessa guerra totale promessa, solennemente, mezzo secolo dopo, dall’attuale presidente del Consiglio Draghi nell’intervento sulla fiducia il 17 febbraio 2021 nell’Aula del Senato, lanciando “un rinnovato e rafforzato impegno nell’azione di contrasto all’evasione fiscale“. L’ennesima promessa non mantenuta, smentita appena un mese dopo, dall’ennesimo condono a favore di furbetti e furboni del Fisco, inserito nelle pieghe del decreto Sostegni. E questa volta senza neanche nasconderlo agli attoniti contribuenti onesti: “Sì, è un condono…”, ha ammesso candidamente l’ex presidente della Bce.

Ci sarebbe da ridere se non ci fosse da piangere di fronte ai numeri della grande vergogna: 107,2 miliardi di euro di evasione fiscale – 95,9 di mancate entrate tributarie e 11,3 miliardi di mancate entrate contributive – stando alla stima ufficiale dell’ultima rilevazione dell’apposita commissione per la redazione della relazione sull’economia non osservata e sull’evasione fiscale e contributiva presieduta dall’attuale ministro delle Infrastrutture, Enrico Giovannini. La punta dell’iceberg di una gigantesca evasione che, al 30 giugno 2020, ha portato il carico residuo delle cartelle esattoriali ancora da riscuotere alla cifra monstre di 986,7 miliardi. Soldi che lo Stato non si è rivelato in grado di incassare. E che adesso Draghi, con la sua variegata maggioranza, ha deciso in parte di condonare lanciando un messaggio devastante alla platea dei contribuenti. In un Paese in cui, su 60 milioni 359 mila 546 cittadini residenti a fine 2018, solo 41 milioni 372 mila 851 hanno presentato la dichiarazione dei redditi e appena 31 milioni 155 mila 444 hanno versato almeno un euro di Irpef.

Morale: quasi la metà degli italiani, 29 milioni 204 mila pari al 48,38 per cento, risulta senza reddito e campa sulle spalle di qualcuno altro. Alla faccia delle roboanti dichiarazioni contro l’evasione fiscale lanciate negli ultimi decenni da politici e governi di ogni estrazione e colore. E che avrebbero dovuto trasformare l’amministrazione finanziaria in una macchina da guerra. Peccato che gli accertamenti fiscali si siano rivelati un’autentica burla; che la riscossione coattiva sia stata solo una parodia; che la giustizia tributaria sia un autentico colabrodo e, in molti casi, fonte di scandali e corruzione. Per non parlare degli applausi tributati agli evasori, specie se Vip, quando vengono beccati, come in questo libro documentiamo. Tutto in perfetta linea con la sinfonia e il crescendo di proclami di capi di governo, ministri e presunti leader che dimostrano come in Italia nessuno abbia mai avuto il coraggio di mettersi contro i milioni di cittadini che evadono le tasse e i cui voti, evidentemente, fanno gola a tutti.

Ecco qualche esempio delle tante balle rintracciabili negli annali parlamentari e sui giornali solo degli ultimi quindici anni.

Stabilità vo’ cercando: “Dobbiamo proporre una politica fiscale stabile, accompagnata da un rafforzamento della lotta all’evasione…”. Francesco Rutelli, 16 maggio 2005, vice presidente del Consiglio dal 2006 al 2008.

Più o meno: “Venendo meno le una tantum e la stagione dei condoni, l’attenzione si sposterà alla lotta all’evasione…”. Domenico Siniscalco, ministro dell’Economia, 20 maggio 2005

La Lega vede nero: “Abbiamo un ampio margine se ci impegniamo nella lotta all’evasione fiscale…”. Roberto Maroni, ministro del Lavoro, 26 maggio 2005

Siamo seri!: “La lotta all’evasione va fatta con accertamenti seri, ma soprattutto attraverso lo strumento del contrasto di interessi”. Mario Baldassarri, Alleanza Nazionale, viceministro dell’Economia, 27 maggio 2005

Regole prima di tutto: “Rispettare le regole e fare una vera lotta all’evasione fiscale…”. Vincenzo Visco, 2 giugno 2005, pluriministro delle Finanze

Feroci, miei Prodi: “Lotta feroce all’evasione e far emergere il sommerso”. Romano Prodi, 5 luglio 2005, due volte presidente del Consiglio

Quel fenomeno del Cav: “L’evasione fiscale sarà una priorità per il governo”. Silvio Berlusconi, presidente del Consiglio, 15 luglio 2005

Compagni, che classe!: “La lotta all’evasione fiscale è una lotta di classe…”. Fausto Bertinotti, segretario di Rifondazione comunista, 29 settembre 2005

Chez Giulio: “L’evasione è mal contrastata. Si combatte abbassando le aliquote”. Giulio Tremonti, pluriministro dell’Economia, 8 novembre 2006

Re Giorgio va alla guerra: “Basta debolezze nella lotta all’evasione”. Giorgio Napolitano, presidente della Repubblica, 22 agosto 2011

Mari e Monti: “Io penso che l’Italia si trova in difficoltà soprattutto a causa dell’evasione fiscale: siamo in uno stato di guerra…”. Mario Monti, presidente del Consiglio, 18 agosto 2012

All’ultimo respiro: “La lotta senza quartiere all’evasione proseguirà e lo faremo con interventi di più lungo respiro”. Enrico Letta, presidente del Consiglio, 11 luglio 2013

L’evasione secondo Matteo: “Meno si parla, più si agisce e più siamo seri”. Matteo Renzi, presidente del Consiglio, 7 giugno 2014

Meloni, presente!: “Se volete veramente combattere l’evasione, beh, allora andate a farlo dove sta davvero”. Giorgia Meloni, Fratelli d’Italia 20 ottobre 2019

La resa di Conte: “La politica non ha il coraggio di affrontare di petto la questione dell’evasione”. Giuseppe Conte, presidente del Consiglio, 16 ottobre 2019.

di Primo Di Nicola, Antonio Pitoni e Ilaria Proietti

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L'Iss continua a monitorare le mutazioni, soprattutto quelle considerate più preoccupanti: inglese, brasiliana e sudafricana, che sono ormai diffuse in diverse zone del nostro Paese. Secondo i dati più recenti, quella inglese è prevalente all’86,7%, la brasiliana al 4%. Da Nord a Sud, ecco qual è la situazione



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Fino al 30 aprile tutta Italia sarà in zona arancione o rossa. Quindi varranno le regole usate finora per queste fasce di rischio. Il decreto prevede però una verifica a metà aprile: se la situazione epidemiologica lo consentirà, si valuterà la possibilità che le zone dove la diffusione del virus è più contenuta possano tornare in giallo e, dunque, procedere ad alcune riaperture



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L’Italia sarà blindata: nei giorni dal 3 al 5 aprile tutto il Paese è in zona rossa. Spostamenti off limits nelle località turistiche, tra divieti e ordinanze sullo stop ai movimenti verso le seconde case a seconda delle regioni. Il Viminale annuncia controlli rigorosi: previsti in campo 70mila uomini delle forze dell’ordine



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Potranno essere fatte delle deroghe in caso di dati particolarmente buoni sui contagi e i vaccini. L'Italia supera le 10 milioni di dosi somministrate. Da oggi attivo "il sistema informativo nazionale" con Poste Italiane. La Francia sfiora i 60 mila casi in un giorno e si blinda: scuole chiuse e zona rossa per un mese



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Le medicine arrivano in farmacia dal cielo. Si tratta del primo trasporto di merce con drone autorizzato da Enac (l’autorità che regola l’aviazione civile). L’idea del progetto è venuta a Simone Dall’Asta e a Paolo Bellamoli, entrambi con una importante esperienza nel settore come piloti e formatori. Il trasporto tramite il velivolo azionato a distanza verrà effettuato tra due farmacie distanti poco più di sei chilometri, una a Piadena l’altra a Isola Dovarese, entrambi piccoli centri in provincia di Cremona. Dieci minuti di volo per un chilo di farmaci. Enac ha dato il via libera alla sperimentazione. Dopo Pasqua verranno effettuati i test sul campo.

“Se tutto andrà come pensiamo – racconta Dall’Asta a ilfattoquotidiano.it – presenteremo i risultati ad Enac e successivamente faremo richiesta per replicare le operazioni di volo: dalla sperimentazione eseguita da un team di piloti e operatori specializzati scaturirà il servizio tra le due sedi della Farmacia Priori, committente del progetto, come attività di volo continuativa”. Del servizio se ne occupano DL Droni e AP74, le società di cui Dall’Asta e Bellamoli sono rispettivamente amministratori.

“Utilizziamo droni – dice Bellamoli – con autonomie di volo tra i 30 e 60 minuti da noi opportunamente modificati e configurati per ottenere livelli adeguati di sicurezza, come richiesto dalla normativa nazionale ed europea. Ad oggi stiamo operando su un percorso di 6,3 chilometri, ma si potrebbe tranquillamente lavorare su distanze superiori”. Ovviamente il servizio è replicabile, con le dovute analisi, in tutte quelle situazioni dove il trasporto con drone di piccoli oggetti può diventare strategico (zone montane, laghi, isole…). “Il sistema porta quindi con sé – spiega Dall’Asta – un’importante utilità sociale per le comunità”.

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Questo virus purtroppo non andrà via e diventerà un virus endemico, nel senso che ormai la sua circolazione è attiva in tutto il mondo. Ma il vaccino azzera la malattia e riduce la trasmissione. Addirittura il vaccino Pfizer con una dose riduce dell’80% la trasmissione e con due dosi il 90%. Più vacciniamo le persone, più azzeriamo i decessi e più riduciamo la circolazione progressivamente”. Così, a “Dimartedì” (La7), la virologa Ilaria Capua risponde a una domanda del direttore de Il Giornale, Alessandro Sallusti, che le chiede se, vaccinandoci tutti, sparirà il coronavirus.

E spiega: “La circolazione virale non può essere azzerata ed è per questo che per tanti virus, come ad esempio per il morbillo e la varicella, si continua a vaccinare: quei virus circolano ancora, altrimenti non si avrebbe bisogno del vaccino. Quindi, la transizione da pandemia a epidemia avverrà e noi impareremo a convivere con questo virus anche senza vederlo nella stragrande maggioranza dei casi. Se ci saranno delle sacche di popolazione non vaccinata, avremo dei cluster di mortalità”.

La scienziata, poi, ribadisce che il criterio con cui scegliere le persone da vaccinare è l’età. E risponde a chi ha dubbi sul vaccino AstraZeneca: “I vaccini funzionano tutti nel proteggere dalla morte e dalla malattia grave nel 100% dei casi. Questi vaccini stanno funzionando benissimo. Tutti i vaccini sono uguali dal punto di vista della protezione dalla malattia grave, quindi non ha importanza quale vaccino si fa. Bisogna fare il vaccino che arriva prima nel braccio. E non solo: i vaccini che abbiamo proteggono contro tutte le varianti che adesso circolano sul territorio”.

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Si nascondeva in un piccolo centro alle porte di Roma un sessantatreenne considerato il “re delle delle truffe” e conosciuto dagli inquirenti come uno dei primi criminali informatici. L’uomo, componente di un’organizzazione transnazionale dedita alla falsificazione di strumenti di pagamento ed alle frodi informatiche, è stato al centro, nella sua carriera criminale, di varie indagini della Polizia postale e delle comunicazioni, della Poliziae dei Carabinieri e recentemente si era sottratto all’esecuzione della pena definitiva di oltre 7 anni di reclusione, per i reati di associazione a delinquere finalizzata alla falsificazione di strumenti di pagamento, truffa, estorsione ed altro. Gli agenti della Postale di Cosenza e della Polizia giudiziaria della Procura cosentina, coordinati dal procuratore Mario Spagnuolo e dal sostituto Maria Luigia D’Andrea, con il supporto dei colleghi della Postale di Roma, attraverso indagini informatiche e tradizionali, avviate dopo recenti truffe commesse dall’arrestato, hanno individuato l’area geografica della provincia di Roma dove orbitava il latitante e, grazie ad accertamenti e appostamenti, lo hanno sorpreso nelle prime ore del mattino con strumenti informatici e documenti di interesse investigativi tra cui diversi telefoni cellulari, carte di pagamento e dispositivi per la connessione internet che sono stati sequestrati.
Dalle indagini sono emerse disponibilità finanziarie con l’utilizzo di carte in suo possesso. In una di queste indagini è stato coinvolto anche un altro uomo, arrestato dopo anni di latitanza, nel luglio 2019 a Fiumicino in un analoga operazione. Con questa operazione si ritiene sia stato anche posto un ulteriore freno ad attività criminali attuali e redditizie, che hanno visto negli anni raggirate e danneggiate numerose vittime in varie parti d’Ita

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Lega e Forza Italia premono per la ripartenza delle attività commerciali in caso di abbassamento della curva relativa alla diffusione del coronavirus. E anche alcuni governatori locali e associazioni di categoria sono in pressing. Ma all'interno del governo  i ministri di Leu, Pd e M5s sarebbero schierati per una linea di massima prudenza



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L’altissima prevalenza della variante inglese nei contagi, come emerso da un report dell’Iss, “è una brutta notizia per le ospedalizzazioni e purtroppo sulla mortalità, ma se riusciamo come sembra a ingranare con le vaccinazioni non è così brutta notizia, visto che questa variante risponde ai vaccini”. Lo dice a Sky TG24 Guido Rasi, microbiologo ed ex direttore esecutivo dell'Ema, l'agenzia europea per i medicinali (COVID, AGGIORNAMENTI IN DIRETTA - LO SPECIALE).



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Rifiuti Zero, avallato dal pacchetto per l’Economia Circolare, afferma che nel cassonetto c’è una miniera urbana da non sprecare, sia per l’economia manifatturiera, sia per l’ecologia che salva il Pianeta. Queste verità abbiamo avuto modo di constatarle di nuovo attraverso due preziosi incontri tenuti in questa settimana. Uno interno con la Rete Rifiuti Zero a cui ha partecipato l’industriale Fabrizio Tesi, noto per rappresentare il distretto tessile di Prato, e l’altro avuto giusto il 26 marzo presso l’ufficio del Centro Ricerca Rifiuti Zero con il direttore del Comieco Carlo Montalbetti (accompagnato da due industriali del distretto cartario) e relativo allo “stato dell’arte” del passaggio da tutta plastica ad imballi cellulosici in gran parte misti e quindi problematici da riciclare.

Dal gennaio 2022 sarà obbligatoria la raccolta differenziata dei tessuti che non potranno, così, andare a rifiuto indifferenziato. E questa è una buona notizia. Tuttavia da questo aspetto positivo ne dipartono altri non molto positivi, anche perché nel settore della moda aumentano i capi a crescente presenza di acrilici che, se accoppiati al dilagare del “fast fashion” (leggi usa e getta), tracciano un crescente impatto ambientale e dello spreco nella moda, che in Italia rappresenta un’importantissima filiera industriale di esportazione.

Se le “tendenze si vedono dal mattino” c’è poco da rallegrarsi visto che i principali player globali si preparano sì alla raccolta, ma poco ad un vero riciclo di qualità (upcycling) di cui hanno invece bisogno distretti vitali come quello di Prato (ma anche di Biella) interessati ad una intercettazione di abiti usati e di tessuti, soprattutto di lana, di alta qualità merceologica in quanto storicamente votati a produrre tessuti rigenerati. Invece, già dal tenore occupazionale che si prevede – secondo quelle proposte – possa impiegare non più di 20 addetti per mille tonnellate recuperate, si capisce che si voglia intendere un riciclo approssimativo ed un ricorso invece all’incenerimento.

Infatti, la filiera che già opera a Prato prevede almeno cinque volte in più dei posti di lavoro che vanno dal recupero degli abiti usati al riciclo per produrre nuovi tessuti, fino addirittura alla cardatura per riempire divani e poltrone. E qui le note dolenti della mitica mancanza del decreto attuativo di preparazione per il riutilizzo, che permetterebbe all’industria tessile di poter liberarsi delle pastoie burocratiche standardizzando i modi industriali anche su base normativa, per classificare come materiali i tessuti recuperati sottraendoli alla nozione di rifiuto.

Zero Waste Italy non starà alla finestra in questi mesi e sta facendo squadra con tutti i soggetti, compresi quelli industriali, per semplificazioni che promuovano economia e salvaguardino l’ecologia.

Buone notizie, invece, dal pianeta carta con Comieco che, in pronta risposta al sottoscritto, ha svolto una significativa visita a Capannori nel cuore dell’industria cartaria più importante d’Europa. Si è ribadito che verranno rivisti in modo disincentivante i criteri di classificazione del sistema Aticelca® 501, che al momento sta inondando di imballaggi cartacei misti a plastica il mercato. Ebbene, da gennaio chi intende usare carta mista a plastica (soprattutto ma non solo nell’alimentare) dovrà pagare di più anche in linea con tutto il Conai (Consorzio Nazionale degli Imballaggi) che in generale favorirà imballaggi sempre più riciclabili dal punto di vista merceologico, scoraggiando invece le scorciatoie ibride di imballaggi polimateriali generatori di alte quantità di scarti (pulper waste) che creano altissime difficoltà di smaltimento.

Per preparare questa “entrata nel futuro” di un settore industriale sviluppatissimo nell’utilizzare quasi esclusivamente maceri, il direttore Montalbetti ha proposto l’istituzione di un tavolo nazionale basato sulla Piana di Lucca per monitorare questi processi legati al progressivo passaggio dalla plastica ai materiali cartacei possibilmente da riciclo.

Zero Waste Italy e il Centro Ricerca Rifiuti Zero di Capannori ovviamente appoggiano fin da ora questa proposta mettendosi a disposizione di un’economia davvero circolare e condivisa.

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Torno su questo blog in occasione di una giornata in cui si deciderà una vicenda processuale su cui ho il dovere di mantenere alta l’attenzione e che, due mesi fa, avevo definito “indecente per uno Stato di diritto”. E’ il caso del processo a carico di Rosario Pio Cattafi, colui che la Corte di Cassazione, il 1 marzo del 2017, ha giudicato essere partecipe all’associazione mafiosa della cosca di Barcellona Pozzo di Gotto fino al 1993, rinviando alla Corte d’Appello di Reggio Calabria il giudizio per gli anni compresi tra il 1993 e il 2000.

Oggi il reato di associazione mafiosa a carico di Rosario Cattafi, già pluripregiudicato (per i reati di lesioni, porto e detenzione abusivi di arma da fuoco e per calunnia) e plurindagato per altri innumerevoli reati (come sequestro di persona, omicidio, traffico di stupefacenti, traffico internazionale di armamenti, strage, associazione con finalità di terrorismo o di eversione – indagini da cui Cattafi è sempre uscito indenne, o perché archiviate, o perché prosciolto o assolto), potrebbe essere prescritto.

Sembrerà impossibile da credere ma da domani i cittadini italiani rischiano di vedere una persona con il “pedigree” di Rosario Cattafi uscire indenne da un processo per mafia per intervenuta prescrizione.

Come è possibile, vi starete chiedendo? La risposta, per quanto inaccettabile, è semplice: la Corte di Appello di Reggio Calabria ha impiegato più di due anni per fissare la prima udienza del processo a carico di Cattafi, nonostante il reato (di associazione mafiosa!) fosse a rischio di prescrizione. Ma, come se non bastasse, i ritardi sono proseguiti: la prima udienza, che si sarebbe dovuta tenere il 17 aprile 2019, fu rinviata di 6 mesi per un difetto di notifica ad un difensore di Cattafi, poi di altri 3 mesi e poi nuovamente di 3 mesi, in entrambi i casi per ulteriori difetti di notifica, questa volta alle parti civili. Dopo la sospensione dei processi a causa della pandemia di Covid-19, l’udienza, fissata per il 4 novembre 2020, ancora una volta non si è tenuta a causa dell’assenza di un giudice. Quindi l’ulteriore rinvio al 20 gennaio 2021, quando la Corte d’Appello ha rinviato la sentenza ad oggi, 31 marzo 2021. Sono passati esattamente quattro anni e 30 giorni da quando la Cassazione ha rinviato il giudizio per Rosario Cattafi.

Il Procuratore generale di Reggio Calabria, Giuseppe Adornato (ex assessore all’Urbanistica proprio del Comune di Reggio Calabria, dal 2002 al 2007, quando la giunta reggina era guidata dal sindaco Giuseppe Scopelliti, poi condannato definitivamente nel 2018 a quattro anni e sette mesi di carcere per falso in atto pubblico), ha chiesto alla Corte di appello di far decadere il reato di associazione mafiosa per intervenuta prescrizione.

Se la prescrizione fosse confermata dalla Corte, cadrebbe anche il cosiddetto “giudicato interno” della Cassazione, che lo aveva riconosciuto intraneo all’associazione mafiosa fino al 1993.

C’è altro da aggiungere? Non credo. Forse solo l’auspicio che la Corte di Appello di Reggio Calabria rigetti la richiesta della Procura generale e decida di riaprire il dibattimento per accertare la continuata intraneità all’associazione mafiosa di Rosario Pio Cattafi fino al 2000, anche alla luce delle nuove prove (emerse dopo la sentenza di secondo grado) portate all’attenzione dei giudici.

Salvatore Borsellino e il Movimento delle Agende Rosse

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Major ha colpito ancora. A pochi giorni dal suo ritorno alla Casa Bianca, il cane del presidente Usa Joe Biden e della moglie Jill ha morsicato di nuovo un dipendente della Withe House. Il motivo? Non si è ancora abituato, ovviamente, alla nuova residenza e, nonostante il periodo di addestramento a cui è stato sottoposto nel Delaware, il suo istinto di protezione è più forte.

Lo scorso febbraio, infatti, Major era stato riportato nella tenuta dei Biden nel Delaware per un periodo di addestramento dopo un incidente simile nel parco della sua nuova residenza. Michael LaRosa, portavoce della First Lady, ha spiegato che il cane “si sta ancora adattando al nuovo ambiente e ha dato un morso durante una passeggiata“. La persona, un dipendente del National Park Service, è stata visitata dal medico della Casa Bianca “per precauzione” e sta bene.

Quando ci fu il primo incidente Biden aveva spiegato che Major non era abituato a vedere gente che conosceva sbucare “da ogni angolo” e “reagiva per proteggere”. L’altro cane della famiglia, il tredicenne Champ, ha invece già trascorso da piccolo del tempo alla Casa Bianca quando l’attuale presidente era il vice di Barack Obama quindi ha meno problemi con l’ambiente familiare.

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Sono stati fermati in occasione di un incontro clandestino, sorpresi in flagranza immediatamente dopo la cessione di documentazione classificata. A cederla è stato un capitano di fregata italiano della Marina Militare, in cambio di una somma di denaro che gli è stata consegnata da un ufficiale delle Forze Armate russe in servizio all’Ambasciata della capitale. Sono entrambi accusati di spionaggio e rivelazione di segreto.

I due sono stati fermati nella serata di ieri i carabinieri del Ros, sotto la direzione della Procura della Repubblica di Roma. L’operazione, effettuata nell’ambito di una prolungata attività informativa condotta dall’Agenzia Informazioni Sicurezza Interna, con il supporto dello Stato Maggiore della Difesa, ha riguardato un Capitano di Fregata della Marina Militare e un ufficiale accreditato presso l’Ambasciata della Federazione russa, entrambi accusati di gravi reati attinenti allo spionaggio e alla sicurezza dello Stato. Il capitano della Marina è stato arrestato, mentre la posizione dello straniero è tuttora al vaglio in relazione al suo status diplomatico.

(immagine d’archivio)

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di Dino Caudullo*

Anche la pubblica amministrazione tra i punti cardine del documento (il Piano nazionale di ripresa e resilienza) che traccia gli obiettivi, le riforme e gli investimenti che l’Italia vuole realizzare con i fondi europei di Next Generation Eu; e il pubblico impiego sarà uno degli snodi fondamentali per il rilancio del nostro Paese dopo l’onda d’urto del Covid.

I punti nodali del piano, che dovrebbe passare da un decreto legge di accompagnamento al Pnrr, puntano allo svecchiamento della pubblica amministrazione, passando attraverso la velocizzazione delle assunzioni delle migliori professionalità, la semplificazione, la digitalizzazione ed il collegamento delle banche dati tra amministrazioni.

Tre linee di azione

Sono tre quindi le linee di azione tra loro strettamente connesse: capitale umano, semplificazione e digitalizzazione.

Sul fronte del capitale umano, la velocizzazione delle assunzioni presuppone uno stop al blocco del turnover e il via alle assunzioni, partendo dal recupero dei concorsi rimasti sospesi causa Covid, da riprendere possibilmente in presenza, in spazi in grado di ospitare un numero ampio di candidati ma garantendo comunque i necessari livelli di sicurezza.

Il restyling della Pa partirà quindi dal reclutamento, con concorsi più snelli e veloci, ed un investimento importante nel lavoro pubblico (sono 3,2 milioni i pubblici dipendenti), passando per la semplificazione, obiettivo da perseguire in sinergia tra il ministro per la Pubblica Amministrazione Brunetta e la ministra della Giustizia Cartabia e puntando sulla digitalizzazione della macchina burocratica, con semplificazione delle procedure amministrative e digitalizzazione dei processi, che presuppone, oltre ad investimenti su hardware e software, anche adeguate competenze in grado di sfruttare al meglio la tecnologia.

Occorre un ricambio generazionale e culturale nella Pa

L’obiettivo certamente ambizioso, che può dare un contributo determinante al rilancio del Paese, è quindi quello di promuovere un ricambio generazionale e culturale nella Pa, investire sulla qualità e sulla motivazione dei dipendenti pubblici, introdurre un effettivo sistema di valutazione delle performance con un serio intervento sulle procedure burocratiche.

In estrema sintesi, con quattro aggettivi, si punta ad una Pa capace, competente, semplice e connessa, e smart (con la creazione di poli territoriali per il coworking, lo smartworking, il reclutamento e la formazione).

Il Patto per l’innovazione del lavoro pubblico e la coesione sociale

Queste linee di indirizzo hanno costituito anche le basi del Patto per l’innovazione del lavoro pubblico e la coesione sociale, siglato tra il presidente Draghi, il ministro Brunetta e le organizzazioni sindacali lo scorso 10 marzo. Il Patto prevede:

– Una nuova stagione di rinnovi contrattuali, nel cui ambito sarà adottata la previsione di far confluire l’elemento perequativo della retribuzione nella retribuzione fondamentale, nonché la revisione dei Sistemi di classificazione del personale, adeguando la disciplina contrattuale ai fabbisogni di nuove professionalità e competenze.

– L’entrata a regime del “lavoro agile”, con l’introduzione di una disciplina pattizia che garantisca condizioni di lavoro trasparenti, favorisca la produttività e l’orientamento ai risultati, concili le esigenze dei lavoratori con le esigenze organizzative delle pubbliche amministrazioni, consentendo, ad un tempo, il miglioramento dei servizi pubblici e l’equilibrio fra vita professionale e vita privata.

– L’introduzione di politiche formative concordate di ampio respiro, in grado di rispondere alle mutate esigenze delle amministrazioni pubbliche, garantendo percorsi formativi specifici a tutto il personale, con particolare riferimento al miglioramento delle competenze informatiche e digitali e di specifiche competenze avanzate di carattere professionale.

– Adeguamento nell’ambito dei nuovi contratti collettivi dei sistemi di partecipazione sindacale, volti a favorire processi di dialogo costante fra le parti, valorizzando strumenti innovativi di partecipazione organizzativa.

– Adeguamento degli istituti di welfare contrattuale, con riferimento al sostegno alla genitorialità, alle forme di previdenza complementare e i sistemi di premialità diretti al miglioramento dei servizi, con la previsione di estendere anche ai Comparti del pubblico impiego le agevolazioni fiscali previste per i settori privati a tali fini.

* Avvocato amministrativista e giuslavorista, mi occupo prevalentemente di pubblico impiego e diritto scolastico da circa vent’anni. Sono presidente della Società Italiana di Diritto e Legislazione Scolastica, collaboro con “La Tecnica della Scuola” e presto attività di assistenza e consulenza in favore di associazioni di categoria e sindacati del comparto scuola, università e del settore del pubblico impiego.

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Parlare di allentamenti per il mese di aprile, nel giorno in cui purtroppo si contano altri 500 morti, non mi sembra un’idea intelligentissima. Altra cosa è discutere di zone più piccole, ma Salvini vuole fare politica su una cosa che invece va lasciata alla scienza. Il nostro lavoro è quello di cercare di risolvere i problemi, non di nasconderli”. Così il ministro del Lavoro, Andrea Orlando, nella trasmissione “Otto e mezzo”, su La7, risponde a Lilli Gruber che gli chiede se oggi nel Consiglio del Ministro è prevista la possibilità di allentare le restrizioni anche nel mese di aprile, come ha più volte invocato il leader della Lega Matteo Salvini.


Riguardo al lavoro, Orlando puntualizza: “Dopo giugno, quando finirà il blocco dei licenziamenti, dovremo fare rapidamente una riforma degli ammortizzatori sociali. Per le grandi aziende ci sono già e ripartirà il contatore della Cig che adesso è stato azzerato. Potranno ricominciare a utilizzare da capo le ore di cui dispongono. Per le aziende più piccole bisogna creare degli ammortizzatori adeguati per rispondere alla crisi di oggi. Dobbiamo farlo, i soldi vanno messi lì. Dare gli stessi diritti ai lavoratori delle grandi e delle piccole imprese è è un passaggio storico. Questa è una grande battaglia di sinistra”.

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Isolato per il suo insanabile negazionismo rispetto alla pandemia di coronavirus, criticato da chi prima scommetteva su di lui per la mancanza di capacità mostrata nel gestire crisi economica e sanitaria, e insicuro della rielezione nel 2022. Stretto all’angolo il presidente del Brasile Jair Bolsonaro, attacca più che difendersi. E alla ricerca di conferme e di un sostegno cieco rispetto ai suoi desideri di controllo autoritario del paese, non ha esitato ad aprire la crisi anche con chi finora ha più di tutto garantito la sua permanenza al potere: le forze armate.

Il capo dello Stato ha approfittato del rimpasto di governo nato dalla necessità di sostituire l’ormai compromesso ministro degli Esteri, Ernesto Araujo, per procedere con la sostituzione del ministro della Difesa, generale Fernando Azevedo e Silva, reo di essersi messo di traverso alle sue volontà autoritarie. In risposta alla decisione di silurare il ministro, a loro volta, i capi di stato maggiore delle forze armate infatti, Edson Pujol (esercito), Ilques Barbosa (marina) e Antonio Carlos Bermudes (aeronautica) hanno deciso di comune accordo di mettere a disposizione il proprio incarico nelle mani del nuovo ministro della Difesa, generale Walter Sousa Braga Netto. Una risposta corporativa e coordinata che mostra una frattura apparentemente irreparabile tra governo e forze armate. Uno scenario impensabile fino a pochi mesi fa che minaccia contemporaneamente la stabilità di Bolsonaro e la tenuta democratica del paese.

Secondo la ricostruzione pressoché unanime della stampa nazionale, il ministro Azevedo e Silva è stato costretto alle dimissioni da Bolsonaro per non aver voluto coordinare un’azione delle forze armate sul Parlamento e la Corte suprema, dichiarando lo stato di eccezione e conferendo i pieni poteri al presidente. Secondo quanto ricostruito, Azevedo avrebbe infatti nelle ultime settimane tentato di contenere la volontà di Bolsonaro di condurre un ‘auto-golpe’, evocato e minacciato in varie occasioni e invocato negli ultimi giorni con maggiore veemenza soprattutto come risposta all’opposizione di Corte suprema, parlamento e governatori ai desiderata del presidente in relazione alla gestione della pandemia di coronavirus. Sostenendo la tesi che le forze armate sono istituzioni dello Stato e non del governo, Azevedo si era opposto anche alla sostituzione del capo di stato maggiore dell’Esercito, Edson Pujol, accusato da Bolsonaro di non aver voluto criticare pubblicamente la recente decisione della Corte suprema di annullare le condanne emesse irregolarmente contro l’ex presidente Luiz Inacio Lula da Silva, incubo elettorale del presidente.

Bolsonaro pensava probabilmente che l’aver concesso enormi benefici economici e un ampio potere politico ai militari nel suo governo gli garantisse anche una forma di controllo superiore a quella prevista dalla Costituzione. Una convinzione che appare evidentemente lontana dalla realtà. Inoltre emerge una sempre maggiore volontà dei generali di tentare di dissociarsi dalle azioni criticabili di Bolsonaro rispetto alla pandemia dal momento che potrebbero causare conseguenza serie al paese in caso di apertura di inchieste davanti ai tribunali internazionali. Non aiuta i generali, tuttavia, la grande contraddizione di fondo nella condotta delle forze armate che ne minaccia credibilità ed efficacia. Sebbene la volontà attuale è quella di mostrarsi come esponenti di una istituzione apolitica, i militari agiscono in Brasile come un vero e proprio attore politico da molto tempo. Il ‘partito’ dei generali esprime un terzo dei ministri, settemila funzionari di governo, sottogoverno e della pubblica amministrazione, oltre a un centinaio di amministratori di società pubbliche brasiliane.

Come un partito i generali valutano ora convenienza e possibili conseguenze delle proprie scelte politiche. Avendo ottenuto benefici, concessioni e potere soltanto garantendo la stabilità del presidente Bolsonaro, perché mai ora che il destino politico del presidente sembra ormai prossimo all’epilogo dovrebbero imbracciare le armi per difenderlo con un’azione che sarebbe producente prima di tutto per loro? Difendere con un’azione militare Bolsonaro significherebbe condannare se stessi. Lasciare il presidente da solo nell’assumere un tono sempre più autoritario e nell’adottare le misure sempre più criticabili potrebbe invece aiutare a distanziarsene. In difficoltà, indebolito e insicuro, Bolsonaro punterà infatti alla radicalizzazione dei suoi più fedeli seguaci che, a differenza dei militari, valutano meno le conseguenze. Gruppi di sostenitori che, armati grazie alle numerose leggi approvate dal governo, sono pronti a correre in difesa del proprio messia.

Il questo clima da resa dei conti con praticamente tutte le istituzioni dello Stato coinvolte in una guerra di posizione, domani si ‘festeggia’ il golpe del 1964 che consegnò il paese alla dittatura fino al 1985. Una commemorazione, resa legittima da una decisione della giustizia, che rischia di trasformarsi in nuovo momento simbolico della storia del paese.

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Si era nascosto in un piccolo paesino nei dintorni di Roma per sfuggire all’esecuzione della condanna definitiva a suo carico a oltre 7 anni di carcere ma sono state proprio le ultime truffe da lui commesse a portare gli investigatori della polizia postale dritti al suo nascondiglio. Così è stato finalmente arrestato un 63enne originario di Cosenza noto come il “re” delle truffe online: ora dovrà scontare la sua pena per associazione a delinquere finalizzata alla falsificazione di strumenti di pagamento, truffa ed estorsione.

Da tempo era latitante e si nascondeva in un appartamento dove è stato sorpreso questa mattina all’alba dagli agenti della Polizia Postale di Cosenza e della Sezione di Polizia Giudiziaria della Procura della Repubblica, con il supporto dei colleghi di Roma: nel suo covo sono sono stati trovati numerosi strumenti informatici e documenti ora sotto sequestro, assieme a vari cellulari, carte di pagamento e dispositivi per la connessione internet.

Dalle indagini e dagli appostamenti sul luogo è emerso, tra l’altro, che il latitante aveva disponibilità finanziarie che prelevava periodicamente attraverso le postazioni bancomat dell’area in cui è stato individuato, con l’utilizzo di carte in suo possesso. Considerato dagli inquirenti uno dei primi criminali informatici e componente di un’organizzazione transnazionale dedita alla falsificazione di strumenti di pagamento e alle frodi informatiche, l’uomo era già stato al centro di varie indagini della Polizia Postale e non solo. E proprio in una di queste indagini, insieme all’arrestato, era stato coinvolto anche un altro uomo arrestato, dopo anni di latitanza, nel luglio 2019 a Fiumicino in un analoga operazione, sotto le direttive del Sostituto Procuratore della Repubblica di Cosenza Maria Luigia D’Andrea, con il coordinamento del Procuratore Capo Mario Spagnuolo, titolari anche dell’indagine portata a termine.

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Roma potrebbe arrivare a una rottura con la Ue sul dossier Alitalia. La svolta ufficiale arriva martedì sera, con un breve comunicato del ministero dello Sviluppo guidato dal leghista Giancarlo Giorgetti: “È stata valutata la situazione di Alitalia alla luce dello stallo delle negoziazioni con la Commissione Europea per il decollo della Newco Ita. Si ritiene dunque necessaria una nuova strategia di azione da concertarsi con Mef e Mims per permettere la continuità operativa della compagnia aziendale”. L’annuncio della “nuova strategia” arriva dopo le rimostranze del direttore generale di Alitalia Giancarlo Zeni nei confronti della Ue e mentre in Parlamento diventa sempre più vocale il partito trasversale – dai 5 Stelle a Leu fino alla Lega passando per frange del Pd e Fratelli d’Italia – che chiede al governo di respingere le richieste “irricevibili” di Bruxelles, che in nome della discontinuità vuole che a Ita restino in dote meno di 50 aerei e molti meno dipendenti rispetto al numero attuale, mentre handling, manutenzione e MilleMiglia verrebbero venduti al miglior offerente.

Posizioni condivise dai sindacati, che dopo il presidio sotto il Mise per gli stipendi non pagati sollecitano il decollo della nuova Ita: per Salvatore Pellecchia, segretario generale della Fit-Cisl, le “lungaggini decisionali di Bruxelles” rischiano di “affossare il progetto, con danni ingenti per il nostro Paese”. Il Tesoro ha dato il via libera al versamento ai commissari dei 24,7 milioni di sostegni pubblici autorizzati la settimana scorsa dalla commissaria Margrethe Vestager e gli accrediti ai lavoratori dovrebbero arrivare “nei prossimi giorni”. Ma il problema pressante è la continuità operativa della compagnia.

Il sottosegretario Claudio Durigon, al termine dell’incontro con i rappresentanti dei lavoratori, ha assicurato: “Cercheremo insieme agli altri ministeri dei tavoli di confronto per far partire al più presto il piano di Ita. Stiamo combattendo con la Vestager per far capire l’importanza di avere una nostra compagnia”. Il verbo non è scelto a caso e segna la linea, condivisa tra gli altri dalla senatrice M5s Giulia Lupo, eletta a Roma Fiumicino, assistente di volo e delegata dell’Usb. Per la quale “le condizioni poste dalla Commissione non solo sono inaccettabili ma esulano dalle valutazioni tecniche e, pertanto, sono irricevibili. Ormai appare chiaro che in Europa si sta stringendo una tenaglia attorno al dossier Alitalia: da un lato si ritarda il riconoscimento degli indennizzi con un iter sempre più aggravato e lungo, dall’altro si impongono condizioni che arrivano a definire la strategia del nostro Paese sul trasporto aereo .A questo punto, non resta altra scelta se non quella di sospendere le interlocuzioni con la Commissione”.

D’accordo Leu: per Stefano Fassina “il governo deve trasferire tutti gli asset di Alitalia a Ita e farla partire subito. Le condizioni poste dalla Commissione sono ingiustificabili e insostenibili, discriminatorie, ma continuare a negoziare è esiziale sia per Alitalia che per Ita” perché “condanna al soffocamento Alitalia in Amministrazione straordinaria, data l’impossibilità di vendere voli per i prossimi mesi e di pagare stipendi, casse integrazioni e fornitori”, e fa perdere la stagione estiva a Ita mentre “gli altri vettori, generosamente sostenuti dai rispettivi Stati saturano il mercato ancora ristretto dalle conseguenze del Covid”. Dunque “l’incertezza e la timidezza del governo nei confronti della Commissione europea implica privare definitivamente l’Italia della propria compagnia di bandiera e, con essa, potenzialità di crescita nel turismo e nell’export, oltre a determinare 6-7000 esuberi”.

Il Pd è solo poco più cauto: “Con il piano di ridimensionamento ci sono 11 mila famiglie che rischiano di rimanere senza stipendio. È una situazione non più accettabile, i ministeri competenti la smettano con questo continuo scaricabarile e ascoltino le parti sociali”, dicono, in una nota, il senatore Bruno Astorre, segretario Pd Lazio, e Rocco Lamparelli, responsabile settore mobilità del Pd Lazio. “Non si può continuare ad andare avanti con l’amministrazione straordinaria che non garantisce i diritti economici dei dipendenti. Ora serve accelerare con il piano industriale per la nuova compagnia nazionale”, concludono. Il deputato Marco Miccoli, ex sindacalista, mette però nel mirino la “estenuante ed incredibile trattativa europea” che ha portato a sostituire “il progetto del precedente governo per dare vita ad una grande compagnia di bandiera con un piano che prevede una compagnia bonsai, che non reggerà alla riapertura del mercato nazionale e internazionale del trasporto aereo”.

Dal canto suo Fabio Rampelli, vicepresidente della Camera e deputato di Fdi, già lunedì aveva parlato di “ricatti europei” e “un’Europa che tenta di ridurre le potenzialità del trasporto aereo italiano affinché la nostra compagnia resti depotenziata e non autonoma. Magari per farla comprare a due soldi da qualche compagnia straniera. Rilanciare il vettore italiano, aumentare la flotta aerea, riprendere le rotte intercontinentali, regolamentare il traffico low-cost, rinvigorire le manutenzioni, tutelare i livelli occupazionali e se serve fare nuove assunzioni, moltiplicare le tratte e tornare a volare con scali diretti. Questo serve ad Alitalia, volare alto, non frazionarsi e minimizzarsi”.

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Andy Woodward ha provato ad ammazzarsi almeno dieci volte. Ha parcheggiato la sua auto nel garage con un tubo di plastica infilato nello scappamento. Si è incamminato lungo i boschi con una corda nello zaino, deciso ad annodarsela intorno al collo. Ha anche comprato delle compresse che avrebbero dovuto aiutarlo ad addormentarsi. Per sempre. Se non l’ha mai fatto è stato per una questione di coraggio. Non per mancanza, ma per eccesso. Perché continuare a vivere in quel modo è stato molto più difficile che farla finita. La sua vita sembra uscita dal Red Riding Quartet di David Peace tanto è nera, crudele, dolorosa. La sua storia è difficile da raccontare. Ma anche da ascoltare. La prima volta che è riuscito a parlarne è stato cinque anni fa. Ha svelato tutto in un’intervista al Guardian. Ha confessato di aver subito violenze sessuali da Barry Bennell, il suo allenatore ai tempi del Crewe Alexandra.

Allora Andy era poco più di un bambino, un’anima tenera che sognava di fare il calciatore. E invece si è trovato a dover dribblare un dolore sconfinato. Ha subito centinaia di abusi, fisici e psicologici. Violenze che si sono ripetute con varianti più o meno disturbate anno dopo anno dopo anno. Fino a quando quella presenza sinistra e maligna non è entrata addirittura a far parte della sua famiglia. Le sue parole hanno tramortito per settimane in calcio inglese, hanno fatto breccia nei cuori. Soprattutto in quelli delle altre vittime, tutti ex bambini che sognavano di diventare calciatori e che nel frattempo sono diventati uomini. In centinaia hanno letto le sue frasi e si sono rispecchiati in quello stesso abisso. E poco a poco hanno deciso di offrire la propria testimonianza, di liberarsi di quel fardello. Dopo decenni di ermetico silenzio hanno pronunciato i nomi dei loro aguzzini. E hanno trovato la forza di raccontare quello che hanno subito. Fra le lacrime e i singhiozzi. Un viaggio nella sofferenza di un’intera generazione di ragazzi fra gli otto e i quindici anni che ha portato a una lunga serie di denunce contro pedofili seriali già in carcere o nel frattempo deceduti. Ma anche a una nuova inchiesta, che si è chiusa un paio di settimane fa con la triste conclusione che fra il 1970 e il 1995 la Football Association non ha fatto nulla per evitare che i bambini dei settori giovanili fossero esposti al rischio di violenze.

La storia di Andy inizia nel 1984. Allora è un ragazzino di 11 anni che gioca nel Stockport Boys come difensore. Ed è anche bravo. In molti gli predicono un avvenire da calciatore professionista. Così Barry Bennell lo invita a sostenere un provino per una delle sue squadre che si allenano sul campo del Manchester City, a Platt Lane. È una partita che non cambierà la sua carriera, ma la sua esistenza. Andy entra nel settore giovanile del Crewe Alexandra. Il primo passo verso un futuro brillante. Solo che il sogno scolorisce presto in un incubo. Bennell dice al ragazzo che può stare a casa sua. Ma a Woodward basta aprire la porta per capire che quell’appartamento aveva qualcosa di strano. Più che a misura d’uomo, era a misura di bambino. Tre slot machine, console di videogiochi, un tavolo da biliardo, due cani dei Pirenei, una scimmietta ammaestrata pronta a sedersi sulle spalle degli ospiti. Ma ogni paese dei balocchi nasconde la sua atrocità. E quella casa che assomigliava molto a una sala giochi era il teatro di centinaia di abusi sessuali.

Bennell assume il controllo sulla vita di Andy. Se lo porta dietro alle partite del Crewe, lo presenta come un ragazzo che farà parlare di sé nel mondo del calcio. Poi quando sono soli ricominciano le violenze. E le minacce. Il colpo di scena arriva tre anni più tardi. Barry Bennell allaccia una relazione con la sorella di Andy. Anche lei è minorenne. Ma il fatto che lei abbia solo 16 anni non è una condizione ostativa per l’allenatore. Anzi. Il mister prende da parte il suo calciatore e gli dice di tenere la bocca chiusa. Altrimenti non avrebbe mai più giocato a calcio. Andy annuisce ed esegue alla lettera. Anche perché Bennell è considerato il miglior tecnico delle giovanili di tutta l’Inghilterra. Per Andy inizia un nuovo calvario. A volte il suo allenatore prova ad abusare di lui anche se la sorella è in casa. Ma l’orrore è solo all’inizio. Qualche tempo dopo il mister e la sua fidanzata decidono di ufficializzare la loro relazione. Così Bennell comincia a frequentare assiduamente casa Woodward. Ora ci sono pranzi domenicali e feste comandate da passare insieme. Fingendo anche cordialità. Va avanti così fino al 1991. Perché i due decidono di sposarsi.

Andy segue la cerimonia con lo sguardo spento e la rabbia che si gonfia dentro il suo stomaco. Lui si è smarrito già da tempo. E ora teme di aver preso anche sua sorella. Sul campo le cose non vanno meglio. Debutta nella prima squadra del Crewe, ma sente che qualcosa si è rotto. Woodward si fa male spesso. Ma molti di quegli infortuni sono “mentali”. Nel 1995 passa al Bury. Bennell intanto viene arrestato per pedofilia. Così il difensore ritrova energia. Gioca un paio di stagioni ad alti livelli. Poi qualcosa va in pezzi nuovamente. Nel 1999 lo Sheffield United vuole ingaggiarlo. È una grande opportunità. Solo che Woodward va a fare la spesa e viene sorpreso da un attacco di panico. Il problema diventa sempre più frequente. In una partita contro il Gillingham Andy sente di dover uscire dal campo a tutti i costi. Alla metà del primo tempo. Rientra negli spogliatoi di corsa. Si siede da solo su una panchina e inizia a piangere, inizia a credere che la sua vita sia finita. Suicidio è una parola che appare spesso nella sua testa. “La sola cosa che mi ha fermato – dice al Guardian – è la devastazione che avrei creato agli altri”. La sua vita diventa una finzione. Fa il calciatore anche se dentro ha smesso di esserlo da tempo. Quando si ritira passa 12 anni in polizia. Ma poco prima dell’intervista al Guardian viene licenziato. Aveva avuto una relazione con la sorella di una vittima di un crimine.

Per anni Andy Woodward ha pensato a come un singolo individuo è stato capace di rovinare centinaia di vite. Un pensiero che è diventato un’ossessione quando ha saputo perché i genitori avevano deciso di chiamare la sorella Lydia. Sua madre aveva una sorella. Aveva 22 anni ed era incinta quando decide di uscire in un venerdì sera come tanti nella periferia sud di Manchester. Perde l’autobus. Così inizia a camminare. In un attimo viene trascinata dietro a una siepe, violentata, colpita a morte. È un delitto che sconvolge la comunità locale. E anche qualche poliziotto. Le indagini durano poco. L’assassino viene preso dopo poco. Si chiama Ronald Bennell e ha 18 anni. Ed è il cugino di Barry Bennell. Due settimane dopo l’intervista di Woodward al Guardian si fa avanti un’altra vittima. Si chiama David Eatock e nel 1995 è arrivato al Newcastle su ordine di Kevin Keegan. Il primo allenamento è sensazionale, l’attaccante domina su ogni pallone. Così i bianconeri gli fanno firmare un contratto di tre anni e lo guidano alla sua nuova abitazione. Il Newcastle ha due edifici adibiti all’accoglienza dei giocatori. Uno è pieno. Così Eatock deve andare nell’altro, quello vuoto. Totalmente.

Il ragazzo comincia ad accusare la solitudine. Il tecnico delle giovanili George Ormond gli propone di andarsi a bere una pinta insieme. Anche perché Eatock ha 18 anni e una birra non può certo fargli male. “Sono andato al pub con lui e ha iniziato ad offrirmi una pinta dopo l’altra – ha raccontato al Guardian – io ancora un ragazzino praticamente, ma lui ha iniziato subito a parlarmi di sesso, mi ha chiesto qualcosa riguardo al mio pene”. Solo che Ormond è simpatico. Così David si fida di lui. Gli dice anche che in quei giorni si sta portando dietro un grande peso. Perché a suo padre hanno appena diagnosticato un cancro all’intestino. L’allenatore gli dice di non preoccuparsi, che andrà tutto bene. Poi lo accompagna non solo in hotel, ma anche in camera. Un comportamento che viene frainteso per un eccesso di zelo. Almeno fino a quando l’allenatore non si chiude la porta alle spalle. “Ero paralizzato, sotto shock”, dice Eatock alla BBC. Quello che è successo si trasformerà in una cicatrice che non guarirà mai. Perché invisibile. Proprio come successo a decine e decine di altri ragazzini. Testimonianze dolorose. Ma che hanno dato la forza di uscire allo scoperto a tante altre vittime.

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