marzo 2019

Nuoro, agente della penitenziaria uccide la ex moglie. È in fuga

L’uomo, di 49 anni, ha sparato alla ex e al suo nuovo compagno, ferito gravemente. L'assassino è ricercato da polizia e carabinieri



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L’ Italia “non è un rischio”, ma “la crescita zero farà aumentare i problemi”. La Tav? “Va fatta, l’Ue ci mette 888 milioni”. Parola di Jean-Claude Juncker, intervistato da Fabio Fazio a Che tempo che fa. Il Fondo Monetario Internazionale ha detto più volte che l’Italia può essere un rischio per l’economia mondiale. Lei condivide?, ha domandato il conduttore. “Non andrei così lontano – ha risposto il presidente della Commissione Ue – Non mi piacciono i discorsi profetici, perché rischiano di avverarsi. Penso che l’Italia sappia quali sono i suoi problemi. La crescita italiana è in ritardo rispetto all’Europa, da vent’anni a questa parte. Bisognerà dunque che l’Italia torni a scoprire gli strumenti che le permetteranno di rilanciare la propria crescita, ma dire che l’Italia costituisce un rischio mi sembra un’esagerazione, anche se i livelli del debito pubblico sono pericolosamente alti. Il 130% è uno dei livelli di debito pubblico più alti al mondo e bisognerà correggerlo, ridurlo”.

Il problema dell’Italia resta la crescita. “Con i nostri amici italiani – ha ricordato il capo dell’esecutivo comunitario – avevamo un contenzioso, nel corso degli ultimi mesi, relativo al livello della crescita italiana. I livelli annunciati dall’Italia si sono rivelati imprecisi e noi l’avevamo previsto, tutti noi: riteniamo che la crescita arriverà solo allo 0,2%, cioè a zero, è una sorta di stagnazione. Ciò farà sì che i problemi dell’Italia non faranno che crescere. Il governo italiano cerca di prendere provvedimenti che permettano, crede il governo, all’Italia di riprendere a crescere. Voglio crederci, ma non ne sono certo. Bisognerà dunque che siano applicati strumenti che permettano all’Italia di riavviarsi”.

Vuole crederci, Juncker, ma qualche sassolino dalla scarpa se lo toglie: “Noi della Commissione abbiamo aiutato molto l’Italia. A noi non piace tanto che l’Italia dica: Quelli parlano e non fanno nulla. Non è vero! Abbiamo appoggiato l’Italia per almeno un miliardo, di euro, non di lire”. “La Commissione ha proposto un sistema di riassegnazione dei rifugiati, ma non tutti i Paesi rispettano la norma giuridica sulla cui base gli Stati membri hanno raggiunto un accordo. La nostra solidarietà con l’Italia è totale”, ha aggiunto.

Sul tavolo dei rapporti tra Roma e Bruxelles i dossier sono diversi. L’Alta Velocità Torino-Lione è tra quelli che più divide le due sponde: “Sto studiando questo fascicolo, che è assai interessante – ha spiegato Juncker – L’Unione europea, concede 888 milioni circa di euro per cofinanziare questo progetto. Sono stati già impegnati alcuni crediti e desidererei che la costruzione di questa galleria si facesse, è assai importante per ragioni economiche, per ragioni sociali, e per ragioni ambientali. Nel 2010, solo l’8,8% delle merci sono state trasportate su ferro. Se questa galleria si costruisse, visto che è l’anello mancante tra Portogallo e Ungheria, il 40% delle merci sarebbero trasportate su ferro. Vale la pena farla”.

Nelle ultime settimane alla pila si è aggiunto anche il faldone relativo alla Nuova Via della Seta. “Io sono favorevole. Si tratta di un progetto assai ampio che permette all’Asia e all’Europa di cadere l’una nelle braccia dell’altra. E’ un bel progetto, un progetto che avvicina gli asiatici agli europei”, ha spiegato il presidente della Commissione. “Ciò che non mi piace tanto è che i Paesi europei, singolarmente, sottoscrivano contratti individuali con la Cina – ha aggiunto – Ma in quello che l’Italia ha fatto con la Cina non vedo alcun pericolo grave“.

Sottilissimo come al solito, Juncker usa parole di apprezzamento per il nostro Paese: “Senza l’Italia, la Germania e la Francia non esisterebbero. Ho sempre pensato che senza il motore francotedesco, che ogni tanto tossisce, l’Europa non possa costituirsi. Se la Germania e la Francia si ritenessero capaci di costruire l’Europa da sole, ebbene non funzionerebbe, ci vogliono anche le mani piccole, e le mani degli Italiani sono assai grandi“, ha detto Juncker. Che ha rimarcato l’importanza delle singole sensibilità nazionali all’interno del contesto comunitario: “Io sono contrario al concetto di Stati uniti d’Europa, non si otterranno mai perché gli Europei non lo vogliono. Gli Italiani? Vogliono continuare a essere italiani! I bavaresi, bavaresi e, i fiamminghi, fiamminghi – aggiunge – L’Europa è un fattore di arricchimento delle nazionalità. Ci vuole più Europa nella difesa, è evidente, ce ne vuole di più per quanto riguarda la solidarietà con i Paesi che sono colpiti duramente dalle crisi migratorie, ci vorrebbe più solidarietà con i lavoratori europei e credo di poter dire che l’Europa sociale, la dimensione sociale del mercato interno, sia insufficientemente corredata di strumenti. La Commissione ha fatto un gran numero di proposte in merito. Se desideriamo riconciliare i lavoratori con l’Europa dovremo aggiungere qualcosa di più di una semplice dose di sociale, l’Europa deve diventare più sociale“.

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I temi su cui M5s e Lega si sfidano a duello non mancano in questi giorni. Ora si aggiunge il tema del Tg1 e del suo direttore Giuseppe Carboni che finisce nel mirino del Carroccio. E’ il segretario della commissione di vigilanza Massimiliano Capitanio a criticare in particolare la copertura del Congresso delle famiglie di Verona fatta dal telegiornale principale della Rai. Non è certo la prima volta che i leghisti vanno all’assalto del direttore Carboni che – nella distribuzione degli incarichi a Viale Mazzini – è tra quelli indicati dai Cinquestelle. Era già successo quando Carboni era stato audito in commissione e il capogruppo della Lega nell’organismo parlamentare di controllo Paolo Tiramani gli aveva rinfacciato di dare “poco spazio” al suo partito e agli atti del governo, dando anche suggerimenti su come doveva fare il telegiornale.

Questa volta tocca a Capitanio: “Il Tg1 la smetta con la partigianeria – scrive in una nota il deputato del Carroccio – e torni a fare informazione pubblica“. Per il leghista la copertura data dal telegiornale al Congresso sulla Famiglia “è la goccia che fa traboccare il vaso: smentisce tutti i buoni propositi di cui ci aveva parlato” Carboni in Vigilanza “a conferma di una narrazione della realtà spesso ai limiti della fantasia. Non è così che realizzeremo la Rai del cambiamento voluta assieme al M5s. Non vorrei che, preferendo l’opinione alla realtà delle notizie oggettive ed essenziali, il direttore del Tg1 si stesse candidando a condurre la striscia serale post tg. Spero di sbagliarmi, perché in Vigilanza avevo incontrato un giornalista deontologicamente integerrimo e molto appassionato”.

Ma a replicare a Capitanio sono proprio i Cinquestelle. “La Rai del cambiamento – puntualizza Primo Di Nicola, vicepresidente della commissione – comincia a realizzarsi smettendola di intromettersi nel lavoro che fanno i giornalisti del Servizio Pubblico dei quali va tutelata l’autonomia e l’indipendenza”. Meno istituzionale (cioè meno soft) è la replica dei componenti del M5s in commissione di Vigilanza: “Capitanio ritiene che l’unica narrazione possibile sia quella del Tg2 Troppa abitudine al pensiero unico rischia di frastornare. Nella Rai del cambiamento la politica non scrive i servizi dei telegiornali come vorrebbero fare gli amici della Lega”. Il Tg2 in questi mesi era stato criticato (in particolare da sinistra) per un taglio particolarmente aderente alla linea sovranista della Lega.

Una lite in maggioranza che ripropone il vecchio tema dell’indipendenza della Rai. Proprio Carboni, nell’audizione in commissione di vigilanza, aveva toccato il tema rispondendo a una domanda di uno dei commissari: “Liberare la Rai dalla politica è una grande missione – aveva detto il giornalista – e non so se la può fare da solo il direttore del Tg1″.

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D’ora in poi 600mila malati di Alzheimer in Italia potranno contare su uno strumento in più studiato per loro. Sta infatti per partire il primo corso per Operatori per malati di Alzheimer e di altre forme di demenza (Omad), certificato da Cepas, istituto italiano leader nella certificazione delle competenze e della formazione. A promuovere l’iniziativa l’associazione SOS Alzheimer che, assieme a Cepas, ha studiato un percorso di formazione da 40 ore diviso in quattro appuntamenti (9,10,16 e 17 maggio, iscrizioni fino a fine aprile).

Le lezioni si terranno all’Istituto Serafico di Roma e saranno tenute da una selezionata equipe di professionisti: medici, avvocati e psicologi che tratteranno il tema della gestione del malato di Alzheimer a tutto tondo. Inoltre, per chi in passato ha già frequentato un corso Omad sull’argomento, sarà possibile ottenere il bollino Cepas con pochi moduli aggiuntivi (6 ore in totale). Tempo che sarà dedicato alla sicurezza sul lavoro nell’approccio con il paziente affetto da demenza basato sul metodo gentlecare della psicoterapeuta statunitense Moyra Jones.

Grazie a Sos Alzheimer, per la prima volta in Italia viene così inaugurato un percorso “certificato” finalizzato ad acquisire competenze necessarie agli operatori che si occupano di malati di demenza, morbo che secondo la Alzheimer’s Disease International colpisce nel mondo una persona ogni 3,2 secondi. “Invecchia la popolazione dei malati e invecchiano contemporaneamente anche i caregivers che hanno in media 59,2 anni, 53,3 anni nel 1999. I numeri parlano da soli. Una vera e propria epidemia”, spiega una nota stampa dell’Associazione presieduta dalla fondatrice, Maria Grazia Giordano.

“Proprio per la crescente domanda di assistenza ai pazienti affetti da malattie dementigene, l’Associazione SOS Alzheimer ha voluto fortemente il riconoscimento di un corso con l’importante certificazione professionale di terza parte delle competenze professionali rilasciate da CEPAS, in collaborazione con ANGQ, l’Associazione nazionale di Garanzia della Qualità – precisa la nota – L’Omad è il professionista che assiste e supporta, in modo eticamente e deontologicamente corretto, i pazienti affetti da deterioramento cognitivo e allevia i disturbi della malattia attraverso l’uso di terapie non farmacologiche”. Fa il possibile insomma per assistere al meglio i pazienti, ma anche per affiancare le loro famiglie.

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Sarà ballottaggio il 21 aprile fra l’attore comico Volodymyr Zelensky, che è in testa con il 30,4% dei voti, e il presidente uscente Petro Poroshenko, al 17,8%. Sono i risultati delle elezioni presidenziali in Ucraina secondo la fotografia scattata dagli exit poll pubblicati alla chiusura delle urne, che ora dovranno essere confermati dai risultati veri e propri. Terza la ex premier Yulia Tymoshenko, leader della Rivoluzione arancione del 2004, che si attesta al 14,2%.

“Ringrazio chi è andato a votare e non lo ha fatto per divertirsi: sono molto felice ma questo non è il risultato finale, solo il primo passo“, ha detto Zelensky parlando a Radio Liberty Ucraina. “Certo, sono un po’ in ansia, sono un essere umano: capisco che questa è una grossa responsabilità ma i miei amici e mia moglie mi sono vicini e questo rende le cose più semplici”, ha aggiunto.

“Una dura lezione“, ha definito il secondo posto Petro Poroshenko. Che rilancia: “Vorrei fare appello alle giovani generazioni, che hanno meno di 30 anni: capisco perfettamente le ragioni della vostra insoddisfazione e condivido pienamente il vostro desiderio per il cambiamento, dobbiamo unirci e non perdere tempo”, ha detto il presidente in carica chiedendo di fatto ai giovani, in larga parte favorevoli a Zelensky, di ‘cambiare cavallo’ al ballottaggio. “Tutto quello che abbiamo fatto negli scorsi cinque anni è per i giovani, per le generazioni future”, ha aggiunto.

Non ci sta, invece, la zarina del gas, i cui rappresentanti contestano i dati degli exit poll. Secondo i loro numeri, riporta la Tass che cita l’account Facebook del comitato elettorale di Timoshenko, “Vladimir Zelensky ha il 27%, Yulia Timoshenko ha il 20,9% e Petro Poroshenko il 17,5%”. Ma il margine di errore delle rilevazioni – fanno sapere gli istituti di ricerca Kantar TNS e Info Sapiens, che hanno curato gli exit poll per il canale ‘1+1‘, il network dell’oligarca Igor Kolomoisky per cui lavora proprio Zelensky – sarebbe dello 0,7%. Insomma, a meno di clamorose sorprese, per Timoshenko non ci sarebbe più nulla da fare. D’altra parte anche l’altro exit poll, stilato per i canali ‘Newsonè e ‘112 Ukrainè, ha dato risultati analoghi, con scostamenti nell’ordine dello zerovirgola.

Dunque sarebbe andata – il condizionale è d’obbligo – come molti analisti avevano previsto. Ora la palla passa agli scrutatori per il laborioso processo della conta dei voti, con la Commissione Elettorale Centrale che ricorda come la legge dia 10 giorni di tempo – ovvero fino al 10 aprile – per la conferma ufficiale dei risultati. “Ma speriamo che questa volta ci voglia meno tempo”, ha sottolineato la direttrice della Commissione Natalia Bernatska.

Ora il passaggio più delicato è superare lo scoglio delle (probabili) recriminazioni da parte degli esclusi, Timoshenko in testa. La Commissione ha già detto che di violazioni ce ne sono state, ma non gravi, quasi “fisiologiche”. Tra gli incidenti documentati, come riporta Unian, vi è ad esempio il seggio a Kiev, dove le penne distribuite avevano l’inchiostro cancellabile o il caso di Puznyakovtsy, vicino a Mukachevo, nella regione della Transcarpazia, dove l’intero villaggio ha votato senza mostrare i documenti perché, a quanto pare, tutti gli scrutatori erano ubriachi e si sono giustificati dicendo che tanto “conoscono tutti gli abitanti di vista”. Più seria l’accusa degli attivisti del gruppo per i diritti umani Uspishna Warta, che hanno dichiarato di aver pizzicato alcuni osservatori di Poroshenko – come a Zaporozhye – a distribuire denaro in cambio di voti.

Poroshenko ha già detto che “non vi sono informazioni valide per gettare dubbi sui risultati” ma Timoshenko ha promesso battaglia, assicurando attraverso il suo team che la conta “darà risultati diversi” e che al ballottaggio ci andrà proprio lei, la leader del partito a tinte populiste Patria.

Chi, per il momento, dormirà sonni senz’altro tranquilli è invece Zelensky. A quindici minuti dalla chiusura dei seggi giocava infatti a ping-pong (circondato dalle telecamere) nella sede del suo comitato elettorale dalla bella patina hipster, con un bar zeppo di bicchieri di spumante e luci al neon, a metà tra un ufficio di Google e un disco-pub.

L'articolo Elezioni Ucraina, exit poll: “Zelensky in testa, sarà ballottaggio con Poroshenko” Ma Timoshenko non ci sta: “Dati errati” proviene da Il Fatto Quotidiano.



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Un referendum sul ponte sullo Stretto. Rieccolo. Puntuale a ogni scadenza elettorale il ponte mai realizzato tra Messina e Villa San Giovanni torna ad animare il dibattito politico. L’ultimo a rispolverarlo è Nello Musumeci, il governatore della Sicilia che non ha trovato niente di meglio di proporrre un referendum per replicare a Danilo Toninelli. E per provare a catalizzare le attenzioni nazionali, ultimamente tutte rivolte al Tav Torino-Lione.  “Mi pare offensivo per i siciliani parlare di ponte viste le condizioni delle strade e delle ferrovie”, ha detto il ministro delle Infrastrutture, visitando l’isola. “Ci vuole un referendum per capire se i siciliani sono favorevoli all’opera”, ha rilanciato il presidente. Provando a riaprire – con scarso successo – il dibattito sul ponte, proprio in tempo per le Europee.

E negli stessi giorni in cui Eurolink, il consorzio costituito per realizzare il grande viadotto, ha deciso di fare ricorso contro la decisione del Tribunale delle imprese di Roma che lo scorso autunno ha detto no al risarcimento da 700 milioni, oltre a rivalutazioni e interessi, chiesto dopo lo stop all’opera imposto nel 2013 dal governo di Mario Monti. Il procedimento è ora incardinato di fronte alla Corte d’appello e rischia di far aumentare ancora il costo di un’infrastruttura mai fatta.

Finora l’inesistente ponte sullo Stretto ha succhiato alle casse dello Stato più di 958 milioni di euro (costi capitalizzati di Stretto di Messina dal 1981, riferiti nella relazione della Corte dei conti 2016). La messa in liquidazione della Stretto di Messina Spa, avviata il 15 aprile del 2013, doveva durare un anno ma sei anni dopo non è ancora avvenuta. Una questione sottolineata a più riprese dalla Corte dei conti nelle relazioni annuali dal 2016 fino all’ultima del novembre 2018: “La mancata estinzione determina un ulteriore onere finanziario per il mantenimento in vita della concessionaria, che la legge indicava – appunto – in un solo anno”.

Sei anni dopo, nonostante le sollecitazioni della Corte dei conti, la società non è stata ancora liquidata. Nel tempo è stato solo ridotto l’onere finanziario di due milioni e mezzo fino al 2015, un milione e mezzo nel 2016, sotto il milione solo dal 2017. È inattiva ma costa ancora: dall’1 gennaio del 2014 la Stretto di Messina non ha più dipendenti, ma al “31 dicembre 2015, le risorse (in distacco) erano otto (ridotte a sette, da gennaio 2016) – si legge nella relazione dei giudici – ed ulteriori cinque sono utilizzate parzialmente”. Per il personale distaccato presso la società nel 2014 è stato speso 1,294.000 poi ridotto nel 2015 a 963 mila euro. Mentre per le prestazioni professionali di terzi – gli avvocati che sostengono la difesa contro la richiesta di penali di Eurolink, dopo la messa in liquidazione –  si spendevano 707mila di euro nel 2014, poi 344 mila dal 2015 e 288 mila nel 2016. Per Vincenzo Fortunato, invece, commissario liquidatore nominato nel maggio del 2013, il compenso è stato di 174 mila euro nel 2014 poi sceso a 135 mila.

Una macchina mangiasoldi con la spada di Damocle della penale, che però secondo la Corte dei conti e l’Avvocatura dello Stato, non è questione che può giustificare un simile ritardo nella definitiva liquidazione: “La pendenza giudiziale (il contenzioso sulle penali, ndr) non impedisce, quale regola generale, la conclusione della fase di liquidazione, con subentro, nelle posizioni giuridiche attive e passive della società in liquidazione, dei soci della stessa (Anas con l’82%, Rfi 13%, Regione Sicilia e Regione Calabria entrambe con il 2,5%, ndr)”.

Un ritardo dovuto anche ai rimpalli di responsabilità tra ministero dell’Economia, ministero delle Infrastrutture e presidenza del Consiglio, per questo nella relazione di novembre si sottolinea: “A due anni dalle sollecitazioni della Corte dei conti – scrivono i giudici a novembre – la liquidazione della società resta un tema sospeso, non avendo le amministrazioni competenti assunto, nei fatti, alcuna conseguente iniziativa concreta. Al contrario, ognuna di esse ha prospettato soluzioni differenziate, peraltro tutte allo stato di intenzione, che rischiano, per la loro eterogeneità, di prolungare lo stallo nella definizione della vicenda”.

Il ministero delle Infrastrutture, tuttavia, riferiscono i giudici, “rammenta di aver costantemente chiesto a Stretto di Messina e ad Anas di procedere con urgenza e senza ulteriori indugi”, al contenimento ulteriore dei costi, “al fine di porre fine alla annosa vicenda, liquidando definitivamente la società”. Per la Corte non c’è dubbio: la società va chiusa. “La chiusura comporterebbe l’estinzione dei gravosi oneri finanziari per il mantenimento della struttura. In tal senso l’abbattimento dei costi di un ulteriore 20 percento previsto per l’esercizio in corso appare misura doverosa ma del tutto insufficiente”. Mentre da Anas insistono che la società finché il giudizio resta pendente non può essere liquidata. Un giudizio civile: i tempi per la definitiva liquidazione potrebbero perciò essere ancora lunghi, per questo Rfi “evidenzia l’opportunità di svolgere una valutazione prognostica sulla durata del contenzioso – riferiscono nella relazione i giudici – infatti, dopo la pronuncia delle sezioni unite della Cassazione del gennaio 2018 dichiarativa della giurisdizione del giudice civile, non sono prevedibili tempi certi per la chiusura della procedura di liquidazione”.

Ma è un argomento, invece, ancora aperto sul fronte politico. Quando Toninelli parla di ponte sullo Stretto si trova ai piedi della frana di Letojanni, ovvero una montagna di detriti che il 5 ottobre del 2015 hanno invaso la corsia ovest della Messina – Catania e finora mai rimossi. Rimpalli di responsabilità, intoppi burocratici, perfino inchieste giudiziarie, poi cambi di governo e di nomine: tutto nel calderone dell’immobilità di una frana che se tutto magicamente filasse liscio d’ora in poi verrebbe rimossa solo tra più di due anni, cioè sei anni dopo l’evento. È qui che si trova il ministro quando sottolinea che parlare di ponte ai siciliani “sembra offensivo”.

Frase che risveglia Musumeci e la sua proposta di referendum, sulla scia dei piemontesi col Tav. Nel botta e risposta tra 5stelle e governo regionale, si inserisce Claudio Fava, presidente della commissione regionale Antimafia: “Davvero pensiamo che in una regione con reti ferroviarie da fine ‘800, una viabilità interna che non esiste, chilometri di autostrade e statali in condizioni di precarietà, dove servono ore e ore per spostarsi in treno da Trapani a Ragusa il ponte sia un’opera strategica? La verità è che il discorso sul ponte di Messina è l’arma di distrazione per evitare di dover affrontare i nodi strategici del trasporto in Sicilia”. Un’arma di distrazione che non smette di drenare soldi pubblici.

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Duplice omicidio a Durazzano, in provincia di Benevento. Andrea Romano (49 anni) di Arienzo (Caserta) e Mario Morgillo (68 anni), originario del luogo, sono state freddate con vari colpi di arma da fuoco in piazza Galilei, nel centro del paese. In un primo momento era emersa l’ipotesi che i due si fossero uccisi a vicenda. Secondo quanto si apprende invece i due, suocero e genero, sarebbero stati uccisi da una terza persona, ora ricercata dai carabinieri. Alla base del duplice delitto pare ci siano dei vecchi dissapori tra il killer e una delle due vittime. Sul posto sono al lavoro i carabinieri che stanno effettuando le indagini, coordinate dalla Procura della Repubblica di Benevento, retta da Aldo Policastro.

 

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Una donna è stata uccisa in casa domenica pomeriggio a Nuoro. Secondo le prime informazioni, l’autore del delitto sarebbe l’ex marito della vittima. Quando i medici del 118 sono giunti sul posto la donna era già morta. Sul caso indagano i carabinieri di Nuoro. Oltre alla donna uccisa, c’era anche un uomo ferito all’arrivo di forze dell’ordine e 118 nella casa di via Napoli, dove è stato commesso il fatto di sangue. L’uomo, che potrebbe essere l’attuale compagno della vittima, è stato trasportato d’urgenza all’ospedale San Francesco. I carabinieri mantengono il più stretto riserbo sulle indagini, ma sarebbero già sulle tracce del presunto assassino.

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Le divergenze registrate nella maggioranza su diversi fronti – tra gli ultimi il Congresso della famiglia a Verona e le adozioni internazionali – attirano critiche sul governo: “Se le divergenze nel governo sono strutturali, il voto non andrebbe escluso”, ha detto il presidente di Confindustria Vincenzo Boccia a “In mezz’ora” su Raitre. Così l’esecutivo prova a mostrarsi coeso. “Pomeriggio di lavoro e relax in Toscana, parlando di futuro. Buona domenica Amici!”, scrive su Facebook Matteo Salvini, postando una fotografia che lo ritrae insieme al premier Giuseppe Conte.

Che, a sua volta, ribadisce sul proprio profilo: “Bel pomeriggio insieme nella campagna fiorentina – scrive il premier commentando l’incontro con il ministro dell’Interno – Bene le parole e le discussioni, rispettando ognuno le idee dell’altro, ma non perdiamo mai di vista la ‘ragione sociale‘ per cui siamo al governo: lavoriamo con la massima concentrazione per gli interessi degli italiani”.

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Lewis Hamilton conquista per la terza volta in carriera il Gp del Bahrain, secondo appuntamento stagionale della Formula Uno. Dopo una corsa piena di colpi di scena il britannico della Mercedes taglia per primo il traguardo davanti al compagno di scuderia Valtteri Bottas, terza la Ferrari di Charles Leclerc che dopo aver dominato gran parte della gara cede il passo nel finale per un problema al motore. Quinto posto per l’altra ‘rossa’ quella di Sebastian Vettel che chiude dietro alla Red Bull di Max Verstappen.

La fortuna non è stata dalla parte della Ferrari: Charles Leclerc, ampiamente in testa fino al 48/o giro, ha lamentato improvvisamente problemi alla power unit ed è stato superato da Lewis Hamilton, che lo tallonava da vicino. Male anche Sebastian Vettel, che in precedenza era stato costretto a fermarsi quando era terzo per la perdita dell’alettone anteriore, rientrando poi nelle retrovie.

 

 

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Il 6 aprile del 2009 una forte scossa di terremoto devasta L’Aquila. 142 secondi di terrore provocano 306 vittime, 1.600 feriti e 18 miliardi di danni. A dieci anni dal sisma il centro della città è spopolato, 10mila persone vivono ancora nelle new town, la ricostruzione degli edifici pubblici è al palo e nessuno ha il coraggio di toccare le 4mila villette “temporanee” costruite (e poi ampliate) per tamponare l’emergenza abitativa. Il “provvisorio” è diventato per sempre. Cos’è rimasto dello slogan sbandierato per anni dalla politica (“Tutto tornerà come prima”)? Pietro Barabino e Ferruccio Sansa hanno condotto un’inchiesta approfondita su cos’è diventata oggi L’Aquila e i paesi della provincia, sempre più abbandonati e spopolati. Un’inchiesta fatta di numeri e volti che potrete leggere lunedì 1 aprile sul Fatto Quotidiano e vedere da martedì 2 aprile con il video su ilfattoquotidiano.it.

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Da un lato la discussione sulla proposta di legge sull’eutanasia che procede a rilento, nonostante ci sia tempo fino al 24 settembre per sanare quello che il presidente della Corte Costituzionale Giorgio Lattanzi ha definito un “vuoto normativo costituzionalmente illegittimo”. Dall’altro la legge sul biotestamento che, a oltre un anno dall’entrata in vigore, fatica a trovare piena attuazione. Due facce della stessa battaglia che rischia di arenarsi tra burocrazia, vincoli legislativi e resistenze politiche. Perché dietro discussioni bloccate in Parlamento o norme non attuate, ci sono diritti negati. Così, dopo le prese di posizione degli ultimi mesi da parte dell’Associazione Luca Coscioni, la Fondazione italiana di leniterapia (File), che assiste persone malate con patologie croniche in fase avanzata, ha lanciato un appello al ministro della Salute e al garante della privacy affinché venga data piena attuazione al testo sul biotestamento: “La legge c’è, ma è rimasta sulla carta. Un po’ di ritardo è comprensibile, un intero anno no, a meno di pensare che dietro non ci sia una volontà di ostacolare una legge dello Stato”.

BIOTESTAMENTO, MANCA ANCORA IL REGISTRO NAZIONALE
A più di un anno dall’entrata in vigore del testo, il nodo principale resta la mancanza di un registro nazionale delle DAT, le disposizioni anticipate di trattamento nelle quali i cittadini dichiarano a quali cure vogliono o non vogliono essere sottoposti in caso di futura incapacità di decidere. A dicembre 2018 l’Associazione Luca Coscioni si è rivolta al ministro della salute Giulia Grillo per sollecitare l’approvazione dei decreti attuativi. “Sono stati stanziati 2 milioni di euro con la finanziaria 2017 (anche se la cifra si è poi ridotta, ndr) – ricorda Filomena Gallo, segretario dell’Associazione Coscioni – e altri 400mila euro all’anno con la finanziaria 2018 per la creazione della banca dati che avrebbe dovuto essere operativa entro il 30 giugno 2018”.

LA RACCOLTA DELLE DAT
Ilfattoquotidiano.it ha chiesto a Mariella Orsi, coordinatrice del comitato scientifico della fondazione File, cosa comporta l’assenza del registro nazionale. Anche se diversi enti comunali, già da prima della legge, forniscono la possibilità ai cittadini di presentare le proprie Dat. Tra questi, come documentato da ilfattoquotidiano.it anche Torino, Napoli, Padova, Reggio Emilia. “Le Dat vengono raccolte anche negli uffici di stato civile di molti Comuni della Toscana – spiega Mariella Orsi – e a Firenze, già sette anni fa, c’è stata l’esperienza che ho avuto modo di vivere in prima persona con l’associazione ‘Liberi di decidere’ con cui abbiamo raccolto 4mila testamenti biologici consegnati a un paio di notati che si erano resi disponibili a titolo gratuito”. Come ha spiegato la stessa senatrice Emilia De Biase, relatrice della legge, in diversi comuni gli sportelli dove poter redigere le Dat non sono nemmeno stati istituiti, per carenza di personale, per mancanza di regolamenti applicativi e perché non è stata istituita una figura professionale incaricata di dare informazioni e aiutare i cittadini che hanno maggiori difficoltà a redigere il testamento biologico. Eppure è scritto proprio nella legge che entro 30 giorni dalla sua entrata in vigore, e quindi entro la fine di marzo 2018, le Regioni e il Ministero avrebbero dovuto dare piena attuazione alla normativa attraverso la formazione del personale sanitario assistenziale e l’informazione a tutti i cittadini.

DIRITTO A MACCHIA DI LEOPARDO
“In realtà – aggiunge Donatella Carmi – non tutte l’hanno fatto e, come purtroppo avviene per l’applicazione di altri diritti, ci troviamo di fronte a una situazione a macchia di leopardo con realtà che si sono mosse e si muovono bene, come la Regione Toscana, e altre che sono rimaste colpevolmente ferme”. Tra l’altro, la legge prevede che le Dat possano essere raccolte tramite il fascicolo sanitario elettronico, che dovrebbe essere attivo su tutto il territorio italiano. Eppure, secondo l’Associazione Luca Coscioni solo 13 regioni su 20 hanno un fascicolo elettronico attivo e conforme a normativa, in altre è in sperimentazione, altre ancora non lo hanno attivato. “Questi fascicoli non contengono comunque le Dat ad oggi”, sottolinea a ilfattoquotidiano.it Filomena Gallo. È come se tutto, anche a livello regionale, fosse bloccato fino a quando non verrà istituita la banca nazionale. Ma c’è un problema di dati sensibili? “Questo è assolutamente un non problema – sottolinea Gallo – che diventa un alibi per non muoversi”.

CHI VERIFICA?
A questo punto, però, la coordinatrice del comitato scientifico pone una questione: “Chi controlla che le Dat che si stanno consegnando in questi mesi siano compilate in modo corretto?”. Il problema non si pone per i documenti custoditi ai notai, ma per quelli portati agli uffici di stato civile. “Ho avuto modo di confrontarmi con alcuni Comuni – continua – dando disposizione a un mio delegato affinché i documenti consegnati fossero verificati, ma questa operazione non è disposta dalla circolare che tutti i Comuni hanno ricevuto. È frutto della buona volontà. Mi domando se queste verifiche vengano eseguite in tutti i comuni o se ci siano esclusivamente una presa d’atto e una raccolta”.

UN FRENO ALLA DIFFUSIONE
Con la banca dati nazionale attiva, se una persona si trovasse in una situazione di emergenza, in qualunque parte d’Italia il medico avrebbe accesso alle informazioni necessarie.“Un po’ come avviene con la donazione degli organi – spiega Orsi – e, infatti, in questo ambito l’unificazione delle disposizioni ha contribuito notevolmente allo sviluppo dei trapianti”. In questo momento, invece, per le Dat c’è un problema logistico, perché sia i notai che gli uffici di stato civile sono soggetti a orari di apertura e di chiusura.

PORTARSI DIETRO IL FOGLIO DI CARTA
E se l’emergenza sopraggiunge fuori dall’orario di apertura? “L’unica garanzia che un cittadino ha per veder rispettato il proprio diritto al fine vita – spiega Donatella Carmi, presidente di File – è quello di portarsi sempre dietro quel foglio di carta dove ha espresso la propria volontà”. Il foglio che va lasciato in copia anche al proprio medico curante e alla persona a cui è stata delegata l’espressione di volontà (il fiduciario), anche perché sarà lui, in caso di bisogno, a doverla portare al medico se il paziente non è in grado. Per questo, suggerisce la presidente della fondazione “sarebbe sempre meglio far inserire questo foglio nella propria cartella clinica ogni volta che si va in ospedale. Un sistema – commenta – tanto barocco quanto poco rispettoso della dignità umana”.

LA LEGGE SULL’EUTANASIA
Nel frattempo procede a rilento la discussione alla Camera sulla proposta di legge sull’eutanasia depositata nel 2013 dall’associazione Luca Coscioni. Una discussione iniziata a fine gennaio 2019, tre mesi dopo il sollecito della Corte costituzionale, chiamata a pronunciarsi sul ‘caso Cappato, il leader dell’associazione Luca Coscioni finito sotto processo per aver aiutato l’ex dj Fabiano Antoniani a porre fine alla sua vita. Cappato rischia dai 5 ai 12 anni. La Consulta però ha chiesto al parlamento di legiferare entro il 24 settembre. Eppure le commissioni congiunte Giustizia e Affari sociali sono bloccate da settimane e in due mesi avrebbero dedicato solo tre ore al testo. A denunciarlo l’Associazione Coscioni, che da marzo 2015 ha ricevuto oltre 700 richieste non anonime di aiuto per poter accedere al suicidio assistito nei paesi esteri in cui è consentito.

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Hanno eletto il segretario nello stesso giorno, l’ultima domenica di marzo. Due congressi che sembrano uscire direttamente dalla Prima Repubblica quelli dei socialisti e dei repubblicani. E invece no: perché il Psi e il Pri esistono ancora. Anzi resistono. Persino oggi che il cosiddetto governo del cambiamento sostiene di aver spazzato via non la Prima, ma sopratutto la Seconda di Repubblica.  Sono sopravvissuti a Tangentopoli, che ne ha decapitato vertici e leader a colpi di arresti e avvisi di garanzia. Ma anche al ventennio berlusconiano che li spaccati, assorbendoli a corrente alternata: a un certo punto gli ex socialisti alla corte dell’ex premier non si contavano più, ma anche Giorgio La Malfa guadagnò il Parlamento con il Pdl. E adesso si riuniscono a Roma, in piena Terza Repubblica, o presunta tale.

Dopo la liquidazione del partito storico – nato nel 1892 – travolto da Mani Pulite, e la scissione in due nel 1994, da un decennio i nipotini di Pietro Nenni hanno definitivamente rotto con le ambiguità, posizionandosi a sinistra con la guida di Riccardo Nencini. All’ultimo congresso hanno ricevuto persino la visita del segretario del Pd, Nicola Zingaretti, e hanno eletto alla quasi unanimità (un’astensione) il nuovo segretario: è Enzo Maraio, consigliere regionale in Campania. “Possiamo essere tutti d’accordo che in questo congresso si è sancita la centralità del Psi nel centrosinistra. La presenza di Zingaretti e di Della Vedova come ospiti a questo congresso non era scontata. Spero però che la stagione della vocazione maggioritaria del Pd sia stata messa in soffitta. La logica di coalizione deve essere plurale e rispettosa di tutte le storie: su questa sfida Zingaretti poteva essere più coraggioso”, ha detto il neosegretario, sedendosi sulla poltrona che fu di Bettino Craxi. Curiosamente Maraio viene eletto nell’anniversario numero 32 di quello che è probabilmente il più celebre congresso del Psi: il 31 marzo del 1987 si apriva a Rimini la convention ospitata dal finto “tempio greco”, creato da Filippo Panseca, noto architetto turbo craxiano. Tre mesi dopo i socialisti sfondarono il 14% alle politiche: fu un record. Altri tempi. Oggi Maraio può contare sull’appoggio del segretario uscente Nencini. “Il Psi apre un nuovo ciclo. Sono orgoglioso di passare il testimone nel segno di una continuità, di una storia, che ha reso l’Italia più libera e più civile”, ha detto l’ex viceministro del governo di Matteo Renzi. Ma cosa si è deciso al congresso del Psi? “È emersa forte l’esigenza di rimanere nell’alveo del Pse, dove siamo collocati storicamente. Quindi, diventerebbe molto più problematico ragionare su un’alleanza con +Europa che, a livello europeo, sta in una casa diversa. Siamo aperti a qualsiasi sfida, ma nel rispetto del Psi, della nostra storia”, dice Maraio, pensando già alle Europee.

Molto più moderato l’umore dalla parte dei Repubblicani, che invece possono ancora vantare il simbolo originario con l’edera nell’emblema, risalente al 1895. Gli eredi di Giovanni Spadolini – ma qualcuno su facebook rilancia persino Giuseppe Mazzini – hanno rieletto “a grandissima maggioranza” Corrado De Rinaldis Saponaro. Autore solo due giorni fa di una “nota politica” al vetriolo pubblicata sul sito del partito, ma inspiegabilmente ignorata dalla stampa. L’obiettivo di De Rinaldis Saponaro? Lo stesso dei Repubblicani di un secolo fa: il Papa.  “Il pontefice – scrive il segretario – può ricevere o non ricevere chi più preferisce, ma se la ragione dei suoi incontri riposa sulla coincidenza del pensiero del suo interlocutore con quello della Chiesa e presupponesse che il suo interlocutore dovesse rimettersi interamente al pensiero della Chiesa abbandonando il proprio, la Chiesa rinuncerebbe al suo ecumenismo per scoprirsi integralista. Nel caso in cui fosse un uomo di Stato a dover rinunciare alle sue convinzioni per essere ricevuto del santo padre, ci troveremmo di fronte ad un’ingerenza inaccettabile per uno Stato laico, oltre che ad una violazione palese del Concordato”. Dunque, alla fine del lungo preambolo che inneggia alla laicità dello Stato, ecco il cuore della questione: “Vogliamo sperare che le notizie relative ad un eventuale incontro fra il ministro Salvini ed il pontefice, siano infondate“. Nessuna replica: né dal leader della Lega e neanche da Papa Francesco.

Per tornare alla cronaca, la notizia più fresca emersa dall’ultimo congresso è l’ascesa nel partito dei repubblicani di Ravenna, che hanno ottenuto in direzione 5 membri su 35, compreso il vicesegretario: è Eugenio Fusignani, vicesindaco della città romagnola. D’altra parte Ravenna è l’unica città dove il Pri ha eletto qualcuno in consiglio comunale negli ultimi anni. Fallimentare, invece, l’intesa con Ala di Denis Verdini alle politiche. Fusignani ha dunque le idee chiare per il futuro: “È per me motivo di grande orgoglio questa nomina che da un lato consolida il lavoro fatto in questi mesi e anni a Ravenna e dall’altro dà mandato al partito e a me come vicesegretario nazionale vicario con delegato agli enti locali di ricostruire il partito partendo dalle città”. E se i socialisti hanno rinunciato a discutere con +Europa per le europee, al contrario i radicali è proprio con + Europa che intendono “proseguire gli incontri”. La soglia di sbarramento è lontana anni luce: il Pri, però, sembra pronto a resistere all’ennesima eventuale sconfitta. Arriverà anche la Quarta Repubblica, ma Repubblicani e Socialisti rimarranno su piazza.

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Alcuni cittadini nigeriani ordinano la pizza a Londra e se la fanno consegnare in aereo a Lagos dalla British Airways. Certo, l’idea fa sorridere, ma la rivelazione del ministro dell’agricoltura nigeriano, Audu Ogbeh, è il segno di uno dei tanti drammi vissuti dalle popolazioni africane che tentano di rilanciare l’economia dei propri paesi di fronte ad una globalizzazione senza freni.

L’affermazione è stata posta da Ogbeh in forma interrogativa mentre stava esponendo il bilancio del suo ministero per il 2019 di fronte alla commissione agricoltura del Senato nigeriano ad Abuja.  “Lo sa che ci sono nigeriani che usano i loro smartphone per importare la pizza da Londra? – afferma il ministro davanti al chairman del Senato come dimostra un video che sta girando sui social – Comprano al mattino a Londra, la pizza arriva la sera grazie alla British Airways, e la si va a prendere all’aeroporto”. Sei le ore di viaggio tra le due grandi città nigeriane e Heatrow.

“È una situazione molto fastidiosa e dobbiamo muoverci molto più velocemente di quanto facciamo ora per ridurre questo genere di iniziative”. Già, perché quello che sembra un risibile vizio dei più ricchi della Nigeria è in realtà il segno di una disaffezione verso l’industria e il commercio del proprio paese che non fa altro che aumentare il divario con segno meno tra esportazioni ed importazioni. Come spiegano diversi giornali in lingua inglese della Nigeria ci sono oltre 50 pizzerie in tutto il territorio dello stato centroafricano tra cui la catena di Domino’s Pizza. Insomma, la possibilità di ordinare una margherita a Lagos non manca.

“Gli stuzzicadenti ogni anno ci costano 18 milioni di dollari, il concentrato di pomodoro 400 milioni di dollari”, ha spiegato Ogbeh ricordando che comunque in  Nigeria si producono pomodori di buona qualità a prezzi contenuti e che gli agricoltori nigeriani continuano a perdere denaro per via di dissennate importazioni di frutta e verdura che il paese comunque produce in quantità. Diverse fonti ministeriali sostengono che nei centri commerciali di Lagos, Abuja, Kano, frutta e verdura provengono dal Sudafrica. Una vera sciagura per un paese che potrebbe colmare i suoi fabbisogni alimentari di questi beni primari. Anche se Ogbeh conclude con una nota di ottimismo: “Per puntare sulla nostra capacità di sviluppo dobbiamo partire dalle piccole cose di tutti i giorni. E per quanto riguarda la lavorazione del pomodoro stanno andando a regime due grossi nuovi stabilimenti che ci potranno permettere di fermare l’importazione di passata di pomodoro dall’estero”.

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Supermanager, medici, avvocati. Ma anche politici, vecchie glorie del pallone, perfetti sconosciuti. Sono gli oltre 200 candidati per il consiglio di amministrazione di Sport e Salute spa, la nuova società statale creata dal governo per gestire lo sport italiano al posto del Coni (a cui toglierà soldi e competenze). A febbraio il governo aveva lanciato una manifestazione d’interesse (comunque non vincolante), per scegliere il profilo migliore a cui affidare lo sport italiano. Poi, però, la lista degli oltre 200 curriculum ricevuti non era mai stata pubblicata: tenere segreti i nomi significa evitare confronti sgraditi fra i candidati, ridurre le voci. Gestire autonomamente le nomine, con buona pace della trasparenza.

Il Fatto Quotidiano è riuscito ad avere l’elenco preparato dagli uffici di Palazzo Chigi e lo pubblica in esclusiva, in versione integrale. Ci sono tutti i grandi favoriti: l’ex amministratore delegato di Alitalia Rocco Sabelli per la presidenza, il primario Francesco Landi alla Salute in quota 5 stelle e una “donna di sport”, probabilmente un’ex atleta, all’Istruzione per la Lega. Ma anche nomi insospettabili come il dentista di Giovanni Malagò, attuale numero uno del Coni.

LA LISTA DEI CANDIDATI PER IL CDA DI SPORT E SALUTE SPA

  1. Giorgio Abeni
  2. Anna Rosa Adiuttori
  3. Ernesto Albanese
  4. Salvatore Aloisi
  5. Edoardo Andreoli
  6. Riccardo Andriani
  7. Francesco Anesi
  8. Andrea Angeloni
  9. Giuseppe Argirò
  10. Stefano Azzi
  11. Anna Rita Balzani
  12. Maurizio Barbieri
  13. Marco Barbizzi
  14. Pierfrancesco Barletta
  15. Carlo Maria Barlocco
  16. Roberto Baudino
  17. Andrea Bedin
  18. Mario Benedetto
  19. Enrico Benelli
  20. Gianluca Bernardini
  21. Carlo Maria Berruti
  22. Michele Bertacco
  23. Riccardo Bertollini
  24. Diana Bianchedi
  25. Cristiano Blanco
  26. Mauro Bonaretti
  27. Diego Bonavina
  28. Manuela Bravi
  29. Claudio Briganti
  30. Mario Brozzi
  31. Alessandra Bruni
  32. Marco Buttarelli
  33. Camillo Cametti
  34. Sergio Capograsso
  35. Giuseppe Capua
  36. Giovanni Caravetta
  37. Andrea Cardinaletti
  38. Francesco Piero Raimondo Caria
  39. Paolo Alfredo Carlito
  40. Mario Carletti
  41. Roberto Caronno
  42. Franca Casadei
  43. Felice Casini
  44. Giuliana Maria Cassani
  45. Luigi Cassatella
  46. Franco Bruno Castaldo
  47. Alessandro Castelli
  48. Stefano Cattorini
  49. Guido Cecinelli
  50. Gianni Cedolini
  51. Ferdinando Cereda
  52. Mauro Checcoli
  53. Mirka Cocconcelli
  54. Maurizio Coconi
  55. Stefano Comellini
  56. Celeste Condorelli
  57. Marta Conean
  58. Carlo Conte
  59. Antonia Coppola
  60. Pietro Cordova
  61. Giuseppe Costantini
  62. Marcello Crea
  63. Nicolò Critti
  64. Enrico Crocetti Bernardi
  65. Carlo Dalla Vedova
  66. Claudio D’Amario
  67. Cosimo D’Ambrosio
  68. Carlo D’amelio
  69. Luigi D’Antò
  70. Giacomo D’arrigo
  71. Enrico D’ascoli
  72. Simone Dattoli
  73. Andrea De Rita
  74. Paolo Del Bene
  75. Paola Della Chiesa
  76. Antonello Di Cerbo
  77. Cesare Di Cintio
  78. Carlo Di Marco
  79. Maurizio Di Marcotullio
  80. Andrea Di Maso
  81. Tommaso Di Paolo
  82. Silviano Di Pinto
  83. Vincenzo Di Santo
  84. Giulio D’imperio
  85. Angelo Fasola
  86. Dino Feliziani
  87. Ferdinando Femiano
  88. Erica Ferri
  89. Virginia Filippi
  90. Riccardo Finocchi
  91. Luca Fiormonte
  92. Antonella Flumene
  93. Luisanna Fodde
  94. Giovanni Fontana
  95. Romano Franceschetti
  96. Paolo Francia
  97. Davide Franco
  98. Daniele Funicelli
  99. Umberto Maria Gandini
  100. Ferdinando Gandolfi
  101. Elena Garda
  102. Dario Giacomini
  103. Maurizio Maria Gialluisi
  104. Giuseppe Giblisco
  105. Daniele Giliberti
  106. Fabio Michele Giordano
  107. Luca Giraldi
  108. Paolo Giuntarelli
  109. Gioia Gorgerino
  110. Manuela Gorini
  111. Marcello Grimaldi
  112. Carlo Grippo
  113. Angelo Raffaele Guida
  114. Paolo Ignesti
  115. Luciano Innocentini
  116. Riccardo Jelmini
  117. Elisabetta Kalenda
  118. Umberto Lago
  119. Giuseppe Lagrasta
  120. Francesco Landi
  121. Dimitri Lauwers
  122. Paolo Lazzara
  123. Francesca Liuzzi
  124. Gabriele Giuseppe Liuzzo
  125. Alceste Maurizio Lo Buono
  126. Paolo Longhi
  127. Massimo Macagni
  128. Antonio Marinello
  129. Vincenzo Maritati
  130. Alessandro Marzoli
  131. Nicola Masciotra
  132. Fiona May
  133. Luigi Melica
  134. Mauro Miccio
  135. Giada Michetti
  136. Antonio Micillo
  137. Gian Mario Migliaccio
  138. Alberto Miglietta
  139. Filippo Mincione
  140. Nando Minnella
  141. Massimiliano Monanni
  142. Federico Montalti
  143. Mario Morelli
  144. Alberto Morini
  145. Luigi Morva
  146. Giovanni Naccarato
  147. Luca Nardi
  148. Pierpaolo Neri
  149. Giuseppe Nico
  150. Elena Nostro
  151. Francesca Novati
  152. Giuseppe Nucci
  153. Gianpiero Orsino
  154. Vittorio Ottonello
  155. Roberta Pacifici
  156. Gianni Padovani
  157. Roberto Pagliuca
  158. Giovanni Palazzi
  159. Federico Palumbieri
  160. Federico Pastor
  161. Mario Patrono
  162. Stefano Pecci
  163. Frederic Peroni Ranchet
  164. Paolo Pettene
  165. Carlo Piccolo
  166. Eugenio Piccolo
  167. Fabio Pigozzi
  168. Giuseppe Piraino
  169. Giuseppe Pirola
  170. Massimo Polledri
  171. Mauro Pollini
  172. Gabriella Porcelli
  173. Paolo Porcelli
  174. Monica Priore
  175. Antonio Prisco
  176. Claudio Pucci
  177. Giorgio Quadri
  178. Alberto Ramaglia
  179. Paolo Rampino
  180. Raffaele Ranucci
  181. Simone Rasetti
  182. Franco Renzi
  183. Luigi Repace
  184. Massimo Righi
  185. Andrea Rogg
  186. Maurizio Romano
  187. Vittorio Rosati
  188. Davide Gianpaolo Rosetti
  189. Sandro Rossi
  190. Igino Rugiero
  191. Ermanno Ruscitti
  192. Rocco Sabelli
  193. Marcello Sala
  194. Monica Babbini
  195. Fabio Salvadori
  196. Pieremilio Sanmarco
  197. Vincenzo Sanguigni
  198. Raffaele Sannicandro
  199. Nicola Dino Scheda
  200. Andrea Schenone
  201. Elena Severino
  202. Flavio Siniscalchi
  203. Francesco Soro
  204. Claudio Sottoriva
  205. Michele Stipulante
  206. Laura Strassera
  207. Roberto Tanganelli
  208. Genoveffa Tadonio
  209. Carlo Tavecchio
  210. Paolo Teoducci
  211. Jacopo Tognon
  212. Matilde Tomagnini
  213. Carlo Tranquilli
  214. Maurizio Trapani
  215. Paolo Triglia
  216. Fabrizio Maria Tropiano
  217. Andrea Vittorio Vaccaro
  218. Antonello Valentini
  219. Katia Valerio
  220. Flavio Vasoli
  221. Luigi Maria Vignali
  222. Salvatore Villano
  223. Michele Zarrillo
  224. Marco Zilia Bonamini Pepoli
  225. Federico Zurleni

Twitter: @lVendemiale

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“Speriamo che i giudici non facciano sconti a nessuno”. Così Matteo Salvini, ministro dell’Interno, ha commentato stamattina gli esiti dei controlli sugli anarchici arrivati ieri a Torino per una manifestazione convocata dopo lo sgombero del centro sociale Asilo e gli arresti del 7 febbraio. A Torino “c’era la crema dell’anarcoinsurrezionalismo violento – ha sintetizzato il questore Francesco Messina -. Delinquenti arrivati appositamente per creare disordini e problemi”. Settantaquattro di loro, fermati e identificati prima del corteo, sono stati denunciati. Molti di loro erano in un gruppo di circa duecento persone che costituiva il “blocco nero”. “Black bloc”, per utilizzare un’espressione più nota. Gli agenti della Digos, guidata dal dirigente Carlo Ambra, hanno trovato il gruppo in via Aosta, vicino a una scuola occupata nei giorni scorsi. In mezzo a loro c’erano anarchici arrivati dalla zona di Trento insieme a Massimo Passamani, leader dell’insurrezionalismo, ma c’erano anche militanti giunti dalla Spagna, dalla Grecia, dalla Francia e altri Stati europei.

A quel punto la polizia ha deciso di bloccarli impedendo che si unissero al corteo principale, partito intorno alle 16 dalla stazione di Porta Nuova. Con sé il “blocco nero” aveva oggetti utili agli scontri: dodici bocce d’acciaio, uova riempite di vernice, ma anche dieci bottiglie da mezzo litro piene di benzina, utile a preparare molotov, 222 torce a fuoco da segnalazione, 15 fumogeni grandi, e ancora 143 maschere antigas e 86 caschi: “Il gruppo è stato messo in condizione di non nuocere e, dopo una lunga mediazione della Digos, è stato costretto ad abbandonare il materiale”, ha spiegato Messina, secondo il quale “la strategia del ‘blocco nero’ era quella di entrare nel corteo e a un cenno dare il via alla devastazione”.

La polizia e i carabinieri sono riusciti a gestire la manifestazione “senza alzare un solo manganello e senza che fosse rotto un vetro”. Milleduecento tra uomini e donne delle forze dell’ordine hanno tenuto sotto controllo il corteo a cui hanno preso parte più di mille manifestanti. Alla fine sono stati soltanto quattro gli arresti, quelli di giovani arrivati dai centri sociali di Padova e Treviso fermati venerdì a un casello autostradale a bordo di un’auto su cui c’erano delle bombe carta. I denunciati sono stati 74, tra cui alcuni degli indagati dalla procura di Torino, arrestati per associazione eversiva il 7 febbraio scorso e poi scarcerate dal Tribunale del riesame di Torino. A quella decisione hanno fatto riferimento sia Salvini, sia il questore: “Le persone violente devono essere isolate – ha commentato – Il loro posto non è la piazza il loro posto, ma la galera”.

Non è stata l’unico commento che Messina, prossimo dirigente della Direzione centrale anticrimine della Polizia di Stato, ha rilasciato dopo la manifestazione di ieri. “L’ordine pubblico è affare degli addetti ai lavori – ha detto – Ho sentito parlare tanto in questi giorni, ma i giudizi di merito e di valore spettano ai soggetti che hanno competenza”. Il riferimento potrebbe essere alle dichiarazioni rese da alcuni esponenti locale del Movimento 5 Stelle la scorsa settimana, in particolare dalla capogruppo in Consiglio comunale, Valentina Sganga che, dopo l’intervento violento della polizia nel corso di una biciclettata della Critical mass, riteneva doverosa “una profonda riflessione sulla gestione dell’ordine pubblico”. “Bisogna sapere di cosa si parla”, ha replicato il questore senza mai nominare il destinatario. E parimenti Messina ha contestato anche chi ha solidarizzato con gli anarchici dopo lo sgombero dell’Asilo partecipando alla manifestazione del 9 febbraio, nel corso della quale ci furono degli scontri: “L’Asilo era un covo di sovversivi. Un centro sociale ha funzioni diverse”.

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L’attacco all’aborto e alla legge 194 è andato in scena sulle note di We Are family delle Sister Sledge: la marcia per le strade di Verona ha concluso il Congresso della Famiglia. Nella guerra dei numeri, gli organizzatori parlando di “un grande successo” e di 50mila persone presenti. Molte meno rispetto alle 100mila che sabato pomeriggio hanno sfilato nella contromanifestazione Transfemminista, anche in questo caso secondo le organizzatrici. È contento Massimo Gandolfini, leader del Family Day, che perlomeno oggi ha visto al suo fianco i figli “in linea” con le sue idee, dopo il clamore e le polemiche legate alle critiche di Maria, la figlia separata e aderente alla marcia femminista. Insieme a loro anche un gruppo di militanti di Forza Nuova ed esponenti della destra americana.

In piazza Bra, proprio alla partenza della sfilata, si è così palesata Loretta Gandolfini, la prima dei quattro figli sposati. Un passeggino con due bambini, un terzo che spuntava dallo zainetto alle spalle: “Ognuno fa le sue scelte – si è limitata a dire – e devono essere rispettate”. Lungo la strada si sono aggiunti altri due dei sette figli, tutti adottati, del neurochirurgo bresciano, che hanno seguito il corteo: Paolo e Marcos, anche loro con mogli e figli al seguito. Nessuna critica o contrapposizione con Maria, che sabato ha definito il congresso “medievale” e “inconcepibile nel 2019”. “Le parole di mia figlia – aveva risposto Gandolfini – sono servite se non altro a demolire l’immagine del fascista che impone le sue idee. Per cui mia figlia fa giustamente quello che crede e che reputa giusto. Io naturalmente la rispetto”.

Poco rispetto invece per i diritti sanciti dalla legge 194. “Dal 1978 a oggi sono stati uccisi 6 milioni di embrioni” ha detto Gandolfini, definendo poi la pratica dell’utero in affitto “vergognosa, criminale, barbara, tribale”. Tutti in linea anche con l’ultimo giorno di convengo, dove è stato proposto il contrasto alla pratica dell’utero in affitto tramite una rogatoria internazionale e la protezione dei minori, “a partire dai loro diritti ad avere una mamma e un papà, a non diventare oggetti di compravendita, di abusi sessuali e pedopornografia e a ricevere un’educazione che non metta in discussione la loro identità sessuale biologica e non li induca a una sessualizzazione precoce”. È uno dei passaggi del documento emerso dalla tre giorni degli organizzatori del Congresso delle famiglie di Verona.

Anche la marcia è stata soprattutto un attacco all’aborto camuffato da palloncini e bandiere con i disegni della famiglia tradizionale, musica e celebrazione “dell’eroismo” (sempre delle mamme e dei papà) che cambiano pannolini e crescono i figli ogni giorno. Così come camuffati erano anche gli esponenti di Forza Nuova, una dozzina in tutto. La Questura scaligera aveva avvertito il movimento di estrema destra a non esporre segni distintivi, per cui i militanti hanno indossato camicie bianche, formando un gruppetto davanti a tre grandi cartelli intitolati “Dio“, “Patria“, “Famiglia“. Tra gli slogan della marcia, quelli inneggianti alla ‘Famiglia futuro dell’Europa’, alla ‘Libertà per la donna di avere figli’, oppure ‘Abbiamo Gesù nel cuore‘. Ma anche le magliette con la scritta ‘Keep calm and play for family‘.

È da qui che il popolo pro famiglia e pro vita parte per avviare “un’azione lobbistica, il coordinamento c’è già, speriamo che vada avanti”, annuncia intanto il vicepresidente del Congresso mondiale delle famiglie, Jacopo Coghe. Prima della marcia, sul palco del congresso si sono visti anche segnali di vicinanza con movimenti della destra americana. Ed Martin, capo dell’organizzazione fondamentalista “Eagle Forum Education & Legal Defense Fund“, ha esposto un berretto con la scritta “Make Europe Great Again“, lo slogan di Donald Trump in chiave continentale, invitando tra gli applausi a combattere “per la famiglia, la libertà, la patria e per Dio”. Segnali confermati dallo stesso Coghe: “Sicuramente adesso c’è una fase politica nuova, ma siamo famiglie, non ci interessa fare politica, ci interessa farla nel senso sociale”. Ma “alle prossime elezioni europee – ha aggiunto – prenderemo atto di chi è dalla nostra parte e di chi ci insulta“.

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L’ex campione di slittino e mountain bike Corrado Herin, valdostano di 52 anni, è morto in un incidente aereo avvenuto a Torgnon, in Valle d’Aosta. Il velivolo, un Piper, è precipitato in località Chantorné, vicino alle piste da sci. Assieme ad Herin è rimasto coinvolta un’altra persona che ha riportato gravi ferite.

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Sincera e visibilmente commossa, Eleonora Daniele, ospite nel salotto di Domenica In, ha raccontato a Mara Venier un’esperienza per lei molto dolorosa. Eleonora ha infatti perso un fratello, Luigi, affetto da una forma di autismo molto grave. Il ragazzo è morto nel 2015 per via di alcune complicazioni legate alla malattia. La Daniele ha letto alcuni passi di una lettera che aveva scritto per lui: “Guardarti negli occhi è il solo modo per entrare. Quando il tuo mondo ha voglia di comunicare con il mio. Non è sempre possibile, ma se ciò avviene la tua vita dentro diventa per me un paradiso, dove il sole mi scalda, dove posso perdermi tra i mille colori dei fiori del tuo giardino, dove i tuoi sogni diventano i miei“. E ancora, la conduttrice di Storie Italiane ha raccontato a Mara del suo quotidiano impegno: “Quando li perdi ti rendi conto quanto importanti erano, quanto ti hanno dato queste persone. Quando si parla di disabilità si dovrebbe fare di più, dovremmo impegnarci tutti un po’ di più. Io e le mie sorelle collaboriamo con un’associazione per cercare di fare qualcosa”.

 

 

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Valle d’Aosta, precipita un ultraleggero: morto ex campione di mtb

L’uomo, 52 anni, era a bordo di un Piper insieme ad un’altra persona, ora ferita gravemente. Il velivolo è precipitato in località Chantorné, nei pressi delle piste da sci



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“Se la Lega si attiene al contratto di governo, bene. Se dovesse decidere altro, sarà una responsabilità della Lega far cadere il governo”. Il giorno dopo le accuse della Lega sulle presunte lentezze nelle procedure per le adozioni cui ha replicato punto per punto Palazzo ChigiVincenzo Spadafora non molla. “Quando si è politicamente più forti, come in questo momento sembra essere la Lega, si ha una responsabilità maggiore nel dare le risposte – ha detto sottosegretario alla Presidenza del Consiglio con delega alle Pari opportunità a In Mezz’ora in più su Rai3 – Se queste risposte non arrivano o se Salvini farà cadere il governo, se ne assumerà la responsabilità. Ma non credo che siamo a questi livelli”, conclude Spadafora.

Anche se quello sulle adozioni è solo l’ultimo terreno di scontro tra le due anime del governo gialloverde. In particolare sul tema del Congresso delle Famiglie a Verona e dei diritti quella col ministro della famiglia Fontana somiglia molto a una guerra interministeriale: “No, è una guerra di coerenza – replica Spadafora – Sono coerente con la mia vita e le mie esperienze ed è dovuto perché ho la delega alle Pari opportunità. Una voce doverosa”. Come quella che ieri sera si è levata direttamente da Palazzo Chigi all’indirizzo di Matteo Salvini, che aveva dimenticato che il “destinatario delle delega sulle adozioni è il ‘suo’ ministro Fontana”. “Per questo c’è stato il richiamo da palazzo Chigi a stare più sulle carte, piuttosto che andare solo in giro a fare propaganda“.

Il Carroccio è alleato di governo, ma le fibrillazioni negli ultimi mesi sono aumentate. Le elezioni europee si avvicinano e i 5 Stelle sanno che per evitare di farsi fagocitare dagli alleati devono distinguersi e diversificare la loro offerta politica: “La Lega si sta spostando molto a destra, una destra che può fare paura al nostro Paese – prosegue il sottosegretario – Non credo che molte donne della Lega siano contente che la Lega abbia messo il cappello sul congresso della famiglia a Verona”. Del quale, spiega ancora, “mi preoccupa il clima di odio verso chi non la pensa in quel modo, come se fossero fuori dal mondo, invece fuori dal mondo sono loro”. Coloro che hanno dato vita a un forum che “ha dato sfogo a una serie di istinti omofobi e razzisti di cui questo Paese non ha bisogno. Come se pensassero che diminuendo i diritti di tutte le altre realtà sociali loro possano vivere meglio”.

Intanto sul fronte leghista proseguono le manovre sul nuovo tema indicato dal segretario nazionale in persona dal palco di Verona: “Domani la Lega depositerà una proposta di legge per istituire la Commissione parlamentare di inchiesta sul business delle case famiglia e per velocizzare adozioni nazionali e internazionali – si legge in una nota firmata dai capigruppo Lega di Senato e Camera, Massimiliano Romeo e Riccardo Molinari – Occorre fare chiarezza da una parte e, dall’altra, velocizzare le adozioni: ci sono migliaia di coppie in fila d’attesa da anni. Solleciteremo inoltre la calendarizzazione della nostra proposta, ferma in Parlamento da tempo, sugli asili nido gratis“.

Era stato Salvini a lanciare la campagna: “Comincerò a mettere occhio al business delle case famiglia che tengono in ostaggio migliaia di bambini per guadagnarsi dei quattrini. – ha detto sabato il vicepremier leghista – Li andremo a beccare paese per paese, città per città. Tra le 3mila esistenti ce ne sono tantissime che fanno benissimo il loro lavoro, ma c’è qualcuno che non molla il minore perché gli fattura milioni di euro. Poi sarei io il sequestratore di minori…”.

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“Non una di meno. Insieme siam venute, insieme torneremo”. Ore 9 del mattino, ex Magazzini Generali di Verona. 400 femministe dentro una sala strapiena si alzano in piedi sventolando i loro fazzoletti fucsia e si mettono a cantare. Neanche dodici ore prima erano nelle strade a protestare contro il World Congress of Families: hanno invaso la città e messo in piedi la prima reazione di massa all’evento sostenuto da associazioni antiabortiste e contro i diritti lgbtqi+. “E’ stato meraviglioso”, dicono una dopo l’altra prendendo il microfono. Hanno vinto, almeno per un giorno, e oggi si sono radunate per la prima assemblea transnazionale della storia di “Non una di meno”. E’ una tappa, un segnale. Se a meno di due chilometri di distanza sta per andare in scena la marcia della famiglia, il movimento femminista dimostra di non accontentarsi di una piazza, ma di essere già al lavoro per strutturare una lotta che possa riuscire ad avere una durata nel tempo e soprattutto effetti concreti. “Fino a questo momento”, spiega Lidia Salvatori, ricercatrice dell’Università di Leicester e attivista, “c’erano stati solo contatti individuali con le attiviste straniere. Oggi si fa un passo in più e si lavora a una rete permanente e a un grande evento alla fine dell’anno”. Per tutto il giorno, sul palco si alternano i volti del movimento femminista di tutto il mondo. In prima fila Marta Pillon, l’attivista e fondatrice di Ni una menos in Argentina. Poi decine di femministe da Polonia, Spagna, Svizzera, Francia, Bielorussia, Andorra, Inghilterra, Germania, Nicaragua, Stati uniti. E naturalmente le italiane, da Trento a Catania.

Il punto da cui partono sono le battaglie comuni: la violenza di genere e i femminicidi, ma anche le discriminazioni sul lavoro e gli attacchi delle destre che “si ripetono tutti uguali nel mondo”. Hanno storie simili alle spalle e ora vogliono fare un pezzo del cammino insieme. Hanno una consapevolezza: di tutti i movimenti che si sono sviluppati in reazione alla crisi economica in Europa, quello femminista è stato quello davvero capace di affermarsi e soprattutto essere inclusivo. “Dal 2016 a oggi”, ha esordito Francesca Milan di Non una di meno Verona, “noi abbiamo rappresentato una costante opposizione alle forze di governo. Siamo state capaci di riportare al centro della discussione non solo la violenza di genere e il patriarcato, ma anche il discorso sull’autodeterminazione delle donne”. Lo sciopero dell’8 marzo, condiviso e partecipato in tutto il mondo, è stato un passaggio fondamentale: “La dimensione transnazionale dello sciopero ha fatto fare un salto al movimento perché ci ha fatto discutere di lotta. Non siamo più disposte a fare compromessi, non siamo qui per resistere, ma per cambiare l’esistente”. E’ solo uno dei tanti slogan emersi durante il giorno, ma le femministe garantiscono che dietro c’è un piano concreto: “La rete trasnazionale è la nostra forza”, chiude Francesca. “Se rinsaldiamo i nostri contatti, la lotta femminista sarà globale e porteremo a casa più risultati”.

L’assemblea è durata più di cinque ore e ha visto decine di interventi. Tra le più seguite e ascoltate c’è stata naturalmente Marta Dillon. Proprio lei, una dello voci più autorevoli, ha deciso di aprire la discussione su alcune delle questioni critiche con cui Nudm deve fare i conti: “Vorrei”, ha detto, “che riflettessimo anche su quello che ancora non siamo riuscite a fare. Ad esempio: non siamo riuscite a elaborare una forma di organizzazione politica che si possa immaginare senza meccanismi di rappresentanza”. E questo, per Dillon, nel concreto significa che il movimento “deve interrogarsi su cosa significa potere” e su che tipo di uso vuole farne. L’altro punto sollevato è quello della capacità di contrapporre alla “pedagogia del patriarcato una pedagogia femminista”, ovvero un’educazione che riconosca “le une e le altre”. Infine Dillon ha parlato di chi mancava nell’assemblea di Verona: “Qui tra noi oggi mancano donne migranti e trans. Il movimento femminista non può essere tale senza la presenza della soggettività subalterne che sono sotto attacco”. Quindi ha fatto un appello: “Ricordatevi del Sud del mondo, ancora troppo spesso dimenticato”.

C’è poi un asse con l’Est che va dall’Italia e arriva in Polonia, Russia e Bielorussia: come i fedelissimi del governo polacco o russo hanno preso parte al WCF, così le attiviste dei vari Paesi hanno iniziato a dialogare. Per la Polonia in assemblea ha parlato Elisabeth, attivista del Women’s strike, e ha voluto dare tre spunti di riflessione alle compagne. “Chi ci combatte sa usare molto bene i social network e usa messaggi rassicuranti. Li ho sentiti parlare al WCF e accordarsi per fare un post con l’immagine della famiglia all’ora di cena. Usano il nostro linguaggio”, ha detto interrotta dagli applausi. “Ma la realtà è diversa e noi dobbiamo riuscire a rovesciare la loro retorica. La difesa della famiglia tradizionale si traduce in donne che soffrono, donne che non possono non fare figli e donne che non sono accettate. Dobbiamo ricordarlo ogni giorno all’opinione pubblica”. Per l’attivista polacca la questione va oltre e lei è l’unica ad aver avuto il coraggio di pronunciarla ad alta voce di fronte alla sala: “Il nostro problema è che non abbiamo una rappresentazione politica. Penso alla Polonia e all’Italia, dove governa la destra. E la sinistra fa schifo in quello che sta facendo”. E non basta, ha detto Elisabeth, stare nelle strade o nelle manifestazioni: “Dobbiamo essere più forti, mettere più pressione sui politici”, è stato il suo appello. “E dobbiamo cercare una rappresentanza. Se continuiamo a essere confinati nel luogo di quelli che non hanno potere, continueremo a non essere ascoltate”. Le attiviste applaudono, non tutte sono d’accordo, ma il dibattito è aperto e nei prossimi mesi cercheranno di svilupparlo. Oggi, intanto, senza voce e con l’adrenalina ancora in circolo, si godono la festa fino all’ultimo coro: “Insieme siam partire, insieme torneremo. Il corpo ci appartiene. Non una, non una, di meno”.

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