marzo 2020

Siamo arrivati al picco, ma ci vorrà ancora del tempo prima di iniziare la discesa. Non si sa quando l’Italia uscirà dall’emergenza coronavirus e, mentre il governo si appresta a prorogare le misure restrittive e valutare un piano per la riapertura, emerge un nuovo scontro tra Regioni e Viminale sull’interpretazione degli attuali provvedimenti. Provvedimenti che, come ha sottolineato il capo della Protezione civile, Angelo Borrelli, intervistato dal Corriere della Sera, restano fondamentali: “Ora la situazione nei territori del nord resta la più drammatica, ma il sud è ancora a rischio. Nessuno può e deve pensare di poter abbassare la guardia: il virus ha dimostrato di poter attraversare oceani e continenti”.

Gallera: “Spero cittadini ignorino Viminale” – “Spero che i cittadini ignorino questa folle, insensata e irresponsabile circolare, che stiano a casa e organizzino giochi con i propri figli”. Lo ha ribadito l’assessore al Welfare della Lombardia, Giulio Gallera, in merito al provvedimento del Viminale che autorizza la passeggiata genitori-figli “se vicino casa”. Come Lombardia, ha aggiunto Gallera, “vedremo se c’è la possibilità di emanare ordinanze che la vanifichino. Lo valuteremo con il presidente Attilio Fontana“, ha spiegato in collegamento con Italia 7 Gold.

Crimi: “Vale solo per i bambini” – “Non c’è alcun allentamento dei controlli” e la circolare del Viminale si riferisce ai bambini molto piccoli quelli per cui “uscire è una necessità“, non certo “a un 15enne”. Lo chiarisce il viceministro agli Interni e capo politico M5s Vito Crimi a Radio Anch’io su Rai Radio 1. “Deve essere chiaro: non possiamo far pagare quello che sta accadendo ai bambini piccoli” che non possono essere “vittime dell’isolamento”. “In questo momento non dobbiamo parlare di tempi di riapertura ma di stare a casa: c’è qualche miglioramento dell’evoluzione dell’epidemia” ma per riaprire “dobbiamo vedere la luce”, ha precisato ancora Crimi.

Borrelli: “Mascherine? Efficiente rete di distribuzione” – Per Borrelli è certo che “senza le misure messe in campo dal governo, le nostre strutture ospedaliere avrebbero sofferto molto di più e oggi conteremmo un numero di morti decisamente superiore” rispetto alle oltre 12mila vittime attuali. Il capo della Protezione civile interviene anche sulle polemiche con le Regioni, ultima quella sulle mascherine: “L’apertura di nuovi canali di approvvigionamento e la collaborazione con Domenico Arcuri ha permesso di far arrivare in Italia quantitativi importanti di Dispositivi di protezione. Grazie anche al personale della Difesa siamo riusciti a mettere in piedi un’efficiente rete di distribuzione dei materiali”, spiega Borrelli. Che poi aggiunge: “Non esiste un’emergenza ‘a criticità zero‘, l’importante è essere in grado di rispondere e superare tempestivamente le difficoltà”.

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Ci sono momenti della recente storia americana in cui la vendita delle armi conosce un’improvvisa impennata. Succede di solito dopo un massacro, una strage di massa, quando l’indignazione popolare contro pistole e fucili cresce e una parte dei politici minacciano di votare restrizioni alla loro vendita. Non succede mai nulla ma comunque migliaia di americani si precipitano nei negozi e in Rete per rivendicare il loro sacro diritto al Secondo Emendamento. Comprano armi, mentre il ricordo della strage, lentamente, si dissolve. In attesa, di solito, della successiva.

Più raro che sia un’epidemia globale a scatenare la corsa alle vendite. Eppure è quello che sta succedendo in questi giorni negli Stati Uniti. L’angoscia, il senso di incertezza sul futuro hanno di nuovo scatenato la corsa agli acquisti. Ci sono alcuni dati che rivelano l’ampiezza del fenomeno. I background checks, i controlli preventivi su chi compra un’arma, sono aumentati dal 1 gennaio al 13 marzo 2020 del 300 per cento rispetto allo stesso periodo del 2019. Non c’è comunque bisogno dei numeri ufficiali per farsi un’idea di quello che sta accadendo. Le scorse settimane file lunghissime si sono formate all’esterno di alcune rivendite di armi a Los Angeles. I proprietari delle rivendite confessavano di aver venduto oltre trecento tra armi e fucili in una sola settimana. Stessa situazione in altre aree della California, in Alabama, in Ohio, nello Stato di Washington.

Probabilmente non è solo l’incertezza scatenata dal Covid-19 a spiegare il fenomeno. In questi mesi si svolgono le primarie democratiche, con le inevitabili promesse dei candidati democratici di introdurre il gun control a livello federale. E ci sono alcuni Stati, per esempio la Virginia, pronti a votare leggi restrittive del diritto di portare un’arma. L’emergenza coronavirus ha però fatto esplodere tutto. “Gli americani vogliono esercitare il diritto che gli viene da Dio di portare un’arma e di proteggere le loro famiglie”, ha spiegato Mark Oliva, portavoce della National Shooting Sports Foundation (NSSF), il gruppo che fa attività di lobby a favore di produttori e rivenditori. Il ragionamento è sostanzialmente questo: il coronavirus porterebbe a una disintegrazione dell’ordine pubblico. Furti, saccheggi, omicidi. Il senso di rottura della legalità sarebbe totale. Da qui il bisogno di ogni americano di difendersi in proprio, senza aspettare l’intervento della forza pubblica.

In questi giorni proprio la NSSF sta facendo opera di lobby a Washington e nei singoli Stati per permettere a negozi, manifatturieri, poligoni di tiro di continuare a lavorare nonostante l’emergenza. L’obiettivo è definire questi servizi come “essenziali”, in modo non diverso dai negozi di cibo, dalle farmacie, dai benzinai. Ovviamente, i produttori di armi con contratti pubblici sono già considerati essenziali – e continuano quindi a lavorare. Il problema si pone per tutti gli altri. Perché a un negozio dovrebbe essere permesso di continuare a vendere munizioni, mentre ristoranti e bar sono chiusi? Perché un poligono di tiro dovrebbe poter continuare ad operare, mentre palestre e piscine non lavorano?

“Siccome non viviamo nel West selvaggio, dove la gente deve procurarsi il cibo con i fucili – e siccome abbiamo una polizia che funziona – è difficile articolare una ragione vera perché i negozi di armi debbano essere considerati servizi essenziali”, ha detto il sindaco di San Jose, Sam Liccardo. Il problema è che come spesso accade in queste occasioni – e l’emergenza coronavirus ha messo in luce nel modo più drammatico la mancanza di coordinamento tra governo centrale e Stati – ognuno va per conto proprio. Ci sono, al momento, 19 Stati che hanno emanato forme diverse di restrizioni per i propri cittadini. Ohio, Kentucky, Illinois e Connecticut hanno deciso di tenere aperti i negozi di armi, scegliendo però di chiudere quasi tutto il resto. New York, New Jersey e Massachusetts hanno invece scelto di fermare temporaneamente la vendita di pistole e fucili.

Il caso più paradossale è quello della contea di Los Angeles, dove lo sceriffo ha chiuso tutti i negozi di armi dopo che lo Stato aveva emanato l’ordine di “stay at home”. Su consiglio del proprio ufficio legale, spaventato da possibili cause, lo sceriffo ha quindi riaperto i negozi. Le autorità della contea stanno valutando il prossimo passo, ma il rapido dietrofront a Los Angeles rivela la forza delle pressioni che sulla politica stanno arrivando dalla lobby delle armi. Lawrence Keane, vice presidente della NSSF, ha scritto al Department of Homeland Security chiedendo che il governo federale usi la definizione di “infrastrutture critiche” per l’intero sistema (compresi quindi i poligoni di tiro).

Cibo, acqua, un riparo e un’assistenza medica adeguata sono fondamentali per la sopravvivenza”, ha spiegato Keane – ma lo è pure la possibilità per l’individuo di difendere se stesso, la propria casa, i propri affari, la propria proprietà”. Alcuni tra gli stessi sostenitori del gun control mostrano come il momento sia particolarmente difficile e come ogni scelta implichi dei rischi. David Chipman del “Giffords Law Center to Prevent Gun Violence” racconta che mettere delle armi nelle mani di persone senza una vera preparazione – e in un periodo in cui ognuno di noi è soggetto a tensioni enormi – potrebbe essere una scelta disastrosa. C’è però l’altro lato della medaglia. Chiudere i negozi potrebbe alimentare il mercato nero e quindi diminuire i controlli su vendite e acquirenti.

Il dibattito quindi continua e probabilmente continuerà, senza una vera decisione, fino alla fine dell’emergenza. Non c’è questione della vita americana che si sia rivelata più ostica, intoccabile, irriducibile delle armi. Qualche giorno prima di abbandonare la Casa Bianca, Barack Obama disse che “la frustrazione più profonda della mia presidenza è stata non essere in grado di far passare una legge sul gun control”. Non c’è stato massacro – Las Vegas, Orlando, Virginia Tech, Sandy Hook – che sia stato capace di smuovere la politica americana. Non c’è stata categoria o numero di vittime – i bambini di una scuola elementare, i frequentatori di un concerto, studenti universitari, gay, fedeli di una chiesa battista – le cui vite siano servite a far passare uno straccio di legge. La discussione quindi andrà avanti ma ogni Stato e contea farà per sé fino a quando l’emergenza Covid-19 si placherà.

Del resto il coronavirus oggi, in America come altrove, funziona da detonatore di ansie, angosce, tensioni chiuse da sempre nel cuore profondo della nazione – e che non aspettano altro che essere portate alla luce. “Quando ti dicono che il coronavirus è un fantasma nascosto che prima o poi ti colpirà, quando TV e media non fanno altro che parlarne, beh, la gente ci crede e si spaventa”, diceva un camionista in pensione, in fila fuori da un negozio di Lenoir, North Carolina, per comprare 300 cartucce per il suo AR-15.

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Il Coronavirus ha momentaneamente cambiato le abitudini degli italiani e stravolto i numeri delle vendite di alcuni prodotti, mettendo le aziende davanti alla necessità di rispondere in modo adeguato. Volano, sia per l’Italia che per l’esportazione, le richieste di farina e pasta, come quelle delle conserve di pomodoro, solo per fare alcuni esempi. Il lievito è quasi introvabile persino nella grande distribuzione organizzata, che continua a reggere il colpo, nonostante sia messa a dura prova dai picchi nelle vendite registrate soprattutto negli ultimi tre fine settimana. “Conosco un panificio molto noto – racconta a ilfattoquotidiano.it il presidente di Federalimentare Ivano Vacondio – che prima caricava 100 tir al giorno e ora ne carica 300”. Di esempi ce ne sono tanti: in alcuni settori le richieste sono aumentate per tutti. E se alcune aziende raddoppiano i guadagni perché ne hanno i mezzi, non tutte sono in grado di rispondere alla crescente domanda.

DALLE MAGGIORI RICHIESTE… – Quella di pasta abruzzese De Cecco è cresciuta del 25% tra febbraio e marzo, tanto che gli stabilimenti di Fara e Ortona hanno sfornato 70mila tonnellate di pasta in più rispetto allo stesso periodo dello scorso anno, per un totale di 340mila tonnellate. Ma le linee di produzione sono sotto pressione. “Nei primi tre mesi dell’anno abbiamo registrato un incremento notevole delle vendite rispetto al pari periodo del 2019” spiega a ilfattoquotidiano.it Giorgio Lecchi, direttore industriale del Gruppo Mutti. Questa variazione positiva è generata, in gran parte, dal canale retail e, quindi, dalle vendite alla Gdo, mentre ovviamente rallenta il canale Horeca che comprende hotel, bar e ristoranti. “Aumentano ordini e spedizioni – continua – con un conseguente maggior volume da gestire, che ha impattato su tutta l’organizzazione della filiera logistica aziendale, sia interna che esterna”. L’incremento delle attività è stato gestito adeguando gli orari di lavoro e il numero di risorse necessarie. “Dal punto di vista produttivo – aggiunge Lecchi – siamo invece intervenuti rimodulando i programmi in funzione dei prodotti maggiormente richiesti, comunque avendo molte linee produttive in funzione, più del solito se consideriamo il periodo per noi di fuori stagione. La nostra produzione, infatti, si concentra essenzialmente nel periodo estivo, in linea con la stagionalità del nostro prodotto”.

…GLI AUMENTI AI DIPENDENTIGuanti, mascherine (“compatibilmente con la scarsa reperibilità”), ingressi scaglionati, colonnine con gel disinfettante, misurazione della temperatura corporea, turni ad hoc e smartworking per tutti i dipendenti che possono e istituzione di un Comitato Covid19, sono alcune delle misure prese per la sicurezza dei lavoratori. Il gruppo Mutti, oltre all’attivazione di una copertura assicurativa extra, ha disposto poi una maggiorazione del 25% sulla retribuzione di coloro che, anche in questi giorni stanno permettendo all’azienda la continuità produttiva. Lo ha fatto anche il pastificio veronese Giovanni Rana, aumentando lo stipendio ai suoi 700 dipendenti del 25% per ogni giorno lavorativo e concedendo un ticket mensile straordinario di 400 euro per supportarli nel pagamento delle spese di babysitting.

COSA SI VENDE DI PIÙ – Le analisi condotte da Nielsen sui giorni dal 16 al 22 marzo confermano per la quarta settimana consecutiva la crescita delle vendite della Grande distribuzione organizzata ed evidenziano i tre effetti che stanno guidando gli acquisti degli italiani: l’effetto stock, l’effetto ‘prevenzione e salute’ e l’effetto ‘resto a casa’. Per quanto riguarda la necessità di fare la scorta, volano soprattutto le vendite di farina (+186,5%), conserve rosse (+50,8%), burro (+79,7%), riso (+37,9% dopo il +71,2 della settimana precedente), pasta (+22,6% dopo il +65,3 della settimana prima), latte a lunga conservazione (+34,1, era 62,2% la settimana prima), uova (+53,7%). Aumenta in modo esponenziale, dunque, la vendita di prodotti essenziali per chi, alle prese con un isolamento obbligato in casa, si cimenta nella preparazione di pizze, rustici, torte e dolci di vario genere. Il secondo effetto, quello dovuto alla richiesta di prodotti che aiutino a proteggere dal contagio, ha portato a record assoluti nelle vendite di alcuni articoli: in primis guanti (+263,7%), salviettine umidificate (+68,6%), alcol denaturato (+116,4%). Infine, c’è l’effetto “resto a casa”: si vendono più affettati (+28,1%), mozzarelle (+44,6%), patatine (+25,7%), ma anche il cosiddetto ‘comfort food’, come spalmabili dolci (+61,3%) e pizza surgelata (+45,7%).

L’EMERGENZA CON IL CANTIERE APERTO – A Predazzo (Trento), in Val di Fiemme, il pastificio Felicetti ha appena affrontato un investimento da 35 milioni di euro (anche con la collaborazione delle istituzioni locali) con il quale si prevede di raddoppiare la capacità produttiva dagli attuali 22mila a 44mila tonnellate di pasta l’anno, attraverso la realizzazione di un nuovo stabilimento nella vicina Molina di Fiemme. Un investimento che, se da un lato ha aiutato l’azienda nell’emergenza (sono stati partite alcune delle assunzioni previste per il sito ancora in cantiere), “dall’altro – spiega a ilfattoquotidiano.it Riccardo Felicetti, che gestisce l’impresa di famiglia insieme a due cugini – se tutto questo fosse accaduto l’anno prossimo, saremmo stati più preparati”. Il nuovo sito, infatti, doveva essere pronto fra qualche mese e la nuova produzione sarebbe partita entro la fine dell’anno. “Stiamo facendo il possibile, ma è da febbraio che le richieste si sono moltiplicate – spiega Felicetti, presidente dei Pastai italiani – prima da Cina, Giappone e Corea, poi sono arrivate sollecitazioni da Italia, Germania, Regno Unito e ora si sono aggiunti anche gli Usa. Per tutti la pasta è considerata un ‘bene rifugio’, per una serie di ragioni, che vanno dalla possibilità di conservarla a lungo alla facile fruibilità”. Per l’azienda, d’altronde, l’export rappresenta il 70% circa del fatturato da 37 milioni di euro e, oggi, in generale, le richieste sono triplicate rispetto al solito.

FELICETTI: “IL FLUSSO DA ACCAPARRAMENTO NON È SOSTENIBILE” – Questo non vuol dire che si riesca a far fronte all’aumento di ordini. “Eravamo già saturi ed è per questo che abbiamo deciso di costruire un nuovo stabilimento. Sarebbe stato diverso se fosse stato avviato. Stiamo facendo il possibile per gestire tutti i clienti, in modo da garantire i rifornimenti – spiega Felicetti – ma un flusso di ordini da accaparramento non è sostenibile”. Di fatto il fatturato non si è triplicato, ma è aumentato di circa il 10 per cento. “Abbiamo assunto le prime 15 persone previste per il nuovo stabilimento, così da gestire meglio i turni e le macchine lavorano h24 e sette giorni su sette, anche grazie a mugnai e autotrasportatori – aggiunge – che garantiscono i rifornimento di semola, cartoni e tutti i prodotti della filiera”. Ed è proprio per la filiera che si teme. “Se i benzinai scioperano o si ferma la fabbrica che produce la molla di una pressa impastatrice – sottolinea – io quella macchina la devo fermare”.

LA GESTIONE DELL’EMERGENZA IN AZIENDA – Ma come si sta facendo fronte a questa situazione sul fronte della sicurezza? “Già a febbraio – spiega l’imprenditore – abbiamo iniziato a programmare un aumento delle procedure di sicurezza interne all’azienda. Da questo punto di vista, le imprese alimentari sono privilegiate, perché già in condizioni normali devono prevedere rigide procedure di sicurezza per il prodotto e gli operatori sono formati”. Basti pensare all’utilizzo di mascherine, guanti e camici supplementari. “Abbiamo le scorte – racconta Felicetti – e questo ci ha consentito di non dovere andare alla rincorsa di queste protezioni, anche se tutto finisce. Stanno arrivando, infatti, attraverso Confindustria Trento, altre 2mila mascherine”. Lavorano con lo smart working tutte le professionalità non operative nello stabilimento. “Abbiamo costituito dei team in azienda per gestire un numero più limitato di persone per ogni turno di lavoro, cercando di garantire la produzione senza aumentare il rischio per il prodotto e per i nostri lavoratori” aggiunge l’imprenditore. Si è così passati da 80 persone attive su tre turni a 15 per turno. “Lavorano in uno stabilimento di 6mila metri quadrati coperti – sottolinea Felicetti – divisi per quattro aree (controllo qualità, produzione, confezionamento e magazzino e spedizione). Parliamo di spazi molto ampi tra le persone, con tutti i dispositivi di sicurezza personale a disposizione”.

L’EXPORT CHE RALLENTA – Per quanto riguarda l’export, poi, il discorso è ancora di più legato anche alla logistica. “I parchi macchina delle aziende di autotrasporto sono ridotti del 30%, mentre il fatto che ci sia meno merce da trasportare (eliminati i prodotti delle industrie non strategiche) fa aumentare i costi perché si fanno viaggi con i camion vuoti” spiega Felicetti. A ilfattoquotidiano.it il presidente di Federalimentare Vacondio spiega che, nonostante la Commissione europea abbia stabilito che le merci debbano circolare in Ue, “c’è stato qualche rallentamento nel trasporto su gomma, a causa dei controlli alle frontiere”. Questo significa che le produzioni non arrivano all’estero? “Mi sono arrivate segnalazioni dal Regno Unito – racconta Vacondio – riguardo a ritardi nell’arrivo di alcune produzioni”. Tutto questo, in concomitanza con la corsa ai supermercati che si è scatenata anche in Gran Bretagna, dopo l’introduzione di misure più restrittive. Sono andati a ruba prodotti a lunga conservazione, come pasta e passata di pomodoro, che devono arrivare proprio dal nostro Paese e che sono venuti a mancare sugli scaffali dei supermercati.

MA NON SI FERMA – “Arriverà tutto – spiega Vacondio – anche se un po’ in ritardo rispetto al solito e questo è dovuto proprio al rallentamento del trasporto su gomma”. Ma è solo una questione logistica a provocare questi rallentamenti? “Diciamo che la corsa ai supermercati (e siamo alla terza settimana) non aiuta – commenta il presidente di Federalimentare – ed è per questo che lancio un appello i consumatori. Ad oggi riusciamo a tenere il passo, ma queste corse mettono sotto stress non solo industriali e imprenditori, ma tutti, dai dipendenti alle cassiere”. E se si riesce a tenere il passo delle produzioni alimentari “il rischio – spiega Vacondio – è di registrare qualche difficoltà sul resto della filiera”.

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Riavvolgiamo il nastro di un mese e mezzo. All’ospedale Pesenti-Fenaroli di Alzano Lombardo, nel reparto di Medicina interna del terzo piano, è ricoverata una signora. Diagnosi: scompenso cardiaco. È lì dal 12 di febbraio, il decorso dovrebbe essere breve, eppure col passare dei giorni accusa febbre. Poi problemi respiratori. Nella notte tra il 21 e il 22 dello stesso mese, la situazione precipita. Suo figlio accorre e, per la prima volta, si trova circondato da medici e infermieri con le mascherine. Sua mamma morirà alle due di notte. Camera ardente, con centinaia di persone, e funerali in paese, a Villa di Serio, in forma privata. C’è anche il papà, con l’influenza da qualche giorno, che morirà a causa del coronavirus il 13 marzo, al Papa Giovanni XXIII.

Nel Bergamasco l’epidemia di Covid-19 è esplosa, letteralmente, a fine febbraio. A oggi risulta la provincia italiana col maggior numero di contagi (8.803) in rapporto alla popolazione, nonostante i tamponi vengano fatti solo a chi ha già una sintomatologia grave; col maggior numero di decessi (2.060), sebbene sia risaputo che i report ufficiali sono largamente sottostimati; e risulta, anche, la provincia col personale sanitario più colpito. In pratica, è seconda solo a Wuhan, dove tutto è cominciato. Tra il primo decreto-legge del Consiglio dei ministri (23 febbraio) e la “chiusura” della Lombardia (8 marzo), a dispetto dei dati che crescevano senza freni, è sfumata la creazione di una zona rossa lungo l’asse Albino-Nembro-Alzano Lombardo, il focolaio bergamasco. La Regione Lombardia ha sempre sostenuto di averla chiesta al governo e che questi, però, non avesse mai risposto. La verità è che il presidente Attilio Fontana, insieme alla sua giunta, avrebbe avuto il potere di adottare misure più stringenti. Così hanno fatto, per esempio, la Campania e l’Abruzzo, con rispettivamente cinque e sei comuni; il Lazio, con il caso di Fondi; l’Emilia-Romagna, con Medicina (Bologna). Nemmeno il governo ha voluto istituire la zona rossa nel Bergamasco, preferendo estendere, a partire dall’11 marzo, la zona arancione in tutto il Paese. Detto ciò, non ci sono dubbi sul fatto che il virus circolasse nel Nord Italia già, almeno, dalla fine di gennaio. Eppure, riavvolgendo di nuovo la traccia del film, emergono scelte che ne hanno facilitato la diffusione. Scelte che, terminata l’emergenza, varrà la pena approfondire.

LA “MISTERIOSA” CHIUSURA DEL PESENTI-FENAROLI – Scendendo lungo i tornanti che collegano Selvino alla Valle Seriana, in direzione sud-ovest, sulla sponda destra del fiume Serio, si apre alla vista Alzano Lombardo. La sera del 23 febbraio, domenica, da lassù si distinguono perfettamente le luci blu montate sulle auto delle forze dell’ordine. L’ospedale è transennato, nessuno vi può accedere. Che cosa è successo di così rilevante, quel giorno, da giustificare la chiusura della struttura? Due pazienti sono risultati positivi al tampone. Nell’orario di visita, poco dopo le 13, c’è già un reparto chiuso. Quale? Proprio quello di Medicina interna, al terzo piano, dove si trovava la signora deceduta nella notte tra il 21 e il 22 febbraio. Tra i positivi c’è Ernesto Ravelli, il primo bergamasco morto ufficialmente per coronavirus, che era stato ricoverato (e poi sottoposto a intervento) lì. L’ospedale, chiuso dal pomeriggio, riapre a tarda sera. Con “nessun intervento di sanificazione” o con “uno scarso intervento di sanificazione“, come abbiamo avuto modo di ricostruire da diverse fonti del personale dell’Asst Bergamo Est, e senza un triage differenziato o percorsi alternativi di accesso al pronto soccorso. L’indomani, lunedì, le attività proseguono: prelievi, interventi in sala operatoria, visite in ambulatorio. “Nessuno ci ha detto di metterci in autoisolamento“, ci racconta l’uomo di Villa di Serio a cui è morta la mamma nella notte tra venerdì e sabato. “Non siamo stati contattati nemmeno per il tampone. Abbiamo ripreso le nostre vite, normalmente”. “Sindacati dei medici e operatori sanitari hanno chiesto chiarimenti, ma non hanno ricevuto risposte”, afferma Niccolò Carretta, consigliere regionale bergamasco del gruppo Lombardi Civici Europeisti, che oggi ha depositato una serie di interrogazioni rivolte a Giulio Gallera. “Per quale motivo la situazione, all’interno dell’ospedale, è stata sottovalutata?” domanda, “perché i medici militari sono arrivati solo dopo 20 giorni dall’esplosione dell’epidemia?”.

LA CACCIA ALLE MASCHERINE – “A Bergamo, così come a Brescia e Lodi, i dispositivi sanitari per proteggere il personale medico in quei giorni sono pochissimi“, ricostruisce Michele Usuelli, medico di Terapia intensiva neonatale e consigliere regionale di +Europa, “specialmente in quegli ospedali non abituati ad avere a che fare coi virus e privi del reparto di Infettivologia“. Il 25 di febbraio, quando l’emergenza sanitaria è già esplosa nel Lodigiano e nella Bergamasca (ed era nero su bianco dal primo del mese sulla Gazzetta ufficiale), i vertici di Regione Lombardia decidono di centralizzare l’acquisto dei Dpi tramite il braccio armato Aria spa. E a quel punto viene premuto un bel “reset” alle forniture già predisposte dalle singole aziende ospedaliere. “Da lì la palla è passata, almeno nella prima settimana, alla Protezione civile“, continua Usuelli, “con la conseguenza che reperire le mascherine è stato più complicato“.

IL GOVERNO DICE: “SEGUITE L’OMS” – Negli ospedali di Bergamo, intanto, il virus corre tra le corsie. Mentre dalle porte d’ingresso entrano ed escono persone asintomatiche, i reparti non vengono resi impermeabili. Gli stessi operatori sanitari continuano a lavorare anche se hanno influenza e tosse. Nonostante ciò, almeno in un primo momento, nei nosocomi dell’Asst Bergamo Est (il già citato Alzano Lombardo, Piario, Lovere e Seriate), grazie agli sforzi della direzione medici e infermieri del pronto soccorso dispongono delle mascherine Ffp2 e Ffp3. Dal 2 di marzo, tuttavia, le cose cambiano. Col decreto-legge n.9 il governo, all’articolo 34, stabilisce che “è consentito fare ricorso alle mascherine chirurgiche, quale dispositivo idoneo a proteggere gli operatori sanitari; sono utilizzabili anche mascherine prive del marchio CE previa valutazione da parte dell’Istituto superiore di sanità”. In pratica, da quel giorno, l’esecutivo dà il proprio assenso all’utilizzo di dispositivi, da parte del personale sanitario, che non fermano l’infezione. L’indicazione era stata data il 27 di febbraio dall’Organizzazione mondiale della sanità. Nel report intitolato Rational use of personal protective equipment for coronavirus disease 2019 (Covid-19), l’Oms sosteneva che per visitare pazienti sospetti o già risultati positivi fossero sufficienti le mascherine chirurgiche a quattro strati. La ratio dell’indicazione, sapendo che la protezione non fosse affatto garantita, era una e una sola: sapere che la produzione di Ffp2 e Ffp3, a livello mondiale, non avrebbe soddisfatto la domanda dei singoli Paesi alle prese con l’epidemia. Il risultato, come è stato spiegato a ilfattoquotidiano.it da più di un operatore sanitario, è che in molti ospedali il personale inizia a entrare in contatto coi pazienti indossando le mascherine chirurgiche. C’è di più: medici e infermieri dell’Asst Bergamo Est condividono gli spazi con colleghi positivi.

IL VIRUS IN SALA OPERATORIA – “Da noi non succede affatto”, racconta una fonte qualificata dell’ospedale Papa Giovanni XXIII, dove sono ricoverati quasi 500 pazienti Covid. “Si usano le Ffp3 per le procedure che generano aerosol, le Ffp2 per le visite”. Ciò che però ha messo a rischio l’intero sistema è stata l’attività operatoria. Fino a metà marzo, infatti, veniva garantita una percentuale cospicua degli interventi. Poi, a fronte di una situazione che non accennava a migliorare, la direzione ha deciso di ridurre al minimo il ricorso alla sala operatoria. “Andava chiuso tutto subito, a eccezione delle urgenze indifferibili. Già dall’1 marzo eravamo consapevoli che fosse esplosa una bomba”. Al contrario, l’attività della sala operatoria ha aumentato le probabilità di diffusione del contagio tra i parenti dei pazienti – che entravano in ospedale – i degenti e il personale. E a proposito di precauzioni “saltate” nel corso della gestione della crisi, è emblematico il caso della tenda di pre-triage montata all’esterno tra il 23 e il 24 di febbraio: è vuota. E non è mai entrata in funzione.

Twitter: @albmarzocchi

L'articolo Coronavirus, dalla chiusura “anomala” di Alzano all’errore sui presidi sanitari: cosa è successo negli ospedali di Bergamo proviene da Il Fatto Quotidiano.



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Sorpresa, il Servizio sanitario nazionale non è più universale, solo che non ce l’hanno detto. Questione di tempi, di modi, ma soprattutto di scelte, scelte importanti che non sono neanche state verbalizzate e meno che mai condivise. È qui il nocciolo di quella che lunedì il Forum del Terzo Settore insieme a Ledha, Uneba Lombardia e Alleanza Cooperative Italiane-Welfare Lombardia, ha definito, denunciandola, “strage degli innocenti” in riferimento alla mancanza di presa in carico, da parte della sanità lombarda, dei pazienti più fragili che vengono contagiati dal covid. Tanto che nelle sole case che ospitano anziani non più autosufficienti, le Rsa, si prevedono almeno 6mila morti.

Territorio non presidiato – “Dal nostro punto di vista il territorio andava presidiato prima, capisco l’urgenza degli ospedali, penso che nessuno di noi sia così sciocco da non capirlo, però bisogna essere in grado di fare entrambe le cose, perché se il territorio non viene messo in sicurezza, diventa luogo di contagio e se continuiamo a non presidiarlo, gli ospedali non smetteranno mai di avere pazienti ricoverati”. Valeria Negrini, presidentessa di Confcooperative – Federsolidarietà Lombardia e vicepresidente nazionale con delega al welfare, sa di cosa parla. “La situazione degli ospedali in Lombardia rispetto a quello che viene descritto sui media, è una cosa che nessuno se non sta qua riesce ad immaginare. Però credo che un’istituzione debba essere in grado di presidiare tutto: insieme all’emergenza ospedaliera bisognava pensare a come sostenere le strutture, perché si tratta di organizzarle in maniera diversa, non basta una circolare che dice che devo osservare tutti i protocolli”, dice schietta. Bresciana doc, è anche portavoce del Forum del Terzo settore Lombardia e ha seguito sul campo l’evoluzione dell’epidemia di Covid-19 in Regione, specialmente nelle strutture per i più fragili come le residenze sanitarie assistenziali (Rsa) per anziani.

“Rischiamo 10mila morti” – “Evidentemente il ritardo c’è ed è pesante, non soperché si comincia solo adesso a mettere la testa sul territorio, però questo è il fatto”, sottolinea a ilfattoquotidiano.it a poche ore da un incontro in videoconferenza con la Regione. Il primo, ottenuto il 30 marzo scorso, a più di un mese dall’inizio dell’emergenza. “In Lombardia abbiamo circa 60mila posti di Rsa accreditate e credo che alla fine di questa vicenda in difetto ne avremo perso almeno il 10%, ma se non vengono prese delle misure diverse, rischiamo di arrivare anche al 13-15%”, dice parlando di “dati impressionanti” e, con un forte accento bresciano, sottolinea come “pensare che lì non potesse entrare un contagio è stato sottovalutare il problema e infatti il contagio è arrivato”.

“Qualcuno si salva, si fanno miracoli” – Negrini racconta di operatori “fortemente responsabili che pensano che la persona vale qualcosa anche se ha 89 anni. C’è chi fa il suo lavoro con una generosità e una consapevolezza veramente encomiabile”. Spiega che, “ci sono persone anziane che guariscono e non moriranno tutti, però il rischio è veramente alto: il 10% sono più di 6mila persone in Lombardia e il 15 sono quasi 10mila persone. Sono tantissime. E molte non vengono nemmeno conteggiate”. Contrariamente a quello che pensiamo noi osservatori esterni, però, qualcuno si salva perché “le Rsa stanno facendo i miracoli. Stanno cercando di ricavare delle stanze apposite per separare i sani dai contagiati, di evitare in tutti i modi il propagarsi del contagio”. E stanno chiedendo, “a volte lo ottengono a volte no”, di fare i tamponi in maniera più sistematica, agli ospiti ma anche agli operatori… È chiaro che si può essere negativi un giorno e positivi un altro, ma i tamponi “vanno fatti in maniera sistematica, perché non si può rischiare di portare ulteriori malattie all’interno delle Rsa”.

La riunione in Regione un mese dopo – Eppure la Lombardia l’8 marzo ha chiesto alle strutture di accogliere i pazienti covid che sono stati dimessi dagli ospedali. E qui “si è aperta la polemica con la Regione, perché se le Rsa devono accogliere i pazienti covid o devono curare i propri pazienti covid in Rsa e non li possono portare in ospedale, allora le Rsa devono essere dotate dei farmaci adeguati e dei medici in grado di fare questo lavoro”. Il tema è stato finalmente trattato lunedì nel corso di un incontro con l’assessorato di Giulio Gallera, che ha convocato le rappresentanze degli enti gestori del sistema socio sanitario accreditato. “È proprio l’organizzazione che non funziona, abbiamo detto tutti che purtroppo siamo arrivati un po’ in ritardo, però ora vediamo di fare tutto il possibile e di lavorare meglio. Se continuerà a mancare la possibilità di somministrare farmaci adeguati in Rsa alla presenza di medici in grado di capire gli effetti di questi farmaci su persone fragili, se non ci sarà la possibilità di accedere a consulenze qualificate, nelle strutture drammaticamente continueranno a mancare delle persone”. La promessa è stata di un nuovo inizio anche a favore del sociosanitario. Nessuna marcia indietro, però, sulla richiesta di accogliere i pazienti covid, ma la garanzia di voler mettere le strutture in condizione di assistere anche queste persone.

“Si è deciso senza dirlo che non tutti hanno diritto alle cure” – Resta fuori un punto fondamentale, come nota l’avvocato Luca Degani che presiede l’Unione nazionale istituzioni e iniziative di assistenza sociale (Uneba) in Lombardia e parla di “scelte politiche molto forti“, che sono state prese “senza dirlo e senza rappresentarlo fino in fondo”. Lui invece lo dice senza troppi giri di parole: “Abbiamo un’emergenza che non ci aspettavamo e una pandemia che non sappiamo gestire, perché dobbiamo gestire delle strutture per anziani e disabili che sono state pensate per garantire a delle persone ultraottantenni con comorbilità una lungodegenza e abbiamo deciso che non hanno diritto alle cure ospedaliere, alla terapia intensiva o al tampone. Devono restare in Rsa a gestirsi un’infezione che per la loro età per la loro comorbilità li vede come i soggetti più a rischio morte”.

Certo, è chiaro che dietro c’è un calcolo di probabilità di sopravvivenza, ma è la fine dell’universalità del Servizio sanitario nazionale che è stata decretata in silenzio. “Con l’effetto che queste persone, che sono parte della popolazione, si trovano in strutture inadeguate a gestire l’acuzie nelle mani di personale che non è formato per questo: se decidi che non possono arrivare agli ospedali, allora devi decidere che il sistema aiuta queste strutture”, mandando strumenti, farmaci e tutti gli specialisti che servono. “Magari anche le mascherine e le indicazioni per l’ossigenoterapia”, sottolinea con un velo di amarezza.

Così abbandoniamo proprio chi ha costruito il Servizio sanitario universale – “Forse dovremmo chiederci se ridistribuendo le risorse, almeno non possiamo aiutare queste persone ad avere un altro livello di cura – prosegue Degani -. Su questo però non stiamo dicendo niente: è come se non volessimo affrontare la dimensione etica, quella delle scelte di fondo. Invece stiamo decidendo che si danno più risorse a chi ha più prospettive di sopravvivenza. In un sistema sanitario che funziona, stiamo facendo delle politiche di ridistribuzione delle risorse a danno dei non autosufficienti e dei disabili gravi”. In termini economici, chi paga il conto è “una generazione che sicuramente ha meno capacità in termini di sopravvivenza, ma che nell’ottica di un’economia dello Stato è quella più patrimonializzata, che probabilmente ha dato di più dal punto di vista tributario ed è quella che però oggi sta costando tanto dal punto di vista previdenziale“.

“Rischiamo di sembrare luoghi di morte, ma le Rsa non sono degli hospice”- E così, sempre in termini socioeconomici, rischia di andare a picco un sistema, quello delle case di lungodegenza, che negli ultimi 40 anni in Italia ha registrato una crescita capillare. Tanto che oggi in queste strutture, che non sono degli hospice, si riesce a dare una quarta età anche a chi è totalmente non autosufficiente, con una speranza di vita che va mediamente dai 2 ai 5 anni. Invece “stiamo rischiando di sembrare dei luoghi di morte e credo che questo sia un problema anche economico per chi ha fatto dei grandi investimenti, perché si sta sbagliando a identificare il mondo delle Rsa come un luogo in cui si muore, senza capire che si muore perché qui vive la popolazione più fragile. E almeno diamogli la dignità, il diritto di sentirsi presi in carico da un sistema che loro stessi hanno costruito“.

Esempi virtuosi ci sono, diventino norma – Invece è ora che “il modello lombardo, che sulle Rsa non sta funzionando, si metta a posto e serva a diventare il modello per altre regioni, perché le regioni avranno questo problema”. Nessun esempio virtuoso nell’attesa? “Si, le Ats di Mantova e Cremona hanno fatto un protocollo con l’ospedale Carlo Poma per mandare gli specialisti in Rsa. L’Ats di Bergamo adesso che sono arrivati i russi, sta attuando un processo di igienizzazione molto attento per le Rsa e il direttore generale della Ats di Brescia, Claudio Sileo, è stato il primo a trasferire dispositivi di protezione individuale dagli ospedali alle Rsa. Questi sono esempi virtuosi, ma non si può vivere di casi, devono diventare norma”. Vale a dire? “Se l’Ats di Mantova fa questo accordo, io Regione Lombardia ne prendo atto e dispongo che tutte le 9 Ats lombarde facciano accordi con le Aziende socio sanitarie territoriali lombarde, affinché si supportino le Rsa per igienizzazione, rianimazione, cure palliative, pneumologiche, e farmaceutiche. Così si fanno atti di natura programmatico-organizzativa, non provvedimenti spot”.

Perché le ambulanze non vengono più – È vero che per voi le ambulanze non escono neanche? “A Cremona non esce, ma perché dicono: dove ti porto il paziente? Al pronto soccorso non te lo prendono, in ospedale non lo mettono in terapia intensiva … Invece l’ospedale di Varese ha accolto gli ospiti della casa di riposo locale appena sono andati in emergenza, e pur avendo dei grandissimi numeri, la struttura in questo momento si sta gestendo meglio, sono riusciti a disinnescare questa presenza covid portando gli acuti in una struttura per acuzie”. E magari qualcuno guarisce. “Se gestisco bene un caso, la persona ha delle possibilità di sopravvivenza più alte delle possibilità di morte. L’ospite delle Rsa non può entrare nel sistema, perché la scelta è di non far entrare quel tipo di età, non perché non possa guarire, ma perché ha molte meno possibilità e con la sua presenza ne toglie ad altri. È chiaro che quello che si può fare in Rsa e quello che si può fare in terapia intensiva divergono diametralmente come possibilità di presa in carico”.

L'articolo Coronavirus e case di riposo: ‘In Lombardia non c’è più presidio. Non tutti gli anziani contagiati muoiono, ci mettano in condizione di curarli’ proviene da Il Fatto Quotidiano.



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Le residenze per gli anziani diventano uno dei fronti principali nella lotta al coronavirus. Dal nord al sud i casi si moltiplicano: dopo i 60 morti per Covid-19 in una casa di riposo di Mediglia nel milanese, l’elenco delle Rsa (residenze sanitarie assistenziali) diventate focolai del contagio continua ad allungarsi. Solo nella giornata di martedì 31 marzo c’è stata una quinta vittima a Bucine (Arezzo) – dove i positivi sono 30, tra cui 22 degenti e otto operatori – e un settimo morto nella casa di riposo di Chiaravalle, in provincia di Catanzaro. E pure in Liguria, ammette il governatore Giovanni Toti, promettendo test sierologici a pioggia dopo qualche tampone a campione, “ci sono focolai in diverse residenze sanitarie assistenziali”. Mentre è scoppiato un nuovo caso a Bovino, piccolo comune foggiano, dove 29 pazienti e 5 operatori sanitari di una Rsa sono risultati positivi. Sono stati 18 invece i casi emersi nei giorni scorsi alla Rsa Villa Giulia di Roma. . “Occorre metterci mano”, avverte il Comitato tecnico scientifico. Le residenze per anziani sono un universo da 300mila ospiti, età media 85 anni, il 60% con l’Alzheimer. Ma vanno anche considerati tutti gli operatori che ci lavorano all’interno. “Oggi le Rsa sono una zona molto grigia dove l’intervento è molto complicato, ci sono disparità da zona a zona di ogni tipo”, ha ammesso Roberto Bernabei, geriatra del Comitato tecnico scientifico.

Le residenze sono diventate sorvegliate speciali da parte dell’Istituto superiore di sanità. I primi risultati di un’indagine partita lo scorso 24 marzo alla quale hanno risposto in pochi giorni 236 strutture (pari al 14% delle 1.634 strutture contattate al momento su un totale di 2.556 Rsa pubbliche o convenzionate). Un report parziale da cui però sono già emerse criticità sparse su tutto il territorio nazionale: l’86% delle residenze hanno riportato difficoltà nel reperimento di Dispositivi di protezione individuale. Il 22% ha perfino chiesto più informazioni sulle procedure per contenere l’infezione. Ancora, il 36% riferisce difficoltà per l’assenza di personale sanitario. Ma arrivano anche segnalazioni di difficoltà nel trasferire i residenti positivi, così come nell’isolamento dei residenti infetti.

In primo piano ci sono anche i decessi, “relativi a tutte le cause” e che, ha detto il presidente dell’Iss, Silvio Brusaferro, andranno valutati. Su un totale di 1.845 vittime nelle 236 strutture che hanno riposte, 57 sono catalogate Covid e 666 con sintomi simi-influenzali (39,2%). “Sono dati di un campione che andremo a perfezionare progressivamente”, ha detto Brusaferro. Sono strutture “importanti ma fragili che meritano la nostra attenzione e il nostro sforzo”, ha aggiunto il numero uno dell’Iss.

“In Italia abbiamo 300mila ospiti nelle Residenze sanitarie assistenziali. Dobbiamo far sì che abbiano punti di riferimento: oggi ci sono differenze Asl per Asl, Comune per Comune, Regione per Regione, con una disparità incredibile di organizzazione, trattamenti, personale”, ha detto Bernabei, rispondendo proprio a una domanda sull’elevato numero di morti che si sta verificando nelle Rsa. Il tema – ha riferito Bernabei – è stato affrontato “nel Comitato tecnico scientifico e verremo fuori con qualche indicazione più puntuale perché questo è un terreno assolutamente da arare”, ha concluso.

A supporto l’Iss ha predisposto un piano d’azione specifico: decalogo, check-list di autovalutazione sulla preparazione per il contenimento delle infezioni Covid-19, un corso specifico per il personale sanitario su prevenzione e controllo delle infezioni COVID 19, preparazione e distribuzione di rapporti tecnici dedicati, supporto ai referenti indicati dalle Regioni per il contesto delle Rsa per la segnalazione delle situazioni più critiche, supporto telefonico/email fornito da personale infermieristico specializzato nella gestione del rischio infettivo.

L'articolo Coronavirus e vittime nelle residenze per anziani, nuovi casi da Arezzo a Foggia: timori per i 300mila ospiti e operatori. “Sono zona molto grigia, intervenire è complicato” proviene da Il Fatto Quotidiano.



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I carabinieri del Nas di Reggio Calabria e del Comando Provinciale hanno sequestrato negli ultimi giorni oltre 1.500 confezioni di "gel igienizzanti antibatterici" prodotti e offerti in vendita senza la prevista autorizzazione ministeriale. Tre legali rappresentanti di attività commerciali sono stati denunciati. I controlli sono stati effettuati presso centri commerciali e attività all'ingrosso di Reggio Calabria e provincia. I prodotti sequestrati, "essenzialmente cosmetici", spiega il Comando Provinciale, "vantavano azioni di contrasto a batteri e 'virus'" (ULTIME NOTIZIE SUL CORONAVIRUSLO SPECIALE -  MAPPA DEL CONTAGIO -  LE GRAFICHE CON TUTTI I DATI).

Prodotti sequestrati "essenzialmente cosmetici"

I tre legali rappresentati sono stati denunciati all'autorità giudiziaria per i reati di "frode nell'esercizio nel commercio e mancanza di autorizzazione nell'immissione in commercio di biocidi". Nella nota il Comando Provinciale sottolinea che l'autorizzazione da parte del ministero della Salute è necessaria in quanto assicura che i prodotti, prima di essere immessi in commercio, vengano sottoposti a una preventiva valutazione che ne garantisca la sicurezza e l'efficacia nelle condizioni di uso indicate e autorizzate.



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Una lezione di inglese della nuova didattica a distanza è stata interrotta dalla comparsa sullo schermo di video osceni e violenti. È quanto successo a una classe di seconda media della scuola Settembrini di Roma nel corso della videolezione delle 12 di lunedì 30 marzo. Come riferisce il Corriere della Sera, si è trattato di una “goliardata” di alcuni ragazzi più grandi che si sono intromessi sulla piattaforma Google Meet usata per le lezioni e hanno invitato le immagini porno. I ragazzini, sconvolti, si sono subito disconnessi e -tramite i rappresentanti di classe – hanno subito segnalato la cosa alla preside e alla polizia di Stato che ora indagano su quanto accaduto.

La bravata è stata possibile perché l’accesso al sistema delle videolezioni è consentito tramite un semplice link e non è filtrato da nessuna procedura di autenticazione con password. Sono nati quindi dubbi sulla sicurezza delle piattaforme usate dalle scuole per la didattica a distanza e a che il ministero dell’Istruzione sta approfondendo il caso con l’ufficio scolastico regionale.

L'articolo Coronavirus, video osceni interrompono la lezione a distanza di inglese: ecco cosa è successo a una classe delle medie proviene da Il Fatto Quotidiano.



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Avvio di giornata ampiamente positivo per le Borse europee, che allargano i loro rialzi della partenza. Piazza Affari guadagna più del 2% e il differenziale di rendimento tra Btp e Bund resta sopra i 190 punti ma con il tasso sul nostro decennale in lieve calo verso l’1,4%. Intanto il governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco ha presentato all’assemblea il bilancio 2019: l’utile è stato il più alto nella storia dell’istituto, 8,2 miliardi di euro, 2 in più rispetto al precedente esercizio grazie agli interessi sui titoli di Stato acquistati da via Nazionale per conto della Bce. Lo Stato riceverà 7,8 miliardi di dividendi più 1 miliardo di imposte di competenza, per un totale di 8,9 miliardi: anche questa cifra supera di 2 miliardi l’incasso dello scorso anno. Risorse che saranno preziose in questa fase di emergenza, con il governo a caccia di coperture per il decreto di aprile.

I 143 azionisti privati – banche, fondazioni , assicurazioni e fondi pensione che non hanno voce in capitolo sulla governance e in base alla riforma del 2014 stanno devono ridurre la propria quota a non oltre il 3% – avranno 340 milioni complessivi, come l’anno scorso.

“La repentina diffusione del nuovo coronavirus (Covid-19), oltre a minacciare gravemente la salute della popolazione e a mettere sotto estrema pressione i sistemi sanitari, ha sconvolto le nostre abitudini di vita, i processi di lavoro, il funzionamento delle scuole e delle università; l’impatto sul sistema economico-finanziario sarà di proporzioni molto ampie e profonde“, scrive Visco nella relazione che accompagna i risultati del 2019. “Nell’ambito del nostro mandato” all’interno del sistema delle banche centrali “siamo disposti ad aumentare il volume degli acquisti, a modificarne la composizione e a esplorare tutte le possibili opzioni per sostenere l’economia in questa fase di acuta difficoltà. Si è anche deciso di considerare la possibilità di rivedere i limiti che ci eravamo imposti in passato nello svolgimento di queste operazioni, nella misura necessaria a rendere gli interventi proporzionati ai rischi da affrontare; non si tollereranno impedimenti tali da compromettere l’efficace trasmissione della politica monetaria“.

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“Orban? Non esiste che una persona abbia pieni poteri in Europa. Io mi aspetto che chi fa parte del Ppe insieme a Orban lo prende a calci nel culo e lo cacci fuori dal partito. E mi aspetto anche che l’Europa dia una scadenza all’Ungheria per mettersi in regola oppure la espella, perché è impensabile che una neo-dittatura o una “democratura” possa convivere con le democrazie europee”. Sono le parole del direttore de Il Fatto Quotidiano, Marco Travaglio, nel corso di “Otto e mezzo” (La7), su quanto accaduto in Ungheria, dove il Parlamento ha votato i pieni poteri per il premier Viktor Orban per combattere il coronavirus.

“Il Parlamento ungherese – spiega – ha deciso democraticamente di cancellare la democrazia, ma non si può confondere lo strumento, che è democratico, col risultato, che è il contrario della democrazia. E’ esattamente come fece il Parlamento italiano, quando decise di approvare le leggi speciali e fascistissime di Mussolini, che cancellarono la democrazia in Italia. Anche quelle furono adottate col voto del Parlamento”.

E aggiunge: “E’ sorprendente la reazione di Salvini e la Meloni, che fino a una settimana fa si lagnavano del fatto che eravamo in una dittatura perché il governo agiva con i dpcm, che poi ovviamente sono stati portati in Parlamento e verranno giudicati, emendati, e, nel caso, approvati dal Parlamento stesso. Con il caso Orban invece adesso Salvini e la Meloni prendono sotto gamba quanto è successo, soltanto perché riguarda un amico loro. E’ veramente incredibile che si possano sentire queste cose da parte di chi si lamentava che Conte non gli facesse abbastanza coccole la settimana scorsa. Fa un po’ ridere”.

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Dopo la notizia che si era diffusa sui tabloid britannici secondo la quale il principe Filippo sarebbe morto, notizia poi smentita da Buckingham Palace, ecco spuntare un aneddoto sul consorte della regina di quelli che in un momento del genere suonano abbastanza inquietanti (ma con un retrogusto comico, va detto). “Se dovessi reincarnarmi vorrei essere un virus letale per eliminare la sovrappopolazione, la crescita dell’uomo è la più grave minaccia per il Pianeta“. Già parole proprio del principe Filippo. Come ricorda l’Expressen, Filippo disse questa frase durante una conferenza stampa con la Deutsche Press Agentur nel 1988. D’altra parte Filippo di Edimburgo è sempre stato un discreto gaffeur. Nel 1981, in piena recessione, disse: “Anni fa, tutti dicevano che dobbiamo avere più tempo livero, che si lavora troppo. Ora che tutti hanno più tempo libero, si lamentano della disoccupazione. La gente non sa cosa vuole”. E ancora, nel 2009 a Buckingham Palace si sta tenendo un ricevimento in onore dei 400 indo-britannici più influenti del Paese. Il duca di Edimburgo si rivolge all’imprenditore di origini indiane Atul Patel: “Ci sono tanti tuoi familiari qui stasera”. L’elenco potrebbe andare avanti davvero per pagine e pagine.

L'articolo Quella volta che il principe Filippo disse: “Se dovessi reincarnarmi vorrei essere un virus letale” proviene da Il Fatto Quotidiano.



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“Chiediamo al governo di riconvertire la nostra fabbrica per produrre materiale sanitario”. È questo l’appello dei 400 operai della Ventures (ex Embraco) che da due anni aspettano i progetti di reindustrializzazione dei propri stabilimenti. “Abbiamo a disposizione i capannoni e abbiamo le competenze, per questo ci mettiamo a disposizione per produrre quello che servirà in questo momento di crisi”. Una richiesta che è stata rilanciata dai sindacati e dal presidente della Regione, Alberto Cirio: “Si tratta di un’opportunità molto importante che la Regione è pronta a sostenere- ha dichiarato il governatore – ci auguriamo di avere un riscontro dal governo al più presto”.

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Arrivano le istruzioni Inps per chiedere il bonus una tantum da 600 euro per i lavoratori autonomi, liberi professionisti, i collaboratori coordinati e continuativi, i lavoratori stagionali e quelli dello spettacolo. La circolare pubblicata martedì chiarisce che per l’indennità non è prevista alcuna contribuzione figurativa e non contribuisce alla formazioni del reddito. E’ erogata dall’Inps previa domanda, anche con il Pin semplificato, che potrà essere presentata da domani.

Il beneficio è destinato ai liberi professionisti titolari di partita Iva attiva al 23 febbraio e ai lavoratori con rapporti di collaborazione coordinata e continuativa attivi nella stessa data. Non devono essere titolari di pensione né essere iscritti ad altre forme previdenziali obbligatorie. Per questi lavoratori il limite di spesa per il 2020 è di 203,4 milioni.

La stessa indennità di 600 euro, sottolinea l’Istituto, è destinata, sempre previa domanda all’Istituto, a commercianti, coadiutori diretti, artigiani, coltivatori diretti, mezzadri e coloni sempre che non abbiano già una pensione. Il bonus è erogato, per loro, nel limite di 2.160 milioni.

Il bonus è previsto poi per i lavoratori stagionali del turismo e degli stabilimenti termali che abbiano cessato involontariamente il loro rapporto tra il 1 gennaio 2019 e il 17 marzo 2020 che non abbiano pensione né, alla data del 17 marzo, alcun rapporto di lavoro dipendente. Non è previsto per marzo oltre alla contribuzione figurativa neanche l’assegno al nucleo familiare. Il limite entro il quale saranno accettate le domande per queste categorie è 103,8 milioni di euro. L’indennità è concessa anche agli operai agricoli a tempo determinato per i quali il limite di spesa è 396 milioni.

Potranno chiedere l’indennità anche i lavoratori dello spettacolo purché abbiano versato nel 2019 almeno 30 contributi giornalieri e non abbiano avuto un reddito superiore a 50.000 euro. I lavoratori dello spettacolo non devono essere titolari di rapporto di lavoro dipendente al 17 marzo per chiedere l’indennità. Il limite di spesa è 48,6 milioni.

La domanda per il bonus all’Inps si potrà fare con i consueti canali (Pin, Spid, Carta di identità elettronica e Carta dei servizi oltre al Contact center) ma sarà possibile accedere a una richiesta di Pin semplificata. Le domande dovrebbero partire domani ma il rilascio del servizio sarà comunicato con un nuovo messaggio. A questo si potrà accedere con modalità di identificazione, dato il carattere emergenziale delle prestazioni, scrive l’Inps, “più ampie e facilitate rispetto al regime ordinario”.

L'articolo Cura Italia, circolare Inps sui 600 euro per autonomi, cococo, commercianti e stagionali. Domande da mercoledì 1 aprile proviene da Il Fatto Quotidiano.



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“Grazie a questa comunità per il sostegno, l’ispirazione e l’impegno condiviso per il bene nel mondo”. Con queste parole, firmate semplicemente dai loro nomi, senza l’appellativo di “Altezze Reali”, Harry e Meghan hanno chiuso lunedì, come annunciato da tempo, il profilo Instagram ‘Sussex Royal’, avendo dovuto rinunciare a questo brand su richiesta della famiglia reale britannica alla vigilia dell’addio formale al ruolo di membri senior di casa Windsor e al grosso dei doveri dinastici in cambio di una vita più indipendente in America.

La chiusura non è stato accompagnata dalla prevista partenza di una nuova “fondazione reale autonoma”, che resta in programma ma cede per ora il passo alla “priorità” dei duchi di Sussex di concentrarsi “sull’emergenza coronavirus” per proteggere la loro famiglia e aiutare gli altri. Una portavoce ha comunque ribadito che il progetto per la futura fondazione benefica dei Sussex “è partito” e che a dirigerla sarà Catherine St Laurent, veterana della Bill and Melinda Gates Foundation, la quale ha accettato l’offerta di Harry e Meghan di collaborare con loro. Confermato anche il rimborso dei 2,4 milioni di sterline spesi per il restauro di Frogmore Cottage, donato ai Sussex dalla regina Elisabretta, che resterà “la residenza londinese” ufficiale della coppia.

L'articolo Harry e Meghan non sono più “Sussex Royal”: costretti a chiudere anche il loro profilo Instagram proviene da Il Fatto Quotidiano.



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di Gruppo Urbanistica perUnaltracittà

Chiude, nella Firenze disertata dai globe trotters, la città “fabbrica del turismo”. La crisi sanitaria mondiale svela così la miopia di amministratori che hanno incoraggiato la monocoltura economica all’insegna del turismo, scelta confermata dal Piano regolatore appena avviato. Un bilancio delle politiche urbanistiche del primo quinquennio della Giunta Nardella mette in evidenza non solo la scarsa lungimiranza dimostrata, ma anche quanto il perseverare nella stessa direzione possa dimostrarsi diabolico.

Il futuro “Piano Operativo” sostituirà un “Regolamento Urbanistico” (2015) le cui scelte, che rischiano di facilitare la speculazione sugli edifici storico-monumentali, abbiamo già criticato sul nostro giornale. Nelle scorse settimane, il Comune ha tuttavia dichiarato che il nuovo strumento urbanistico si porrà in sostanziale continuità col precedente, che, a giudizio di Palazzo Vecchio, avrebbe dato buoni frutti.

A fronte di tali dichiarazioni, abbiamo analizzato gli effetti delle politiche urbanistiche del primo mandato Nardella. I risultati mostrano una città immolata all’industria turistica, dove la rendita immobiliare è massimizzata, forte del brand Firenze.

Per brevità prenderemo qui in considerazione la sola città storica (Area Unesco).

L’analisi delle “Aree di trasformazione” del centro storico (UTOE 12) mostra che le variazioni hanno privilegiato le funzioni collegate allo sfruttamento turistico della città. Si noti che la metà (48,2%) della superficie in trasformazione nel settore preso in esame si riferisce a proprietà pubbliche alienate (94.232 mq), tra cui caserme, ospedali militari e altro. Edifici che – già pubblici – sono stati venduti grazie alla promozione “Invest in Florence” sostenuta dallo stesso sindaco presso le fiere dell’immobiliare.

Un terzo delle superfici in trasformazione (30,48%) è nel segno dell’uso residenziale di lusso, come mostra il dato disaggregato: la quasi totalità (86,8%) ha infatti caratteristiche esclusive – suite e luxury apartments – riscontrabili sia nei progetti depositati in Comune, sia nelle dichiarazioni di progettisti e investitori.

La destinazione ad uso turistico-ricettivo è pari a circa un quarto del totale delle trasformazioni (23,99%): 46.875,20 mq, più di nove campi da calcio. Una cura da cavallo per una delle città storiche, al mondo, più sature di alberghi.

Oltre un terzo (36,48%) interessa le attività direzionali, tra le quali rientrano gli ingombranti studentati (Student Hotel inclusi) che Nardella ha eletto a elementi centrali della “riqualificazione” urbana.

Dal 2015, nell’area Unesco, i cambiamenti di destinazione d’uso realizzati in via ordinaria, sono stati orientati prioritariamente verso il settore turistico-alberghiero (+774%) e residenziale (+430%; attenzione però: nella “residenza”, il regolamento comunale comprende anche b&b, case vacanze e simili). A picco invece le superfici destinate all’artigianato: -99,97%.

Poca o nulla l’edilizia residenziale per le fasce deboli: il vincolo gravante sulla superficie “rigenerata”, pari al 20% da destinarsi a social housing, è vanificato dalla sua monetizzazione (cfr. § 4.6.4, p. 69). Elevata invece l’incidenza dei frazionamenti per ricavare piccoli appartamenti, ideali per l’affitto breve: su 100 progetti presentati, le unità abitative sono più che raddoppiate: +252,60%.

Se il “nuovo” sarà in continuità con il “vecchio”, il redigendo Piano Operativo disegna uno scenario inquietante dove il ruolo di protagonista è già in mano alla proprietà immobiliare.

Tramite l’ “Avviso pubblico” i proprietari di volumi dismessi sono infatti chiamati a segnalare «la necessità di modifica della destinazione d’uso»: ciò nell’ottica di «partecipare l’avvio [sic] di un nuovo strumento di pianificazione» (cfr. p. 8 e 104). Ovvero, di partecipare – loro sì – alla stesura delle regole di trasformazione.

L'articolo Firenze punta ancora sul turismo. Nel ‘nuovo’ piano urbanistico uno scenario inquietante proviene da Il Fatto Quotidiano.



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Non si arresta la corsa di Sars Cov 2 negli Usa che doppiano la Cina per numero di casi. Secondo il calcolo della Johns Hopkins University, i casi confermati nel mondo sono 785.979: a guidare la classifica gli Stati Uniti, con 164.603 contagi, seguiti dall’Italia, con 101.739, poi la Spagna con 87.956. Quarta la Cina, con 82.240 casi, la metà di quelli degli Stati Uniti. Viene poi la Germania con 66.885, la Francia con 45.170, l’Iran con 41.495 e il Regno Unito con 22.454. Donald Trumpche ha dichiarato che se si riuscisse a limitare il numero dei morti a 100mila sarebbe un buon lavoro – ha spiegato che da Washington arriveranno in Italia 100 milioni di dollari di materiale sanitario, “oltre ai respiratori che gli Usa – ha ricordato – stanno già inviando al nostro Paese come alla Spagna e alla Francia “Giuseppe era molto contento”.

Intanto le misure draconiane adottate (in ordine sparso) in Europa potrebbero aver già evitato fino a 120.000 decessi in tutta Europa secondo la stima un report realizzato da un team dell’Imperial College di Londra guidato da Neil Ferguson e Samir Bhatt e diffuso dall’Oms Collaborating Centre for Infectious Disease Modelling. Secondo la ricerca, fino a 120.000 morti potrebbero essere già stati evitati in 11 paesi, tra cui Italia, Regno Unito, Francia, Germania e Spagna. Inoltre la percentuale di persone già infettate dal virus oscillerebbe tra il 2 e il 12% della popolazione: 2,7% nel Regno Unito, solo 0,41% in Germania, 3% in Francia e 9,8% in Italia.

La Cina ha registrato ieri solo 48 nuovi casi di infezione da coronavirus, tutti importati. La Commissione sanitaria nazionale (Nhc), aggiornando il numero dei contagi di ritorno a 771, ha menzionato un ulteriore decesso nell’Hubei, la provincia epicentro della pandemia. I casi gravi continuano ad assottigliarsi, essendo scesi di 105 unità a 528. I contagi certi complessivi sono ora 81.518: 2.161 sono i pazienti in cura, 3.305 i decessi e 76.052 i dimessi dagli ospedali, pari a un tasso di guarigione del 93,2%.

Sembrava che il trend fosse in discesa, ma la Corea del Sud ha riportato ieri un rialzo di nuovi casi da Covid 19 a 125, dai 78 di domenica, a causa dei problemi nel tenere sotto controllo focolai interni e contagi importati. Secondo il Korea Centers for Disease Control and Prevention, le infezioni totali sono 9.786 e i decessi 162 (+4). Sono 15 i casi importati, 518 in totale. Seul ha varato una quarantena obbligatoria di 14 giorni per tutti gli arrivi, anche per i 530 sudcoreani attesi dall’Italia. I guariti sono adesso 5.408, mentre i pazienti in cura 4.275.

L’epidemia è tutt’altro che finita in Asia e nel Pacifico. Questa sarà una battaglia a lungo termine e non possiamo abbassare la guardia” ha detto oggi Takeshi Kasai, direttore regionale dell’Oms per il Pacifico occidentale in un briefing in videoconferenza. “Anche nei paesi e nelle aree di questa regione in cui la curva dei contagi si è appiattita, continuano a comparire nuovi focolai i casi importati continuano a destare preoccupazione”, ha aggiunto il consigliere tecnico Matthew Griffith, citando Singapore e Corea del Sud.

Russia – Altre quattro persone positive al Covid-19 sono morte a Mosca. “Quattro pazienti a cui era stata precedentemente diagnosticata la polmonite e che sono risultati positivi al coronavirus sono morti a Mosca: avevano un’età compresa tra i 76 e gli 86 anni. Due di loro erano in ventilazione polmonare”, ha detto a Interfax la task force per il monitoraggio della situazione del coronavirus a Mosca. Tutti i pazienti avevano malattie croniche, comprese quelle cardiovascolari. Gli ultimi decessi hanno portato a 11 il numero complessivo di casi mortali tra i pazienti affetti da coronavirus a Mosca.

Israele – È salito da 16 a 18 il numero delle vittime in Israele per l’infezione da coronavirus. Il totale dei positivi è 4.831. Lo ha annunciato il ministero della sanità spiegando che i due ultimi decessi riguardano donne dai 48 ai 50 anni di età con “gravi malattie pregresse”. Del totale dei casi, la maggior parte è il lievi condizioni mentre 83 in gravi condizioni.

Giappone – Il governo sta esplorando la possibilità di decretare lo stato di emergenza a fronte dell’espansione dei casi, mentre continua a preoccupare l’impatto della pandemia sulla terza economia mondiale. Il canale pubblico Nhk rivela che la maggioranza dei membri della commissione di esperti istituita dall’esecutivo è a favore di una tale soluzione, molti dei quali preoccupati sulle implicazioni che il ritardo potrebbe comportare sull’andamento delle infezioni, in particolare a Tokyo. Ad oggi il numero delle infezioni di coronavirus in Giappone si assesta a 1.953 con 56 morti.

India – In India, ad una settimana dall’inizio del lockdown, si è registrato il maggiore incremento di casi di coronavirus portando il numero totale a 1.251, con 32 morti. Lo ha reso noto il ministero della Sanità, secondo quanto riportano i media internazionali. Intanto a New Delhi le autorità hanno deciso di convertire uno stadio da 60mila posti in una struttura per la quarantena per curare i pazienti Covid-19. In precedenza altre strutture sportive erano state trasformate per far fronte all’aumento dei casi. La Bbc rileva il sistema sanitario indiano potrebbe non disporre delle risorse necessarie per gestire la crisi: il paese ha otto medici su 10.000 persone rispetto ai 41 in Italia e ai 71 in Corea del Sud. E c’è anche scarsità di letti in isolamento, personale infermieristico e medici addestrati, ventilatori e letti di terapia intensiva.

Tunisia – La Tunisia registra altri 50 nuovi contagi che portano a 367 il totale dei casi confermati nel Paese. Lo rende noto in un comunicato il ministero della Sanità di Tunisi precisando che i decessi ufficiali sono ormai 10. Ieri intanto, al nono giorno di quarantena generale, si sono verificati momenti di tensione nei sobborghi popolari della capitale di Mnhila e Cité Ettadhamen con la gente scesa in strada a chiedere aiuti e maggiori autorizzazioni agli spostamenti, necessari per poter svolgere le attività lavorative in un paese caratterizzato da una forte economia sommersa.

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La pandemia non ferma i ladri di opere d’arte che hanno approfittato della chiusura per l’emergenza coronavirus del museo Singer Land, in Olanda, per trafugare nella notte il ‘Giardino della canonica a Nuenen in primavera‘, un dipinto di Vincent Van Gogh. Il mondo dell’arte è scioccato. Il furto – stando a quanto riferiscono i media olandesi – si è verificato alle 3.15 del mattino. Una porta a vetri del museo, nel centro del paese, è stata sfondata, ma gli agenti sono intervenuti solo dopo che l’allarme antifurto è scattato. Ed una volta giunti sul posto non hanno potuto far altro che constatare il furto. Un regalo di compleanno amaro per Van Gogh nato proprio il 30 marzo, del lontano 1853.

Al momento vengono visionati i filmati delle telecamere dell’edificio, mentre la polizia ha aperto una inchiesta sul furto e sta indagando a tutto campo insieme ad esperti del settore. Al vaglio degli inquirenti anche le testimonianze della gente che abita vicino al Singer Laren. L’opera dell’artista era stata prestata dal museo Groninger, nel nord del paese, precisa De Telegraaf, e viene stimata tra 1 e 6 milioni di euro. Un valore non solo economico ma anche artistico. Uno shock per il direttore del museo, Jan Rudolph de Lorm: “E’ un dipinto bellissimo e commovente di uno dei nostri più grandi pittori, rubato alla comunità”.

Nel 1883 e nel 1884 Van Gogh era con i suoi genitori a Nuenen, dove suo padre officiava nella chiesa raffigurata nel dipinto in veste di pastore protestante, e l’artista realizzò il quadro come dono per la madre. Alla morte del padre, nel 1885, Vincent modificò l’opera. “L’arte è lì per essere vista e condivisa. Questo quadro deve tornare qui al più presto“, ha aggiunto De Lorm. Sconcertato anche Andreas Bluhm, direttore del Museo Groninger: “Speriamo che ci venga restituito il prima possibile e integro”.

Non è la prima volta che un quadro del celebre pittore olandese, le cui opere hanno influenzato profondamente l’arte del XX secolo, viene rubato. Nel dicembre del 2002 i due capolavori ‘Vista dalla spiaggia di Scheveningen’ (1882) e ‘La chiesa riformata di Nuemen’ (1884) vennero trafugati dal Vincent Van Gogh Museum di Amsterdam. Furono ritrovati una quindicina di anni dopo durante un’operazione anti camorra e restituiti infine all’Olanda.

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Viviamo un momento molto particolare, in cui siamo chiamati a stare a casa per evitare possibili problemi di contagio.

In questo momento coltivare la terra vicino alla propria abitazione si rivela una vera e propria boccata d’aria per molte persone. Permette di ottenere verdura fresca senza doversi recare in negozi ed è terapeutico rispetto alle molte preoccupazioni, fonti di ansia e di stress.

Anche per chi ha dei bambini, in tempi di scuole chiuse, può rivelarsi un’attività educativa e divertente.

Purtroppo non tutti possono coltivare, perché il decreto del 22 marzo 2020 in merito alle disposizioni anti contagio limita una serie di attività e spostamenti. Vale la pena dare qualche informazione in merito.

Chi può coltivare

Chi coltiva presso la propria abitazione può ovviamente farlo: in giardino, sul balcone, in terreni adiacenti alla casa. L’attività non comporta spostamenti.

Anche chi coltiva per professione, in azienda agricola o comunque con una partita Iva di agricoltore può proseguire a farlo. L’agricoltura in quanto produzione di cibo è un’attività fondamentale ed è quindi tra quelle che possono proseguire, anche gli spostamenti connessi all’attività agricola sono concessi.

Resta però il problema di chi coltiva un orto non adiacente all’abitazione: lo spostamento che si trova a compiere non ha una motivazione che rientra tra quelle esplicitamente previste dal decreto. Ci sono moltissime persone in questa situazione, con orti abbandonati a poche centinaia di metri da casa. Ho scritto una lettera aperta al governo per mettere in luce questa situazione, considerando che per alcuni la produzione dell’orto è una voce importante nel bilancio famigliare.

Comprare materiale per l’orto

Per fare l’orto servono sementi o piantine, chi non ha preservato i semi dell’anno precedente deve acquistarli. Si può comprare online o in negozi di agraria o vivai.

In una recente risposta il governo ha chiarito che la vendita al dettaglio di piantine e semi è tra le attività consentite, quindi non ci dovrebbero essere problemi a reperire il materiale.

Qualche raccomandazione

In questo momento l’emergenza sanitaria è molto preoccupante, anche chi fa l’orto è chiamato a farlo in modo responsabile.

Per prima cosa bisogna evitare ogni possibile fonte di contagio evitando contatti tra persone: se ci sono vicini di orto non è il caso di frequentarsi ora di persona.

Bisogna anche prestare una maggior attenzione a evitare incidenti nell’orto, lavorando con tutte le precauzioni ed evitando lavori e attrezzi pericolosi. Non è il momento di sovraccaricare gli ospedali con piccoli incidenti in campagna.

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Il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, e il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, “hanno concordato di continuare a cooperare strettamente, anche attraverso il G7 sotto la presidenza americana, come all’interno del G20, per sconfiggere il virus e rilanciare l’economia globale”. Lo ha riferito la Casa Bianca, dando conto della telefonata di ieri tra Trump e Conte, durante la quale “hanno discusso degli ultimi sviluppi e degli sforzi per combattere la pandemia di coronavirus”. Il presidente americano, in conferenza stampa, ha annunciato cento milioni di dollari di aiuti diretti all’Italia: “Ho sentito Giuseppi (Conte, ndr), era molto contento”.

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“Sventurata la terra che ha bisogno di eroi” scriveva Bertolt Brecht. Forse è vero, ma ancora più sventurata la terra che ha bisogno di persone per bene. Dopo l’11 settembre New York e l’America intera celebrò con onorificenze e film i pompieri, che si sacrificarono per salvare centinaia di persone coinvolte nel terribile attentato. Diventarono gli eroi di una nazione, che voleva dimostrare la sua forza. Gente comune, non persone famose, che aveva fatto al meglio il proprio mestiere, aveva dato tutto e per questo un Paese intero concedeva un tributo di riconoscenza che forse solo i reduci della II Guerra Mondiale avevano ricevuto.

Oggi in Italia si sentono alcune, a dire il vero rare, dichiarazioni di stima e riconoscenza verso i tanti infermieri, ambulanzieri, medici, paramedici che operano negli ospedali. Si sente spesso dire che “sono degli eroi”. L’eroismo è un gesto che supera il nostro normale vivere, unico, che eleva chi lo compie al di sopra i tutti noi e in questo senso può essere letto come un riconoscimento verso quelle persone.

Allo stesso tempo, la patente di eroe spinge chi la ottiene al di fuori della realtà, lo mitizza, fino a non riconoscerlo più come simile. Questo temeva Brecht, il bisogno di pensare a qualcosa al di sopra dell’umano per poi concludere che si tratta di un’eccezione.

Chi oggi lavora negli ospedali e in tutte le strutture che servono a proteggerci e a salvarci da questa epidemia sta facendo certamente più di ciò che faceva quotidianamente, ma sta facendo al meglio il proprio mestiere, che è quello di aiutare gli altri. Riconosciamo a ciascuno di loro il grande merito, l’impegno, lo sforzo immane che gli stiamo chiedendo, ma per favore, non mettiamoli su un piedistallo che li disumanizza.

Perché sono umani, molto umani, assolutamente umani e se non riusciamo a pensare a questo significa che non abbiamo nessuna fiducia nei nostri simili. Noi umani siamo capaci di incredibili nefandezze, ma anche di slanci generosi davvero inattesi. È questo che sta accadendo oggi in Italia.

Per favore, queste persone non hanno bisogno di riconoscimenti, oggi, ma di fiducia, di appoggio morale e materiale. Facciamo sentire loro la nostra vicinanza, non allontaniamoli mitizzandoli. Sono la parte buona della nostra società, quella di cui essere orgogliosi, senza retorici appelli alla patria o al grande Paese. Persone che mettono le loro competenze e capacità al servizio di tutti e lo fanno con un impegno superiore, oggi, perché questo serve.

Invece di chiamarli eroi, ricordiamoci di loro quando tutto questo sarà passato e si ricordino di loro i politici e coloro che hanno sempre sottovalutato il loro impegno, riconoscendo a infermieri e operatori sanitari stipendi vergognosi, fornendo loro materiali scadenti e strutture non sempre all’altezza. Questo è il vero modo per ringraziarli.

Non abbiamo bisogno di eroi, ma di persone competenti e di brava gente, che sa cosa significa aiutare l’altro. Di questo abbiamo bisogno e quelle persone ci sono. Ricordiamocene, dopo, sempre.

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