In ambito scientifico la questione del razzismo è stata archiviata da tempo: esiste solo una razza, quella umana. Il problema è che nella vita quotidiana l’approccio scientifico e razionale, per usare un eufemismo, non è predominante, pertanto la parola razza continua a essere usata per riferirsi a questa o quella etnia o a gruppi di individui accomunati da determinate (seppur presunte) caratteristiche biologiche. Così, ci ostiniamo a discutere di qualcosa che non esiste.
Per spiegare questo fenomeno alcuni hanno cominciato a pensare che il concetto di razza risponda alle dinamiche della costruzione sociale: un processo attraverso il quale, come spiegano i sociologi Berger e Luckmann, “le persone, per mezzo delle loro azioni e delle loro interazioni, creano una realtà comune e condivisa, esperita come oggettiva”. Anche quando oggettiva non è.
Nell’ambito del costruttivismo sociale, “l’identità razziale non è qualcosa che un individuo eredita in base ad alcuni distinti tratti biologici, ma una qualità che si acquisisce in seguito a un processo sociale di razzializzazione (racialization) simile al branding” (Elizabeth V. Spelman, Racism and Philosophy, 1999). Un meccanismo di rappresentazione fondato su determinati aspetti culturali a cui viene attribuito, arbitrariamente, un significato biologico.
Lo ius sanguinis è un esempio di questo approccio, perché a una caratterizzazione sociale – l’essere, per esempio, un italiano – si attribuisce un significato biologico: avere sangue italiano. Fatto che, biologicamente parlando, non ha alcun significato. E questa caratterizzazione è ottenuta attraverso una vera e propria operazione di marketing, con la creazione d’un marchio, un brand sotto il quale una determinata classe di individui possa riconoscersi.
Questo ci porta a un paradosso: le razze non esistono, ma il razzismo sì. E grazie a una crescente operazione di branding, negli ultimi anni ha ripreso vigore e – incredibile a dirsi – dignità sociale e politica.
Dichiarare di non essere razzisti per poi adottare contenuti e atteggiamenti comunicativi, nonché azioni e provvedimenti che mirano a produrre un processo di razzializzazione è il secondo effetto paradossale – e deteriore – dell’utilizzo spregiudicato del costruttivismo. I fautori di questa visione, in effetti, non sostengono una superiorità biologica fondata su basi scientifico-razionali (ovviamente non sostenibili), come pure fu tentato nel 1938 con la pubblicazione della rivista La difesa della razza, ma una priorità sociale, circoscrivibile a piacere (“prima gli italiani”, “prima i sardi”, “prima i livornesi” ecc.), alimentata da argomenti emozionali e fondata su un senso di cittadinanza non più inteso come patto sociale, ma come patto di sangue. Un patto che, lungi dall’essere un’innovazione politica, non fa altro che riesumare il vecchio tripode Dio, Patria, Famiglia su cui poggiano, da sempre, nazionalismo e tribalismo. E non ci deve sorprendere l’ostentata devozione alla religiosità popolare, l’artificiosa astrazione dei concetti di nazione e popolo e il ricorrente riferimento alla propria genitorialità e alla difesa della famiglia tradizionale da parte di chi decide di servirsene.
Il terzo paradosso a cui ci conduce la razzializzazione costruttivista è che il razzismo così prodotto non è percepito come tale dagli stessi individui che lo professano. I quali, come dimostra l’esperienza, tenderanno a ripetere di non essere affatto razzisti, ma…
Non partendo da espliciti assunti di superiorità o inferiorità biologica e accettata, almeno in superficie, la negazione scientifica delle razze umane, il razzismo contemporaneo è, perlopiù, un razzismo a propria insaputa, che per emergere alla luce dell’autocoscienza necessiterebbe di un’analisi sociologico-filosofica ben più articolata e complessa di quella che sto negligentemente abbozzando in queste poche, misere righe.
Anche quando questo nuovo razzismo è sostenuto da un’ideologia suprematista (che pretende, cioè, soltanto la supremazia – e non necessariamente la superiorità biologica – del proprio brand su tutti gli altri), quest’ultima, se vai a scavare (ed è il quarto paradosso), non è sostenuta da alcun sistema coerente di idee. Dentro ci trovi solo marketing.
Hannah Arendt, una delle più grandi pensatrici del ventesimo secolo, sosteneva che il male non possiede né profondità né una dimensione demoniaca, eppure “può invadere e devastare il mondo intero”. Esso “sfida il pensiero, perché il pensiero cerca di raggiungere la profondità, di andare alle radici, e nel momento in cui cerca il male è frustrato, perché non trova nulla. Ecco la sua banalità”. E in questo – ma forse non solo in questo – male e razzismo sono del tutto sovrapponibili.
L'articolo Di cosa parliamo quando parliamo di razzismo proviene da Il Fatto Quotidiano.
from Il Fatto Quotidiano https://ift.tt/32iXJoi
via
IFTTT https://ift.tt/eA8V8J