dicembre 2020

Il nuovo anno si apre con il maltempo, a causa dell’arrivo di una forte perturbazione atlantica sull’Italia che porta neve anche a bassa quota al Nord e piogge e temporali al Centro-Sud. Per questo la Protezione civile ha emesso un’allerta gialla oggi in sei regioni: Emilia-Romagna, Lazio, Molise, Umbria, Sardegna e Toscana (LE PREVISIONI).



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Prosegue senza sosta la campagna di vaccinazione. Attivo il sito per monitorarne l'andamento. Finora vaccinati 13mila sanitari e 1.400 tra personale e ospiti di Rsa.Il tasso di positività risale al 12,6%, in aumento le terapie intensive. Alto il numero dei decessi: 555 in 24 ore. La curva è in decrescita ma rallentata. Nel tradizionale discorso di fine anno il presidente Mattarella ha fatto appello alla vaccinazione definendola "un dovere"



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“I controlli verranno fatti non soltanto sulle strade, dove già abbiamo operato in questi giorni di zona rossa, ma anche online. Questa volta per le feste sappiamo che tramite richiami sui social, qualcuno sta cercando di individuare delle strutture dove riunirsi. Noi faremo gli interventi necessari affinché si eviti di ripetere ciò che è successo questa estate, quando con le discoteche aperte e la partecipazione dei giovani si è determinato un diffondersi ulteriore del virus. Bisogna assolutamente evitarlo”. A dirlo è il ministro dell’Interno Luciana Lamorgese che, ai microfoni del Corriere della Sera e di Radio Capital, ha parlato dei controlli messi in campo per questa sera, in vista della notte di San Silvestro. Tutta Italia è zona rossa, con il coprifuoco esteso dalle 22 di oggi, 31 dicembre, alle 7 del 1 gennaio, ma c’è il timore che qualcuno – soprattutto tra i giovani – organizzi feste e serate nelle case.

Le discoteche aperte la scorsa estate “hanno contribuito a moltiplicare i contagi da Covid-19. Non possiamo più permettercelo, per questo saremo inflessibili nei controlli e nelle sanzioni – ha precisato Lamorgese -. Abbiamo uno spiegamento di forze dell’ordine imponente e siamo molto concentrati anche sul monitoraggio della rete Internet, per impedire che si affittino case dove riunirsi non rispettando le regole e il distanziamento” spiega. Siamo ancora in una fase “in cui serviranno altri sacrifici”, ma “guardando con fiducia ai prossimi mesi cruciali per la campagna vaccinale”.

“Bisogna però dire che le sanzioni finora sono state poche – ha spiegato la Ministra – c’è un grande senso di responsabilità, e d’altra parte in un momento in cui è iniziata la fase delle vaccinazioni, e stiamo vedendo la luce dopo un lungo periodo buio, il senso di responsabilità sono convinta che continuerà a prevalere, anche in questa fine anno così’ diversa dagli altri anni. Facciamo controlli per evitare che ci siano dei danni ulteriori, ora che la curva si sta abbassando, ci sembra sciocco, non responsabile, andare a fare feste non consentite. Alla fine si tratta di un giorno che si può vivere in famiglia”. ‘‘Abbiamo messo in campo 70 mila uomini – ha precisato ancora – a cui dobbiamo aggiungere il personale della Polizia municipale, su tutto il territorio nazionale. Il Capodanno lo passerò a casa con mio marito, e d’altra parte sarò vicina alle forze di Polizia, che in questi giorni saranno impegnate, lontano dalle loro famiglie, a proteggere le nostre giornate”, ha concluso.

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Lo scrive Harper’s Bazaar: “Non vuole tante storie per il suo centesimo compleanno”. Lo ribadisce Vanity Fair Uk: “Non vuole avere niente a che fare con i festeggiamenti per il suo centesimo compleanno”. Lo chiarisce il Telegraph: “Abbiamo un prossimo festeggiato molto riluttante e ingrugnito a dire poco“. Ebbene, chi è il futuro centenario che per altro disse “non riesco a immaginare niente di peggio che vivere fino a 100 anni, sto già cadendo a pezzi“. Il principe Filippo, signori. Una fonte di Palazzo avrebbe svelato proprio al Telegraph che “il nostro” non ha nessun interesse alla festa che la Regina Elisabetta vorrebbe organizzare in suo onore il prossimo 10 giugno: “Non puoi fare molto per uno che non collabora e al quale non frega granché“. D’altronde la frase di cui sopra (“meglio tutto che festeggiare i 100”), Filippo la disse durante un’intervista, nel lontano 2000, mentre parlava del compleanno della Regina sua consorte. Intanto, lui e la Regina si trovano a Windsor, una “bolla” anti covid-19. Il Principe quest’anno è stato dato per morto diverse volte: basta scorrere i titoli di marzo 2020 di quasi tutti i tabloid per vedere come ci si domandasse che fine avesse fatto, e l’ipotesi più gettonata era quella di un Phil già morto con la regina a mantenere il segreto per non preoccupare ancora di più il suo popolo già provato dalla pandemia. Il principe Filippo è stato per molti anni nella solitudine (cercata) di Sandringham, a leggere e a dipingere. Ora anche lui, come tutti, è tornato accanto alla sua consorte (certo con molto, molto più spazio a disposizione del resto della popolazione terrestre per dividersi gli spazi durante i vari lockdown) e ha lasciato la sua tanto amata vita in solitaria. Cento anni, quasi, fatti di devozione alla Regina ma anche di indipendenza. Cento anni fatti anche di gaffes memorabili e (molto) politicamente scorrette: “Se state lì vicino, non mi meraviglia che siate sordi”, disse nel 2000 a un gruppo di bambini sordi che stavano assistendo al concerto e alle danze caraibiche. E ancora, nel 1996 durante un incontro con il WWF eccolo che esclama: “Se ha quattro gambe e non è una sedia, se ha due ali e non è un aeroplano e se nuota ma non è un sottomarino, un cinese lo mangerà”. Gelo. Nel 2002, incontrando il leader degli aborigeni australiani William Brin, Filippo chiede: “Vi tirate ancora le lance addosso l’uno con l’altro?”. E nel 1992, quando durante un’intervista gli chiedono cosa pensi della sua vita: “Avrei preferito rimanere nella Marina, francamente“. Ecco.

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Tra le 1246 pagine dell’Agreement sul post Brexit tra l’Unione Europea e la Gran Bretagna un solo rigo è dedicato all’enclave di Gibilterra. “Questo Accordo”, si legge nelle previsioni finali, “non si applicherà a Gibilterra e non avrà effetti in quel territorio”.

Il promontorio dove, secondo la mitologia, Ercole, figlio di Zeus, fissò le colonne che segnavano il limite estremo delle terre conosciute, è trattato alla stessa stregua di altri territori britannici d’oltremare, quali Bermuda, Falkland, Anguilla o le isole Cayman.

Gibilterra in effetti condivide con alcuni isolotti, persi per lo più nel mezzo degli oceani, lo status di British overseas territories; presenta però condizioni ben diverse, è geograficamente parte della Spagna, avverte e vive le pulsazioni dell’Europa, vede ogni giorno 12 mila transfrontalieri attraversare i propri confini dalle località andaluse per lavorare nel recinto della colonia. Non fu un caso che, nel referendum del 2016 sulla Brexit, i 30mila residenti del promontorio si espressero in massa (oltre il 95%) per il “remain”.

Così dal 1 gennaio la linea di 15 chilometri che segna questa lingua di terra sarà frontiera esterna dell’Unione Europea, un paese terzo con obbligo di esibire il passaporto per accedervi. Qualche precauzione, tuttavia, era stata presa per tempo: l’esecutivo di Gibilterra, in base ad un accordo con la Spagna fondato su condizioni di reciprocità, agevolerà i trasferimenti dei transfrontalieri per non pregiudicarne i diritti. Nelle ultime settimane oltre 5000 transfrontalizos andalusi si sono registrati su frontierworkers.egov.gi, piattaforma del governo locale operativa dal 1 dicembre.

Fabian Picardo, premier dell’esecutivo che ha giurisdizione su questa rocca d’oltremare, si augura che una Gran Bretagna forte possa chiudere presto con la Ue e con la Spagna un trattato specifico sull’enclave. Sarà quella l’occasione per rivedere lo status di questa striscia di appena sei chilometri quadrati che de facto è un paradiso fiscale capace di assicurare finanza offshore e riciclaggio. Una base ideale per 55 mila imprese che hanno fissato qui la residenza fiscale, in un istmo privo di controlli valutari, con burocrazia leggera e con tassazione particolarmente agevolata. Privilegi che generano un appetibile reddito procapite di 38 mila sterline annue; nella vicina regione andalusa il reddito medio è fermo ad appena 18 mila euro.

Ma l’incertezza dell’oggi non è buona alleata dell’economia. Prova ad approfittarne la concorrenza che viene da altre enclave, come se l’unica possibilità concreta di sviluppo, o di sostentamento, dei territori con status peculiari, sospesi tra caratteristiche naturali della geografia e retaggi politici, sia quello di creare sistemi paralleli, al limite della legalità.

Ora è Ceuta, enclave spagnola – insieme a Melilla – in terra di Maghreb, che si propone di attrarre investimenti in uscita da Gibilterra. Lo prevede espressamente un Piano commissionato per circa 80mila euro ad una società internazionale di consulenza dall’amministrazione della città autonoma affacciata sulle coste africane. Un’alternativa al Peñon britannico per la logistica, i servizi finanziari e assicurativi e per l’industria del gioco d’azzardo on-line. Certo l’intero programma si fonda su previsioni che potrebbero presentare sorprese: se il libero scambio tra Gibilterra e la Ue seguisse i criteri stabiliti dall’Accordo-quadro voluto dall’Unione e Boris Johnson, allora il progetto diretto a creare un centro economico alternativo si sgonfierebbe prima ancora del suo avvio.

Sarà per scongiurare ogni velleità di Ceuta e Melilla che l’Agreement configura un rapporto diretto tra la Gran Bretagna e le due enclave autonome. L’accordo prevede che i prodotti provenienti da Ceuta e Melilla debbono recare attestazioni di origine degli avamposti spagnoli nel nord dell’Africa. Quasi a voler meglio controllare commerci e attività.

Nei prossimi mesi si saprà di più sul destino della Rocca, se ad esempio sarà integrata, come paventa il premier Picardo, nel trattato di Schengen, generando in tal caso un paradosso grottesco, con i britannici che dovranno mostrare il passaporto per entrare nella loro terra d’oltremare mentre gli spagnoli potrebbero accedervi liberamente. Picardo ha dichiarato che risuona forte il ticchettio dell’orologio come sottofondo per l’accordo sul Campo di Gibilterra. Che per ora rimane in un limbo giuridico: del resto fu oltre quelle ‘colonne d’Ercole’ che Dante collocò il Purgatorio.

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Le bandiere nel palazzo della Figc e a Coverciano sono a mezz’asta, il 17 gennaio è scomparso a Varese Pietro Anastasi. Gli è stata diagnostica la Sla, a 71 anni ha chiesto la sedazione assistita per poter morire serenamente. Gli ultimi mesi sono stati devastanti. Catanese, salito al nord per cercare fortuna su un campo di calcio, la trova con la Juventus. In Nazionale esordisce all’Europeo del 1968, segnando poi il gol decisivo nella finale bis contro la Jugoslavia. Salta all’ultimo il Mondiale del 1970 e partecipa invece a quello di Germania quattro anni dopo: venticinque presenze, otto gol in azzurro. Non su tutti i campi della Serie A si è fatto il minuto di silenzio. Meritava certamente qualcosa di più. Il giorno dopo muore a 91 anni Mario Bergamaschi, difensore di Milan e Sampdoria con un pugno di presenze in Nazionale negli anni Cinquanta.

Questo terribile 2020 si è portato via molti calciatori italiani che hanno fatto la storia del pallone e della Nazionale italiana. Questa lista vuole ricordare i defunti dell’anno con presenze in maglia azzurra. A cavallo tra i Cinquanta e i Sessanta colleziona sei gettoni in Nazionale, Benito Sarti. Il difensore di Sampdoria e Juventus muore a 83 anni il 4 febbraio. Classe 1928, Emilio Caprile scompare a Genova il 5 marzo. Esordisce giovanissimo in azzurro, due gare con altrettanti rete alle Olimpiadi del 1948. Mercoledì 8 aprile muore nel Pio Albergo Trivulzio di Milano Francesco La Rosa. Aveva 93 ed era positivo al Covid 19. Nel 1952 ha giocato due partite alle Olimpiadi in Finlandia. Il 22 maggio scompare a Pisa Gigi Simoni all’età di 81 anni. Era stato colpito da un ictus l’anno prima. Qualche convocazione in Nazionale, ma esordisce solo nella testa di Nicolò Carosio. Simoni presta infatti la sua maglia da gara a Gigi Riva, lui sì quel giorno al debutto vero e proprio. Per i primi minuti di gara il pioniere delle radiocronache confonde il non ancora Rombo di Tuono proprio con Simoni. Gigi non avrà altre occasioni in azzurro.

Giugno è terribile. Se ne vanno nel giro di pochi giorni Corso (il 20), Prati (il 22) e Negri (il 26). Mariolino è stato un talento stratosferico. Con l’Inter ha vinto tutto, con la Nazionale ha giocato poco senza partecipare mai a un Mondiale, un vero paradosso per un piede sinistro come ce ne sono stati pochi in Italia. Aveva 78 anni. Pierino ha ancora meno presenze di Corso in azzurro, ma è riuscito a vincere l’Europeo (in campo nella semi e nella prima finale). Con il Milan ha conquistato tutto ma il fatto di essere contemporaneo di un bomber come Gigi Riva lo ha sicuramento limitato. Nonostante tutto, quattordici gare e sette gol. Aveva 73 anni. William, detto Carburo perché il papà gestiva un distributore di benzina, è stato il portiere della Nazionale nei primi anni Sessanta (salta il mondiale inglese per un infortunio) e del Bologna che vinse lo scudetto. Aveva 84 anni.

Luglio non si apre meglio di come si sia concluso il mese precedente. Ardico Magnini, bandiera della Fiorentina, lascia questo mondo venerdì tre. Il terzino (venti presenze, zero gol e un mondiale in Svizzera) aveva 91 anni. Questo tragico anno si conclude con la scomparsa di Paolo Rossi, il nove dicembre. All’età di 64 anni, è il più giovane di questa Spoon River 2020 della Nazionale italiana. Pablito (copyright di Giorgio Lago, 1978) è stato Pallone d’oro, capocannoniere del Mondiale vinto in Spagna. È stato molte cose, ha rappresentato il gol italiano nella sua essenza. Ma è stato soprattutto un sorriso sincero con cui si sono conclusi piangendo dodici mesi maledetti.

L'articolo Da Pietro Anastasi a Gigi Simoni, da Mariolino Corso a Pablito Rossi: il 2020 ha cancellato un pezzo di storia del calcio italiano proviene da Il Fatto Quotidiano.



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Il 31 dicembre a scuola non significa nulla, non finisce l’anno, non finisce il quadrimestre, è un giorno di pausa didattica, un giorno di passaggio. Eppure l’idea che questo 31 dicembre si porti via il 2020 un’idea di fine la dà.

Che tenerezza che mi fa la me stessa dello scorso anno, quella che a dicembre aveva come massima preoccupazione dare a tutti il secondo voto di storia prima delle vacanze di Natale. Quella che si portava a casa per le vacanze tutti i pacchi di verifiche da correggere e che si divertiva a leggere sui giornali le solite polemiche sulla scuola. A dicembre in genere si parlava di scuola soltanto per l’immortale diatriba sui compiti delle vacanze (darli? non darli? darne troppi? non darne affatto?) con conseguente dibattito tra sostenitori della teoria che “a scuola oggi non si fa più niente” e fautori del “questi ragazzi hanno diritto a riposarsi”.

Si scatenavano infuocati commenti sotto alla pubblicazione di lettere aperte di insegnanti alternativi che affidavano agli studenti il compito di “non dare per scontato il tempo trascorso in famiglia” e di “riscoprire la gioia di stare in casa”. Penso di sapere esattamente a quale uso destinerebbero quelle lettere i nostri studenti, oggi, riducendole in tanti rettangoli e arrotolandole intorno ad un’anima di cartone.

Quasi rimpiango le solite polemiche strumentali di fine anno, quelle sulle recite di Natale e sui presepi scolastici, con i paladini della difesa delle tradizioni vestiti da pastorelli da una parte e i difensori della scuola laica dall’altra, con immancabile scontro sull’annoso problema dei crocifissi. Invece dei crocifissi ci hanno mandato il gel igienizzante e quanto ai Santi, penso che bastino ampiamente quelli che tiriamo giù a ogni lezione quando salta la connessione.

Si sospendevano le lezioni con la certezza di rivedersi subito dopo la Befana, si fissavano le verifiche di gennaio e si aveva l’impressione che il quadrimestre sfuggisse di mano. Adesso invece è tutto molto incerto: si torna il 7 ma forse l’11, ma di certo un po’ al 75, quando non al 50, scaglionati tra le 8 e le 10, con ore da 60 o da 45. Quando all’ultimo Collegio Docenti abbiamo iniziato a snocciolare tutti questi numeri a un certo punto qualcuno ha aperto il microfono e urlato “ambo!”. Eroe.

Ci è cambiata la vita davanti e ci è cambiata la scuola tra le dita, ché la scuola si evolve, si trasforma, si adatta come poche altre cose perché non può permettersi di fermarsi e non può prendersi il lusso di mollare. La scuola si è trasferita altrove, all’aperto, nelle camerette, nelle aule vuote; ci ha costretti a reinventarci, imparare, trovare soluzioni, a volte efficaci, altre palesemente inadeguate. Ci ha messo alla prova perché gli esami non finiscono mai e ci ha sbattuto in faccia tutto quello che non funziona, ha esacerbato le differenze, ingigantito le difficoltà, messo in luce le incongruenze.

Di sicuro abbiamo capito una cosa: che, come le persone, la scuola non è un’isola, è parte di tutto, è un anello essenziale che – se trascurato – trascina con sé nel baratro tutto il resto. Chissà come sarà la scuola che verrà: la vorremmo aperta, sicura, rinnovata. La troveremo come la troviamo sempre, piena di contraddizioni. Ma anche piena di ragazzi, speriamo. Speriamo in molte cose: invece che la solita riforma quest’anno potrebbe arrivare il vaccino.

Certo, bisogna documentarsi prima, ci mancherebbe, mica ci facciamo iniettare la qualunque. Ho letto ad esempio che la signora Brigliadori è fieramente contraria all’inoculamento del vaccino perché sostiene che dentro ci sia Satana. Ma se si tratta solo di questo, allora sono più serena.

E direi che noi docenti possiamo stare tranquilli, abbiamo risorse occulte: del resto chiunque si sia occupato dell’assistenza mensa in un cortile di un istituto che comprenda elementari e medie, sorvegliando dodicenni scatenati, o chiunque abbia fatto supplenza l’ultima ora in una classe di 25 adolescenti in preda dell’eccitazione natalizia, difficilmente si lascia intimorire da bazzecole tipo una pandemia mondiale o da Satana in persona.

Vorrei vederlo, Satana, a fare la didattica digitale integrata. Non durerebbe una settimana. Amen.

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“Mi rendo conto che, viste le indiscrezioni uscite, oggi è arrivato il momento di raccontare anche la mia versione. Sperando di chiudere qui il discorso, una volta per tutte”. Inizia così il racconto fatto da Nicolò Zaniolo alla Gazzetta dello Sport, il quotidiano sportivo a cui il giovane calciatore della Roma ha deciso di rompere il silenzio sulla sua vita privata per raccontare la sua verità sulla gravidanza della sua fidanzata Sara Scaperrotta e sul suo nuovo amore, Madalina Ghenea.

La notizia della gravidanza dell’ex compagna è stata rivelata dal settimanale Oggi come indiscrezione proprio nel giorno in cui l’attaccante 21enne ha confermato ufficialmente la sua nuova relazione con la modella rumena 33enne Madalina Ghenea. Ecco perché si è trovato costretto a “fare chiarezza”, nonostante in questo momento voglia solo pensare al suo ritorno in campo. “Per prima cosa non vorrei che si sporcasse una relazione che per me è stata importante, soprattutto in un momento delicato della mia vita e della mia carriera – ha esordito Zaniolo -. Ma la storia con Sara è finita ormai da qualche tempo. Come forse è normale alla nostra età, vivendo insieme ci siamo accorti che non andavamo più d’accordo, io stesso ho notato che c’erano delle piccole grandi cose che non andavano bene e non erano conciliabili con la mia vita da professionista”.

“Abbiamo sognato insieme una famiglia qualche volta, non lo nego, ma poi le cose sono andate diversamente e quando lei mi ha comunicato la sua gravidanza sono stato molto onesto nel farle presente che non mi sentivo pronto per un impegno del genere, soprattutto perché non andavamo più d’accordo, ma lei ha deciso di proseguire. Una scelta che rispetto – ha rivelato il calciatore-. Pur non essendo più il suo compagno, mi assumerò da padre ogni responsabilità. Con questo spero che terminino tutte le voci sulla mia vita privata e si torni a parlare di me soltanto come calciatore. Per la serenità – ha concluso Zaniolo – di tutti quanti”.

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Per il cinema in sala, nell’anno del Covid-19, è stata un’ecatombe. Lo rivelano i dati Cinetel dell’anno 2020. Dati che possono definirsi in un solo modo: disastrosi. Intanto le sale sono rimaste chiuse per oltre cinque mesi: da marzo a giugno 2020, e di nuovo da novembre 2020 fino ad oggi. Quindi le sale cinematografiche italiane sono rimaste aperte solo durante il periodo per tradizione meno frequentato da decenni: l’estate. Periodo durante il quale si è svolto il Festival del Cinema di Venezia che ha visto mescolarsi, attenendosi a rigidissime misure di sicurezza sanitaria, migliaia di addetti ai lavori e pubblico da ogni parte del mondo senza registrare un contagio che uno. L’incasso complessivo del 2020, mostrano i dati Cinetel, è di oltre 182.5 milioni di euro, pari ad un numero di presenze di circa 28 milioni che poi è il numero di biglietti venduti. Si tratta, rispetto al 2019, di un decremento del 72% degli incassi e di più del 71% delle presenze.

Se poi si restringe ulteriormente il range temporale, da marzo a dicembre 2020, cioè nel periodo Covid-19 il mercato nel 2020 ha registrato il 93% circa in meno di incassi e di presenze rispetto al 2019. Insomma il mercato italiano ha perso una cifra gigantesca: circa 460 milioni di euro d’incasso. Ironia della sorte, alla fine del mese di febbraio, prima dell’inizio dell’emergenza sanitaria mondiale, il mercato cresceva in termini di incasso di più del 20% rispetto al 2019, del 7% circa sul 2018 e di più del 3% rispetto al 2017. Per quanto riguarda le produzioni italiane, incluse le co-produzioni, si evidenziava oltretutto un incasso di oltre 103 milioni di euro per un numero di presenze pari a più di 15 milioni di ingressi grazie al risultato delle produzioni nazionali nei mesi di gennaio e febbraio 2020. I tre film che in generale hanno registrato il migliore risultato al box office nei primi 68 giorni del 2020 sono: “Tolo Tolo” (46.2 milioni di euro), “Me contro te – il film” (9.5 milioni) e “Odio l’estate” (7.5 milioni). Francesco Rutelli, presidente dell’ANICA, commentando queste cifre ha parlato di una pandemia che “ha abbattuto il mercato”. Mario Lorini, presidente ANEC, volge il suo sguardo al futuro, al 2021: “Al grande lavoro che ci aspetta e soprattutto al costante lavoro di ripresa del nostro rapporto con il pubblico, che nella centralità della sala saprà ritrovare fin da subito l’emozione di sognare in grande come solo il cinema al cinema sa fare”.

Già, la centralità della sala per fruire del prodotto filmico. Se si vuole brutalizzare la previsione basta dire che il mercato farà il suo corso, il “cinema” inteso come valore produttivo e industriale probabilmente non cesserà certo di esistere, ma sono proprio i nuovi orizzonti distributivi della settima arte il grosso punto interrogativo quasi più per gli artisti che il cinema lo creano che per produttori e distributori che si occupano, in qualsiasi modo, di mostrarlo al pubblico. Proprio a dicembre 2020 sarebbero dovuti uscire due film italiani molto commerciali e molto attesi: Freaks Out di Gabriele Mainetti il 16 e Diabolik dei fratelli Manetti il 31. Ad ora non si sa dove e come questi due grossi titoli – targati entrambi 01 distribution, ovvero Rai, come tre quarti del cinema italiano distribuito in sala – si potranno vedere. Probabile che siano stati concepiti stilisticamente come visione su grande schermo e che l’imbottigliamento in streaming – come del resto Warner Bros. ha fatto con i 17 titoli di punta del suo listino Usa 2021 – non sia proprio il destino voluto dai suoi autori. Sul fronte governativo, infine, nulla è stato ancora deciso in merito alle riaperture delle sale cinematografiche, anzi.

Non pare proprio uno dei principali problemi in agenda, come del resto il destino di tutto il comparto cultura ed arte dal vivo. Nelle ultime ore si paventa una possibile riapertura a fine gennaio 2021. Certo è che se mai venisse decisa una data così vicina a nemmeno quattro settimane di distanza, sarà piuttosto complicato lanciare sul mercato titoli che poi potrebbero bruciarsi in un paio di settimane con il solito non improbabile rialzo dei contagi dell’oramai vaticinata terza ondata di Coronavirus. Insomma, un rebus insolubile. Intanto il tempo passa e le sale cinematografiche sembrano sempre più un lontano ricordo del passato.

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In un video della durata di un minuto in cui scorrono le immagini dell’anno che ci lasciamo alle spalle, Greenpeace mostra come gli eventi del 2020 hanno cambiato il nostro mondo e il modo in cui lo difendiamo. Qual è la lezione? Anche se il 2020 ha portato difficoltà e perdite, abbiamo capito chi siamo veramente. “Dal più piccolo al più grande di noi siamo tutti connessi – recita il video – nel 2021 prendiamoci cura di ciò che conta veramente. Della nostra casa e di chi abbiamo accanto”.

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L’utilizzo di petardi e razzi pirotecnici può rappresentare un serio pericolo: per questa ragione esiste una normativa in merito, che sancisce i limiti di utilizzo e le eventuali sanzioni per i trasgressori. Inoltre, quest'anno, bisogna tenere in considerazioni le regole del Dpcm del 3 dicembre e le ordinanze dei singoli comuni.

La definizione normativa

I fuochi d’artificio, per produrre effetti luminosi e sonori, sfruttano la deflagrazione di polvere pirica e altri elementi chimici, motivo per il quale vengono considerati dei veri e propri esplosivi. Questa loro natura, negli anni, ha reso necessaria una specifica disciplina legislativa, che ha trovato una definizione nel decreto legislativo numero 123 del 2015. Nel testo, che recepisce una precedente direttiva europea, viene considerato prodotto pirotecnico "qualsiasi articolo contenente sostanze esplosive o una miscela esplosiva di sostanze destinate a produrre un effetto calorifico, luminoso, sonoro, gassoso o fumogeno o una combinazione di tali effetti grazie a reazioni chimiche esotermiche automantenute". Inoltre il legislatore considera fuoco d'artificio "l'articolo pirotecnico destinato a fini di svago".

I fuochi d'artificio legali

Per essere sicuri di acquistare prodotti legali è necessario fare attenzione alle indicazioni fornite dalla Polizia di Stato. Tutti i prodotti pirotecnici autorizzati hanno sulla confezione un'etichetta completa che riporta: gli estremi della marcatura CE o il numero di protocollo e la data del provvedimento del Ministero dell'Interno che ne autorizza il commercio; il nome del prodotto; la ditta produttrice, il Paese di produzione e l'importatore; la categoria; le principali caratteristiche costruttive (tra le quali il peso netto della massa attiva del prodotto esplodente) e una descrizione chiara e completa delle modalità d'uso. I prodotti privi di un'etichetta di questo tipo non sono in regola e sono da considerarsi "fuochi proibiti". Per evitare brutte sorprese, è bene affidarsi solo rivenditori autorizzati e seguire con attenzione le istruzioni per l'uso. In caso di ulteriori dubbi, prima di acquistare il prodotto ci si può rivolgere anche ai Carabinieri, telefonando al numero Unico Emergenza 112.

Le categorie dei fuochi d'artificio

Gli articoli pirotecnici sono classificati in categorie in base al loro tipo di utilizzo, alla finalità e al livello di rischio potenziale, che comprende anche il rumore provocato. Fuochi di artificio di categoria F1 sono gli articoli che presentano un pericolo potenziale "estremamente basso e un livello di rumorosità trascurabile": non possono essere venduti a privati che non abbiano compiuto il quattordicesimo anno di età. Gli F2, che possono essere acquistati solo da maggiorenni, sono i fuochi che presentano "un basso rischio potenziale e un basso livello di rumorosità". Quelli della categoria F3, invece, hanno un livello di rumorosità che "non è nocivo per la salute umana" e "presentano un rischio potenziale medio": per questa ragione sono destinati ad essere usati al di fuori di edifici in grandi spazi aperti. Questi ultimi possono essere acquistati solo da maggiorenni "che siano muniti di nulla osta rilasciato dal questore ovvero di una licenza di porto d'armi". Infine gli F4 sono i fuochi d'artificio "che presentano un rischio potenziale elevato e che sono destinati ad essere usati esclusivamente da persone con conoscenze specialistiche". Gli F4 sono comunemente noti come "fuochi d'artificio professionali", e hanno un livello di rumorosità non nocivo per la salute umana. Oltre a questi articoli, il legislatore prevede anche gli "articoli pirotecnici teatrali" e "altri articoli pirotecnici". I primi si dividono in T1, destinati a uso scenico e che presentano un rischio potenziale ridotto, e T2, utilizzati esclusivamente da parte di persone con conoscenze specialistiche. I secondi, invece, possono essere di categoria P1 e P2, in base al loro livello di pericolosità.

Sanzioni per centinaia di euro

Le sanzioni per quanto riguarda l'utilizzo dei fuochi d'artificio sono legate a diversi fattori. In molte città sono state previste delle ordinanze che ne vietano l'utilizzo nella notte di Capodanno. Tra queste, Napoli, Palermo, Treviso, Bari, Cesenatico, Desio (MB). In questo caso i trasgressori potevano incorrere in sanzioni di carattere amministrativo, con multe fino a 500 euro. L'ammenda fino a 103 euro è invece la sanzione ordinaria prevista dal codice penale. L'eventuale detenzione e utilizzo di petardi e fuochi pirotecnici illegali può comportare l'applicazione di sanzioni penali, con l'’immediato sequestro dei prodotti e il deferimento del responsabile all'autorità giudiziaria. Infine, è bene ricordare che per Capodanno il coprifuoco è in vigore dalle ore 22 del 31 dicembre alle ore 7 del primo gennaio.



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Tre robot (due umanoidi e uno che ricorda le sembianze di un cane) che ballano, coordinati, con un’agilità sorprendente. È l’augurio di buon anno che ha fatto la Boston Dynamics, azienda di ingegneria e robotica, attraverso un video impressionante. I robot si scatenano sulle note di Do you love me? dei The Contours. “Speriamo che il prossimo anno sia più felice per tutti”, hanno detto dall’azienda.

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Gjerdrum, un paese a 25 chilometri a nord-est di Oslo, in Norvegia, è stato travolto da una frana. E a causa delle condizioni instabili del terreno, un’enorme voragine si è aperta proprio sotto le case, facendole precipitare. Più di 20 persone risultano disperse, dieci quelle ferite e 500 quelle evacuate.

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La pandemia continua a colpire in Germania dove, nonostante le restrizioni, i numeri del contagio continuano a salire. Nelle ultime 24 ore si sono registrati 32.552 nuovi positivi e 964 decessi a causa del virus, numero che fa salire a 33.071 il totale dei morti. A riportare i dati è il Robert Koch Institute, l’agenzia incaricata dal governo di Berlino di monitorare l’andamento della pandemia nel Paese. La Germania sta affrontando un regime di “lockdown duro” dal 16 dicembre, dopo il fallimento della scelta ‘light. L’allentamento delle misure era inizialmente previsto per il 10 gennaio, ma sembra che le autorità tedesche stiano pensando di estendere le restrizioni di almeno altre 2 o 3 settimane.

A riportare le intenzioni del governo tedesco è Bild. Secondo il quotidiano tedesco, i leader federali e regionali hanno discusso in una riunione virtuale del 30 dicembre della possibilità di prorogare il blocco di altre due o tre settimane, al 24 o al 31 gennaio. I partecipanti avevano posizioni diverse su una serie di questioni riguardanti le restrizioni in corso, in particolare l’estensione della didattica a distanza per le scuole. Il 5 gennaio la cancelliera Angela Merkel incontrerà i governatori degli stati federali per decidere il da farsi. Merkel, in precedenza, aveva stabilito di revocare il blocco quando i tassi di infezione sarebbero scesi sotto 50 casi ogni 100 mila persone, un dato raggiunto per ora solo da poche regioni.

“Non credo di esagerare quando dico che mai negli ultimi 15 anni abbiamo vissuto un anno così difficile e mai abbiamo aspettato il nuovo anno con così tanta speranza“, ha detto Merkel in quello che potrebbe essere il suo ultimo discorso di fine anno da cancelliera. Il discorso verrà trasmesso alle 20 del 31 dicembre sull’emittente televisiva Ard ed è stato anticipato dalla stampa tedesca. “Non dobbiamo dimenticare quanti hanno perso una persona cara senza potergli stare vicino nelle loro ultime ore – ha aggiunto – Le teorie del complotto non sono solo false e pericolose, ma anche ciniche e crudeli per quelle persone che sono in lutto”, ha detto la cancelliera tedesca. Merkel ha anche ribadito l’intenzione a vaccinarsi, “quando arriverà il mio turno”. Citando il vaccino di Pfizer e BionTech, il primo al mondo a essere approvato, Merkel ha detto che “i fondatori Ugur Sahgin e Ozlem Tureci mi hanno riferito che nella loro azienda ci sono persone che lavorano da 60 Paesi diversi”. Secondo la cancelliera, “niente più di questo dimostra che sono la cooperazione europea e internazionale e il potere della diversità a portare progresso“, ha concluso.

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Le immagini spettrali di Wuhan, che a inizio anno ci sembravano così lontane dalla nostra quotidianità. Poi, le nostre città vuote, le canzoni sui balconi e i reparti di terapia intensiva pieni: il coronavirus aveva travolto anche il nostro Paese. Il 2020 passerà alla storia per la pandemia da Covid con cui il mondo ha dovuto fare i conti. Eppure, come vedrete nel nostro videoblob, l’anno che ci siamo lasciati alle spalle è stato segnato da altri avvenimenti che, in qualche modo, hanno segnato la collettività: dalle rivolte nelle carceri alla liberazione di Silvia Romano, dalla morte di Ezio Bosso a quelle di Ennio Morricone e Gigi Proietti. E andando all’estero, dalla morte in un incidente di Kobe Bryant a quella di George Floyd per opera della polizia, dall’esplosione a Beirut, che è costata la vita a centinaia di persone all’elezione di Joe Biden alla presidenza degli Stati Uniti, fino al decesso di Diego Armando Maradona.

L'articolo 2020, le immagini simbolo: dalla Wuhan spettrale allo choc di Codogno, dai canti sui balconi alle bare di Bergamo. E poi George Floyd, Kobe Bryant e Maradona proviene da Il Fatto Quotidiano.



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L'anno che volge al termine è stato quasi interamente dominato dalla pandemia di Covid: dai primi casi di fine gennaio allo Spallanzani fino all'arrivo del vaccino. E in mezzo, l'agghiacciante immagine dei camion militari che trasportano le bare a Bergamo, l'ottimismo condensato negli striscioni con scritto "Andrà tutto bene". Ma non solo coronavirus, anche l'omicidio di Willy e l'arresto di Zaki. E ancora, la liberazione di Silvia Romano e alcuni importanti addii, come quelli a Ennio Morricone e Gigi Proietti 



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“I cyberattacchi in Italia nel 2020 sono aumentati del 353%”. A dirlo è Nunzia Ciardi, direttrice della Polizia Postale, ospite della nuova puntata di “1234”, il podcast sulla sicurezza informatica di Sky TG24. E’ una percentuale, spiega Ciardi, che “se riferita a qualsiasi altro reato fisico farebbe rabbrividire”. Tra l’aumento dei reati e un’Italia sempre più connessa, l’intervista è l’occasione per fare un bilancio del 2020 sulla cybersecurity in Italia.



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“L’Italia non ha tentato di assicurarsi altre commesse anzitutto perché le dosi contrattualmente negoziate nel quadro Ue sono centinaia di milioni, assolutamente sufficienti, con varie ditte”. Ma anche perché “all’articolo 7 del contratto della Commissione europea, c’è il divieto di approvvigionarsi a livello bilaterale”. Durante la conferenza stampa di fine anno, il presidente del Consiglio Giuseppe Conte ha risposto così alla domanda sul perché l’Italia non abbia seguito l’esempio di Berlino, acquistando dosi extra del vaccino realizzato da Pfizer-Biontech (l’unico finora autorizzato dall’Ema) al di fuori del recinto stabilito dall’accordo europeo. “Io non ho detto” che la Germania ha violato il piano vaccinale, ha però poi precisato il premier: “Ho letto anche io i giornali, non ho elementi di conoscenza dettagliati”, ha specificato.

Berlino ha quindi violato il contratto Ue decidendo di garantirsi tramite una trattativa bilaterale le 30 milioni di dosi extra di vaccino Pfizer? Per rispondere bisogna partire appunto dall’articolo 7 citato dal premier Conte, intitolato “Obbligo di non negoziare separatamente“. Nel testo, in inglese, si legge che “firmando il presente Accordo, gli Stati Membri confermano la loro partecipazione alla procedura e accettano di non avviare proprie procedure per l’acquisto anticipato (advance purchase, ndr) di quel vaccino con gli stessi produttori”. Che cosa significa? Nelle “Domande e risposte” fornite da Bruxelles sulla strategia Ue si legge: “Gli Stati membri si sono impegnati, nell’ambito della strategia dell’Ue sui vaccini, a non avviare negoziati paralleli con gli stessi produttori di vaccini con i quali sono in corso negoziati a livello dell’Ue”. L’acquisto preliminare, si legge ancora, “è concluso quando entrambe le parti hanno ultimato la fase contrattuale. L’accordo è discusso in seno al comitato direttivo, che deve esprimere il proprio accordo. La conclusione di un accordo preliminare di acquisto richiede l’approvazione della Commissione”. A quel punto si arriva alla firma del contratto, “solo se almeno 4 Stati membri sono disposti a esserne vincolati”.

Le spiegazioni ufficiali – È proprio a questo che si è appigliata la Germania per giustificare la sua iniziativa: dal ministero della Salute tedesco spiegano di aver iniziato i colloqui con Biontech solo una volta conclusi gli accordi a livello europeo. E garantiscono che la produzione delle dosi “tedesche” non intaccherà o rallenterà la distribuzione garantita a tutti gli Stati membri dell’Unione europea. “L’intesa è che abbiano priorità le distribuzioni che derivano dai contratti europei”, ha chiarito una portavoce del ministero diretto da Jens Spahn. Un portavoce di Bruxelles, interpellato dall’Adnkronos, ha fornito invece una ulteriore spiegazione: “Il punto di partenza per l’allocazione delle dosi agli Stati membri è la chiave di distribuzione, basata sulla popolazione. Tuttavia sono possibili aggiustamenti tra gli Stati membri, a seconda dei loro bisogni e delle loro richieste, poiché alcuni Stati potrebbero essere interessati ad avere più dosi, mentre altri potrebbero non esserlo”.

Secondo questa versione, la Germania quindi avrebbe semplicemente opzionato delle dosi aggiuntive che altri Paesi non erano interessati a comprare, rimanendo perfettamente all’interno del quadro congiunto Ue. Non sono noti, allo stato, i motivi che hanno spinto alcuni Paesi (né quali siano) a rinunciare all’opzione di comprare altri vaccini da Pfizer e BionTech, ma potrebbe aver influito la prospettiva che altri vaccini stanno per essere autorizzati, come ha ricordato ieri Ursula von der Leyen. Il vaccino sviluppato da Moderna potrebbe arrivare all’Epifania, se l’Ema lo autorizzerà, e c’è attesa per quello di AstraZeneca dopo il via libera nel Regno Unito (nonostante gli avvertimenti dell’Ema). Potrebbero aver influito anche considerazioni di ordine economico: il vaccino di Pfizer e BionTech, che utilizza una tecnologia nuova, l’Rna messaggero, è tra i più costosi.

Il retroscena di Der Spiegel C’è anche un’altra spiegazione, che deriva dai retroscena rivelati da Der Spiegel. Poco prima di Natale, inoltre, un articolo del settimanale tedesco aveva dato conto del disappunto di Berlino per la decisione della Commissione di limitare gli acquisti del vaccino di Pfizer-BioNTech, che è arrivato primo nella corsa al vaccino anti-Covid, scrivendo di un’offerta fatta dai produttori per l’acquisto di 500 milioni di dosi, che sarebbe stata declinata dalla Commissione. Secondo Der Spiegel, il rifiuto di Bruxelles serviva a evitare di togliere troppo spazio al vaccino di Sanofi/Gsk, che però è in ritardo. La Commissione ha precisato che gli accordi con le case farmaceutiche sono stati siglati prima dell’inizio dei trial clinici o prima che i risultati degli stessi fossero disponibili. In altre parole, Bruxelles non poteva sapere, all’epoca, quale farmaco avrebbe avuto per prima il via libero.

Così Bruxelles ha ricucito lo strappo – Una certezza, però, resta: l’iniziativa della Germania è stata di fatto uno strappo rispetto alla strategia comune e al principio di solidarietà concordato tra i Paesi europei. Per questo martedì la Commissione europea ha deciso di evitare una crisi, annunciando l’acquisto di altre 100 milioni di dosi del farmaco di Pfizer che erano già state opzionate. Come evidenzia il Corriere della Sera, la quota che spetta a Berlino è di 27 milioni di dosi (molto vicina alle 30 annunciate). L’Italia invece ne riceve altre 13,5 milioni. Una mossa, quella decisiva dall’esecutivo di Von der Leyen, che ha placato l’irritazione di Roma e delle altre cancellerie europee. Ma che permette anche al governo di Angela Merkel di poter spendere con l’opinione pubblica interna l’annuncio dell’arrivo di nuove dosi. La pressione politica infatti è enorme: la Germania è fortemente colpita dalla pandemia – mercoledì più di mille morti Covid – e i tedeschi si aspettano che le vaccinazioni procedano spedite per arrivare all’immunità di gregge entro l’estate. Senza le dosi extra, Berlino rischia di non centrare l’obiettivo.

L'articolo Caso vaccini Germania, Conte: “Dosi extra per l’Italia? Il contratto Ue lo vieta”. Ecco cosa dice l’articolo 7 che parla di “acquisto anticipato” proviene da Il Fatto Quotidiano.



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La “fase due” è la stagione delle dirette Facebook, presieduta da una diarchia indubbia: Luca Zaia e Vincenzo De Luca che, quanto a presenza nelle agenzie e sui social, sbaragliano i colleghi per manifesta superiorità.
Il presidente veneto, in realtà, vanta una presenza giornaliera coi suoi “punti stampa”, una sorta di one-man show dai tempi estenuanti e dal concept originale.
Qui il politico leghista aggiorna sui dati regionali del contagio, scodella i numeri delle nascite, saluta i giornalisti come si fa coi vecchi compagni di scuola, sponsorizza i prodotti veneti, pubblicizza il gelato locale, esegue in diretta il test fai da te, mostra il tampone rapido, aggiusta i microfoni, inveisce contro gli ellenici per le restrizioni imposte a maggio dalla Grecia ad alcune regioni italiane. Come se non bastasse, rispolvera il miglior repertorio leghista contro gli immigrati africani “giovani e in buona salute”, promette Tso e carcerazione immediata a chi viola l’isolamento, adombra scenari apocalittici per l’aumento dell’Rt (salvo smentire tutto il giorno dopo), manda a memoria il sabato del villaggio, il pio bove, gli irti colli, gli aforismi di Sallustio.

Spesso però si inceppa drammaticamente col congiuntivo o inciampa nella pronuncia del termine “autoctono” oppure, nella foga di apparire erudito letterato, casca con tutti i piedi in epocali gaffe, come quella del 31 marzo, quando recitò con impeto alfieriano una poesia di tal Enacleonte da Gela, “storico del 233 a.C”. Peccato che Enacleonte non sia mai esistito. E’ infatti un personaggio inventato da un informatico di Palermo, Marcello Troisi, che ha volutamente diffuso sui social la sua burla per dimostrare la dabbenaggine e la credulità degli internauti. Presto fatto, esperimento riuscito.

Anche gli scivoloni sul fronte scientifico non sono da meno: non è raro che Zaia, dinanzi a una platea intorpidita dal suo torrenziale soliloquio, rovesci la virologia come se fosse uno stuoino senza mai essere contraddetto. E così gli Rt vengono presentati in percentuale e i canonici “pazienti 0” diventano “pazienti 00” come le farine raffinate.
I corollari “zaiani” sul virus, invece, si sprecano come le caramelle: il coronavirus potrebbe essere artificiale (9 maggio), il virus che circola in Lombardia potrebbe essere una mutazione (4 marzo), il virus “migratorio” è più aggressivo di quello locale (13 luglio).

Altro instancabile oratore e abile tribuno è Vincenzo De Luca, che inaugura la fase due con una concitata scazzottata verbale nel Consiglio Regionale campano e con le sue gragnuole di sberle metaforiche agli “imbecilli normali e imbecilli doppi” e ai “vecchi cinghialoni” che fanno footing senza mascherina.
Pugno duro ovviamente contro la movida: il 22 maggio De Luca lancerà la campagna “cafoneria zero”, mettendo anche in guardia i giovani night-clubber dalla vodka venduta a basso prezzo nei locali, sicuramente “distillata nelle reti fognarie” delle città campane.

Il quadrimestre primaverile-estivo è per De Luca anche il tempo delle rivendicazioni economiche al governo, inevitabilmente condite da crivellate sparse, come quella sui silenzi del ministro dell’Economia Gualtieri dato sarcasticamente per morto, o la denuncia di un “blocco nordista di interessi”.

Ma la fase 2 è anche il tempo di una zuffa longobarda-sannita, tutta a suon di bordate e pernacchie, tra il politico campano e Matteo Salvini, definito da De Luca nell’ordine: “esponente milanese del sovranismo che va in giro per l’Italia per farsi guardare gli occhiali nuovi, color pannolino di bimbo“, “somaro politico che ha ripreso a ragliare”, “cafone”, “equino”, “tre volte somaro”, “somaro geneticamente puro”, uno che fa manifestazioni in violazione delle norme anti-assembramento “insieme alla vispa Teresa” (Giorgia Meloni, ndr), uno che “ha la faccia come il suo fondoschiena, peraltro usurato“, “il Neanderthal”, uno che “aveva una donna stupenda al suo fianco (Elisa Isoardi, ndr) e passava le serate a mandare i tweet sui broccoletti e sul radicchio“.

Capitolo a parte merita l’assessore regionale lombardo al Welfare, Giulio Gallera, che, in tema di strafalcioni, si contende il primato con Zaia. Le sue dirette video, a metà tra una televendita di Sergio Baracco e la parodia di una lezione del maestro Manzi, sono una fucina di perle che resteranno nella storia.
Tutto esplode il 23 maggio, quando il politico milanese dà una spiegazione tutta sgangherata dell’Rt: “0,51 cosa vuol dire? Che per infettare me, bisogna trovare due persone allo stesso momento infette, e non è così semplice trovare due persone allo stesso momento infette per infettare me”.

Un mese dopo, durante una conferenza online organizzata dalla Rcs Academy, nel lodare il connubio privato-pubblico nell’emergenza sanitaria lombarda, sottolinea che “addirittura le cliniche private hanno aperto le loro stanze lussuose a pazienti ordinari trasferiti dagli ospedali pubblici“.
Il 6 luglio, nel corso di un collegamento televisivo, parla di temperatura corporea in termini percentuali (“37,5 % di febbre”).
Il 17 agosto annuncia su Instagram che ha avuto un incidente giocando a paddle e, come un novello Orazio Coclite, esibirà le ferite di guerra postando due autoscatti che lo immortalano con una fasciatura alla testa Puffo-style.

Le sue gaffe proseguiranno anche nei mesi successivi, come quando il 6 dicembre violerà la zona arancione regalando ingenuamente il corpo del reato su Instagram con uno screenshot del GPS e un selfie in tenuta ginnica, per poi addebitare la scivolata al fatto che fosse “soprappensiero”.

Ma riavvolgendo il nastro altre perle memorabili si sono susseguite nel corso della prima ondata: il 25 marzo, con 1643 contagi e 296 decessi in Lombardia, annuncia con gran clamore che Facebook ha omaggiato di “bollino blu” la pagina di Lombardia Notizie che ospita le sue dirette video pomeridiane, premiando così “un nuovo modo di comunicare di fare informazione”.
Sei giorni dopo, farfuglierà una spiegazione poco convincente sull’assembramento avvenuto alla cerimonia di inaugurazione dell’ospedale in Fiera di Milano: “Quando abbiamo tutti la mascherina, anche se ci sono distanze più ravvicinate siamo comunque protetti. Quindi il distanziamento è importante, ma se siamo tutti protetti non è per forza necessario essere a un metro e mezzo“.

I mesi della “fase 3” si susseguono con il ‘libera tutti’ estivo, l’ottimismo dei presidenti regionali di centrodestra spinto fino al parossismo (Giovanni Toti in prima linea), le frasi apodittiche di Salvini sulla fine dell’emergenza, la riapertura delle discoteche che, dopo le scene note di Ferragosto, verranno immediatamente richiuse, i contagi al Billionaire e lo strano caso di “prostatite” di Flavio Briatore.

Il resto è storia: oggi stiamo ancora pagando il prezzo altissimo della seconda ondata, con la sua progressione prima esponenziale e poi lineare di vittime. Ma la speranza del vaccino è ormai diventata una certezza.
Alla fine di questo anno infernale, sarebbe bello che questa realtà si accompagnasse a un’altra grande speranza da concretizzare: quella in una maggiore responsabilità generale. Personale e pubblica.

L'articolo Gli scivoloni di Gallera, gli strali di De Luca e le gaffe di Zaia: tutte le uscite surreali arrivate dalle Regioni nell’anno del Covid. Il videoblob proviene da Il Fatto Quotidiano.



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E’ passato un anno dal 31 dicembre 2019, quando un’anomala polmonite nella città cinese di Wuhan creò panico per 41 contagi nella sua popolazione. Da quel giorno niente è stato più come prima.

Il 31 gennaio 2020 il presidente del Consiglio Giuseppe Conte conferma i primi casi in Italia, due turisti cinesi ricoverati allo Spallanzani di Roma, annunciando al contempo lo stato di emergenza sanitaria.
Tre settimane dopo viene accertato un caso a Codogno, l’ormai celebre paziente 1. Nelle ore successive, si verificheranno altri 15 contagi e poi altri ancora nel Veneto, con la morte di un paziente di Vo’ Euganeo, deceduto nella terapia intensiva dell’ospedale di Schiavonia, a Padova.
Il governo approva nella notte del 22 febbraio un decreto, con cui vengono isolati 11 Comuni nel Lodigiano e a Vo’.

La sarabanda dei numeri, delle linee poco chiare dell’Oms, dell’incredulità, della paura, dell’incertezza si riflette specularmente nel modo in cui si muovono i presidenti regionali, specie quelli in prima linea contro la pandemia, inizialmente percepita come semplice epidemia. Attilio Fontana e Luca Zaia ostentano in ugual misura un approccio rassicurante.

Il primo, in una intervista mattutina del 24 febbraio a Rtl 102.5, si appella ai lombardi, invitandoli a condurre la vita di sempre e dicendosi convinto che il virus regredirà molto presto. Poi ribadisce che col governo c’è la massima collaborazione.
Ma a sparigliare le carte sarà il presidente della Regione Marche Luca Ceriscioli che, nella stessa giornata, convoca una conferenza stampa in cui annuncia la chiusura delle scuole e delle università e il divieto delle manifestazioni pubbliche, pur non essendoci casi positivi nella regione. Arriverà a sorpresa nel corso della conferenza una telefonata di Conte, che gli chiederà di bloccare l’ordinanza in attesa dell’incontro tra Regioni, Protezione Civile e governo previsto per il giorno dopo.

Nella serata del 24 febbraio, il presidente del Consiglio, prima di entrare nella sede della Protezione Civile, lancia la sua strigliata ai governatori invitandoli a non prendere iniziative in ordine sparso e invocando un coordinamento nazionale. Conte rincara il messaggio in una intervista televisiva, concessa la stessa sera, alla trasmissione “Frontiere”, su Rai Uno: “Tutti dobbiamo perseguire un coordinamento. Se non ci riuscissimo, saremmo pronti a misure che contraggano le prerogative dei governatori”.
La reazione di Fontana, che diramerà intorno alle 23.00 una nota stampa, è furibonda: “Parole irricevibili e, per certi versi, offensive. Domani riferirò al presidente Conte che la Lombardia sta dimostrando di essere all’altezza della situazione e sta gestendo con competenza ciò che sta accadendo. E tutto ciò alla faccia dell’autonomia e dei pieni poteri“.

Lo strappo tra Fontana e Conte, secondo un retroscena de La Stampa, raggiunge il suo climax proprio nella videoconferenza del 25 febbraio. Ad appianare tutto ci penserà Sergio Mattarella con una telefonata riconciliatrice a Fontana.
Ricucito con fatica lo sbrego istituzionale, non poteva mancare il tentativo di sabotaggio passivo attuato da Matteo Renzi che nella stessa giornata invia un messaggio di solidarietà a Fontana, come lo stesso politico leghista rivela, tra risatine strozzate, all’assessore regionale al Welfare Giulio Gallera, nel corso del Consiglio Regionale.
Nella stessa seduta, il governatore leghista ribadirà che la situazione sanitaria in Lombardia ‘è difficile ma non tanto pericolosa’ e che ‘il virus è poco più di una influenza’.

Il giorno dopo Attilio Fontana con un video pubblicato sulla sua pagina Facebook annuncia di essere in isolamento volontario a causa della positività di una sua collaboratrice al coronavirus. Il filmato è ormai un pezzo cult di questo scorcio d’epoca per via della goffa operazione di “vestizione” con cui il politico tenta di indossare la mascherina.
Arriva la solidarietà di tutti i colleghi presidenti regionali, in primis di Vincenzo De Luca, che ironizza: “Fontana mi ha detto che ha 36 di febbre. E allora non ci vuole l’antibiotico, ma l’ovetto e lo zabaione la mattina. Comunque lui puoi stare tranquillo perché, anche se gli arriva il virus, questo come si nutre? A lui è rimasta solo la barba”.

Gli stilemi comunicativi adottati da Luca Zaia, invece, sono più assertivi e decisi di quelli usati da Fontana. Da buon discepolo delle linee guida dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, salvo poi abiurarlo un mese dopo chiamandolo “signor Oms mai visto qui in trincea”, il presidente veneto il 25 febbraio affida alla rete veneta Antenna 3 le sue pillole di sapienza scientifica: le mascherine non vanno usate se non dai sanitari e i tamponi non ci dicono nulla. E per avvalorare la sua tesi, che rinnegherà alcuni giorni dopo col metodo “Crisanti” dei tamponi a tappeto a Vo’ Euganeo, ricorre a una metafora ittica: “E’ come andare a pescare a strascico con una rete che ha le maglie larghe mezzo metro quadrato. Non prendiamo tutte le sardine“. Un attimo dopo si scuserà per evitare incidenti politici con il movimento di Mattia Santori.

Il 27 febbraio è una giornata particolare che accomuna ben tre presidenti regionali nel pieno ruolo di gaffeur: Fontana, Zaia e Zingaretti.
Il primo, da un giorno in isolamento precauzionale e all’indomani del secondo decreto governativo che impone nuove strette, si pronuncia entusiasticamente sulla partita di scudetto Juventus-Inter, in programma domenica 1 marzo e successivamente giocata a porte chiuse l’8 marzo all’Allianz Stadium di Torino. “Spero che da oggi ci sia una regressione della diffusione – commenta ai microfoni di Radio Rai – così vado a vedere anche io Juve-Inter. Monitoriamo la situazione. Sono molto tranquillo. Sull’esito positivo non ho dubbi”.

Zaia, sempre nell’emittente televisiva Antenna 3, nel vantare l’alto numero di asintomatici veneti tra i positivi a fronte della più grave situazione cinese, attribuisce la faccenda a una vicenda tutta indigena di usanze igieniche e culinarie: “Il nostro popolo, i veneti e i cittadini italiani, hanno un regime di igiene particolare: si fa la doccia, si lava. Anche l’alimentazione, la pulizia, le norme igieniche. È un fatto culturale. Io penso che la Cina abbia pagato un grande conto di questa epidemia, perché comunque li abbiamo visti tutti mangiare i topi vivi e altre robe del genere”. Si sfiorerà l’incidente diplomatico: l’ambasciata di Pechino protesterà duramente e Zaia sarà costretto a inviare una lettera di scuse.

Nella stessa serata del 27 febbraio, il presidente della Regione Lazio Nicola Zingaretti accoglierà l’invito del sindaco di Milano Beppe Sala e dei giovani dem per un aperitivo sui Navigli, in nome della ripresa e del rifiuto del panico, sull’onda dell’hashtag “Milano non si ferma”, lanciato e incoraggiato soprattutto dai cenacoli confindustriali.
Il 7 marzo Zingaretti annuncerà di essere positivo al coronavirus, beccandosi 4 mesi dopo il manrovescio impietoso di Vincenzo De Luca (“Siccome Dio c’è, s’è pigliato il covid subito dopo”).
L’8 marzo anche il presidente della Regione Piemonte Alberto Cirio comunicherà di essere stato contagiato dal virus. Quattro giorni prima aveva incontrato Zingaretti a una riunione a Palazzo Chigi e sempre il 27 febbraio aveva invocato con forza il “ritorno alla normalità” per il Piemonte e per tutta l’Italia.

Nel frattempo i contagi aumentano vertiginosamente: il 4 marzo Conte firma un nuovo decreto che impone la chiusura di scuole, di università, di teatri e di cinema fino al 15 marzo.
Nel pomeriggio del 7 marzo circola sui media una bozza che impone la chiusura della Lombardia, ormai da giorni messa in ginocchio soprattutto nell’area del Bergamasco.
Il tam tam frenetico sull’indiscrezione trapelata costringe il governo a rendere ufficiale la notizia nella tarda serata (divieto di spostamento in Lombardia e e in 14 province di Veneto, Emilia Romagna, Piemonte, Marche), ma ormai la frittata era fatta.
Nella notte tra il 7 e 8 marzo le stazioni di Milano saranno prese d’assalto dai tanti che cercheranno di fuggire alla volta del Sud.

Il primo a protestare contro il decreto dell’8 marzo è Luca Zaia, che nell’arco di 6 giorni si rende protagonista di un salto triplo carpiato con avvitamento antiorario: l’8 marzo chiede con veemenza lo stralcio delle province di Padova, di Treviso e di Venezia dalla zona rossa.
Quattro giorni prima, il 4 marzo, aveva tuonato contro l’esecutivo, sollecitando misure uniformi per tutto il territorio nazionale, sentenziando: “Tutto il Veneto è zona rossa, trovo illogico che lo sia solo una parte della Lombardia, così come per il Veneto e l’Emilia Romagna. Se virus è, il virus non conosce confini”.
Il 10 marzo, il giorno dopo del lockdown nazionale, cambierà nuovamente idea, tornando alla tesi di 6 giorni prima: “Piuttosto che protrarre un’agonia che dura mesi, è meglio arrivare a una chiusura totale del Paese”.

L’esodo verso il Sud, intanto, mette in tangibile allerta tutti i presidenti delle regioni meridionali, che si alterneranno in appelli social ai propri cittadini perché si astengano dal mettersi in viaggio e seguano tutte le prescrizioni in caso di arrivo.

Tra tutti spicca il presidente della Regione Campania, Vincenzo De Luca, che, armato di pugno linguistico di ferro (con le punte), inaugurerà la stagione degli ‘ipse dixit’ meta-crozziani: “i carabinieri coi lanciafiamme” da mandare ai laureandi che vogliono festeggiare l’alloro accademico, la quarantena e le sanzioni pesanti a quelli “stravaccati sulla panchina”, gli “irresponsabili” che vanno assolutamente “neutralizzati”, i quartieri da “militarizzare”, “i metodi terapeutici della Cina” come la fucilazione di un giovane che aveva violato la quarantena, “i buontemponi” che “portano al papà le zeppole di San Giuseppe condite con una bella crema al coronavirus”, “le ammuine del Nord”, i “portaseccia”, ovvero i terribili menagrami raccontati da Nicola Valletta nel suo trattato sulla “jettatura”.
Questo ruolo rivestito da De Luca, una specie di Isocrate col cipiglio di Cerbero, si concretizza anche nella realtà: il 13 marzo, alla fine della sua consueta diretta su Facebook, si apposterà sul lungomare di Salerno per inveire contro gli indisciplinati campani che scorrazzano in barba alle regole.

Intanto aumentano, assieme ai contagi e ai decessi, anche le occasioni di scontro tra governo e presidenti regionali: il 24 marzo oltre 200 persone, tra cui numerosi siciliani, sono bloccate a Villa San Giovanni (Reggio Calabria) in attesa di imbarcarsi verso la Sicilia. Musumeci attacca duramente la ministra dell’Interno Luciana Lamorgese, lamentando l’assenza di controlli: “Non possono entrare in Sicilia e io non ho alcun potere per farli entrare. Le competenze sono dello Stato”.
Una settimana dopo, Musumeci e De Luca, assieme all’assessore lombardo alla Sanità Giulio Gallera, contestano la ministra dell’Interno per la circolare che consente ai genitori di minori di fare passeggiate intorno alla propria casa con i figli. Il misunderstanding verrà presto risolto dalla stessa titolare del Viminale.

Lo scontro più forte avviene sulla mancata istituzione della zona rossa anche per i comuni bergamaschi di Alzano Lombardo e Nembro, che hanno pagato un prezzo altissimo nella prima ondata.
Già dal 3 marzo la provincia di Bergamo contava 373 contagiati, diventando di fatto un focolaio. Il 18 marzo è una data significativa per le immagini terribili dei camion dell’Esercito che trasportano le salme dei deceduti di Bergamo verso altre regioni.
Nei giorni successivi. ospitati da tv e radio, Fontana e Gallera danno la loro spiegazione dei fatti sulla mancata zona rossa, che sarà oggetto di una inchiesta della procura di Bergamo.

Il 23 marzo, a “24 Mattino” (Radio24), Fontana accuserà il Cts, ma il 5 marzo, ospite di “Aria pulita”, su Italia 7 Gold, a domanda precisa di Simona Arrigoni sulla possibilità di chiudere alcune zone della Lombardia, Fontana aveva risposto: “Non lo so. L’abbiamo accennato ieri al ministro Speranza ma siamo ancora molto lontani da qualunque decisione. Nelle prossime ore, se sarà necessario, ci risentiremo con il ministro e valuteremo”.

Il 19 marzo Giulio Gallera, a “Sono le Venti” di Peter Gomez (Canale Nove), spiegherà la cronologia degli eventi: “Il 3 marzo il presidente dell’Iss Brusaferro ha inviato un documento del Cts al governo. Almeno così ha detto a me. Abbiamo atteso giovedì e venerdì (5 e 6 marzo, ndr), ma il governo questa decisione non l’ha assunta”. Quattro giorni dopo, ospite di Agorà (Rai Tre), Gallera ammetterà che la Regione avrebbe potuto intervenire per chiudere il focolaio bergamasco in virtù di una legge, la 833 del 1978.

Il redde rationem sull’operato della Regione Lombardia riguarda anche lo scandalo dei decessi nelle Rsa, dove con una delibera dell’8 marzo la giunta regionale chiedeva il ricovero dei pazienti covid.
Il 5 aprile la procura di Milano aprirà un’inchiesta sulla storica struttura di assistenza per anziani, il Pio Albergo Trivulzio, accusato di aver sottostimato i decessi di molti ospiti.

Altro motivo di disputa tra governo e Regioni riguarda le mascherine inviate dalla Protezione Civile per gli operatori sanitari. Gallera sbotterà definendole “fogli di carta igienica”, De Luca le paragonerà alle mascherine del “coniglietto Bugs Bunny”, Fontana il 2 aprile definirà l’operazione “una vergogna”, lamentando ai microfoni di Radio Padania pochissimi aiuti del governo: “Da Roma stiamo ricevendo delle briciole. Se noi non ci fossimo dati da fare autonomamente, avremmo chiuso gli ospedali dopo due giorni”.

Il giorno dopo, il presidente lombardo annuncerà l’auto-produzione di mascherine destinate agli operatori sanitari e realizzate dalla Fippi di Rho, un’azienda di pannolini che ha riconvertito la produzione su commissione di Regione Lombardia.
Il sindacato Adl Cobas Lombardia, con un video informativo, dimostrerà la totale inefficienza dei dispositivi di protezione e presenterà un esposto che sarà l’apripista di un’inchiesta della procura di Milano.
In estate si scoprirà che il 90% delle mascherine “autoprodotte” e pagate dal Pirellone 8,1 milioni di euro è rimasto inutilizzato negli scatoloni.

Si arriva alla vigilia di Pasqua. De Luca invita i campani a seguire le liturgie gastronomiche partenopee, ma sempre con la scacciacani spianata: “Reimpariamo a fare le pastiere. Le prime saranno una sozzeria, ma rimanete chiusi in casa. Nessuno pensi di rilassarsi”.
Di diverso registro, invece, è il messaggio augurale di Fontana, che pubblica sulla sua pagina Facebook il video di tre falchetti nati sul tetto del Pirellone.

Dopo le festività pasquali, i presidenti regionali del Nord, assieme a Musumeci, scalpitano per l’accelerazione sulla Fase Due, ovvero sulla riapertura per il 4 maggio e sul ritorno a “una nuova normalità”.
Fontana, che il 13 aprile aveva espresso cautela e piena fiducia nella decisione dei virologi, il giorno dopo regala il coup de théâtre, pubblicando un video con cui annuncia “la via lombarda alla libertà” e la richiesta al governo per la riapertura delle attività produttive. Seguiranno a ruota Cirio, Toti, Fedriga e Zaia, che sentenzia: “Il lockdown non esiste più”.

De Luca non ci sta: “Premono per affrettare la ripresa di tutto. La Campania chiuderà i suoi confini“.
Nascerà un duello a colpi di fioretto e di stiletto con Zaia, già contestato da De Luca per la diversa visione sui tamponi.
Zaia commenterà così la decisione del collega campano: “E’ una prima forma di autonomia, ben venga. Il Sud ha deciso di sposare il nostro progetto autonomista. Ma non chiamatelo “Nord contro Sud”. E’ “Sud contro Nord” questa roba qua. Penso che tutti i veneti che vanno in Campania in vacanza non siano tanto contenti, il che vuol dire che De Luca non sta facendo un buon servizio alla sua Regione”.
Polemica idiota e sgangherata. Siamo nel pieno del chiacchierificio nazionale – replicherà a distanza il presidente campano – Bisognerà convincersi anche a livello nazionale che qualche volta le lezioni bisogna apprenderle dal Sud”.
E sugli allentamenti locali, mantiene la barra dritta con inflessibile perseveranza: “Qualcuno mi ha scritto chiedendomi: ‘Con queste decisioni possiamo riprendere la movida?’. Ma tu sei scemo o sei buono?“.

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L’Italia torna in zona rossa per provare a contenere i contagi di Sars-Cov-2 evitando assembramenti per il veglione di Capodanno. Da oggi e fino al 3 gennaio sarà possibile circolare solo con autocertificazione (scaricabile qui), mentre richiudono i negozi dopo i 3 giorni di zona arancione (bar e ristoranti sono fermi già dal 24 dicembre). Restano aperti solo gli esercizi commerciali che vendono beni di prima necessità come supermercati, alimentari, librerie, tabacchi, edicole. Ristoranti, bar e pasticcerie, come detto, saranno chiusi, ma si potrà ordinare a domicilio o per l’asporto entro le 22. Sono tuttavia state concesse alcune deroghe agli spostamenti rispetto al lockdown che il Paese ha vissuto durante la scorsa primavera. Una misura pensata per permettere quel “minimo di socialità”, come lo ha definito il presidente del Consiglio Giuseppe Conte, nei giorni di festività natalizia. La deroga vale anche per il giorno di San Silvestro, ma attenzione al coprifuoco.

Da oggi e fino a domenica 3 gennaio, infatti, sarà possibile muoversi – tra le 5 e le 22 – una sola volta al giorno dalla propria abitazione, sempre muniti di autocertificazione e massimo in due, per andare a trovare amici e parenti in un comune della propria regione. Dal conteggio delle due persone sono esclusi i minori di 14 anni e persone non autosufficienti. È possibile uscire da casa anche per partecipare a una messa, come raccomandato dalla Cei cercando di seguire la funzione “nella chiesa più vicina alla propria abitazione”. Non avranno limiti di orario negli spostamenti invece coloro che si occupano di volontariato, “anche in convenzione con enti locali” e “a favore di persone in condizione di bisogno e di svantaggio”.

Gli spostamenti tra Regioni sono invece possibili solo per motivi di necessità, lavoro e ricongiungimenti familiari (è il caso ad esempio di un genitore separato con un figlio minorenne). Non sono quindi consentiti spostamenti extraregionali per turismo né per raggiungere le seconde case. Potrà muoversi tra due aree del Paese chi vuole trascorrere con qualche giorno durante le festività con un genitore non autosufficiente, eventualmente anche accompagnato da un figlio minorenne. Mentre resta sempre consentito il rientro presso la propria residenza, domicilio o abitazione. Il Viminale ha previsto di schierare sulle strade 70mila agenti per controllare che le regole vengano rispettate.

Chi torna dall’estero deve sottoporsi alla quarantena. Inoltre, è bene ricordare, che chi è rientrato in Italia negli ultimi 14 giorni da Gran Bretagna e Irlanda del Nord è obbligato – anche se asintomatico – a contattare la Asl e sottoporsi a tampone. Chi invece atterrerà oggi o nei prossimi giorni ha l’obbligo di sottoporsi al tampone in partenza e all’arrivo. In caso di violazione delle regole sugli spostamenti all’interno del territorio nazionale la sanzione applicabile è quella amministrativa, da 400 a 1.000 euro, eventualmente aumentata fino a un terzo se la violazione avviene mediante l’utilizzo di un veicolo. La sanzione è ridotta a 280 euro se si paga entro 5 giorni. In caso di accertamento di una violazione alle disposizioni che non si ritiene motivata si può fare ricorso al Prefetto.

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