Un sintetico richiamo a qualche dato particolarmente eloquente può aiutare a capire quello che è successo in Umbria dove è verissimo che, come sottolineava Marco Travaglio, a ridosso del voto, la regione era già pacificamente persa ed “essere in partita era già un successo”. Ma dopo il voto la valutazione è condivisibile solo per quanto riguarda il Pd che con un modesto 22% ha confermato la performance non entusiasmante delle Europee e non certamente per il M5S che, come ha rilevato l’Istituto Cattaneo, ha perso in pochissimo tempo un elettore su due e ha subito un deflusso del 3,6% verso la Lega.

Benché sia andato a votare il 10% in più rispetto alle Europee, l’astensionismo ha colpito molto duramente il M5S che, accostando dati compresi in un arco temporale che va dal 6 marzo 2018 ad oggi, è passato in Umbria dal 27% delle Politiche quando era primo partito al 14% delle Europee fino a toccare il 7,4% diventando così quarto partito dietro a FdI.

Le peculiarità negative dell’alleanza giallorossa sono troppo note e troppo dirompenti sia sotto l’aspetto tempo, modalità e storia pregressa quanto “scottanti” per dover essere ricapitolate. Così come non esistono motivi oggettivi per cui il risultato umbro possa essere incredibilmente invocato per pretendere la fine del Conte 2 in quanto “governo abusivo”, non ci sono ragioni inoppugnabili per cui “l’esperimento” che ha condotto a questa complessiva disfatta, solo in parte prevedibile nelle dimensioni, debba essere automaticamente replicato in qualsiasi competizione regionale esclusivamente in funzione dello slogan-assioma “perché se no vince Salvini”.

Il disorientamento già avvertito da una consistente parte dell’elettorato del M5S a livello nazionale per le modalità e per la tempistica con cui ha preso vita il Conte 2 ed il distacco che si è materializzato drammaticamente in Umbria dove il percorso è stato ancora più accidentato e “spericolato”, nonostante la presenza di un candidato civico rassicurante come Vincenzo Bianconi, non devono più essere ignorati o sottovalutati in vista delle prossime elezioni regionali.

Se Di Maio constata, quando gli viene chiesto di commentare le parole di Zingaretti “o l’alleanza con M5S è unita o niente governo”, che “non ci sono i presupposti per un accordo strutturale con Pd e M5S” e che non è per niente proficuo passare disinvoltamente da “mai con il M5S” ad una alleanza strutturale da riproporre sempre e comunque in quanto “alternativa vincente” nel paese, mi sembra che si limiti a prendere atto della realtà senza volerla piegare a pur legittime ma irrealistiche speranze ed aspettative e che eserciti semplicemente un po’ di buon senso politico senza fughe in avanti.

Ha ragione Giuseppe Conte quando ha affermato prima del voto e ribadito dopo che lo schiaffo sonoro all’alleanza improvvisata a tavolino tra Pd e M5S da parte di quel 2% di elettorato “non può essere letto come un giudizio sull’operato del governo” e, aggiungo, le pretese di sfratto dei vincitori umbri sono semplicemente ridicole come le accuse pittoresche e involontariamente comiche riversate sull’operato del governo che secondo FI ci garantisce un “Halloween da incubo, tutto tasse, manette, immigrati”, dunque imperdibile.

Ma il presidente del Consiglio dovrebbe forse considerare che l’avversione del tutto immotivata al suo esecutivo e alla manovra economica, che pure conserva misure condivisibili del precedente esecutivo e introduce meritevolmente incentivi alla green economy e rilevanti misure anti-evasione, deriva dal “peccato originale” del cosiddetto ribaltone e da un programma di governo last minute tra avversari-nemici percepita come una specie di improvvisata “santa alleanza” contro Salvini.

Questa “miscela negativa”, che ha nociuto in modo particolare al M5S, non deve essere riprodotta come un modello pedissequo e preteso in nome dell’asserita necessità di arrestare la corsa dei “barbari”, per il semplice motivo che non è con una manovra tattica che si mina la popolarità, fondata quanto si vuole sulla propaganda, ma reale di Salvini e Meloni.

Per questo non credo che debbano essere ascoltati “i consigli non richiesti” e dati certamente in buona fede a favore di un’alleanza tout-court in Emilia Romagna con il Pd a sostegno di Stefano Bonaccini, da sempre vicino a Matteo Renzi e già coordinatore della sua campagna elettorale nel 2013. E la circostanza che attualmente Renzi con la sua Italia Viva seguendo i tempi che ritiene più propizi cerchi di logorare il governo e inviti Conte “a stare sereno” non mi sembra possa favorire le ragioni di un’intesa elettorale tra Pd e M5S per eleggere Bonaccini.

Infine il punto essenziale sulla sonora sconfitta in Umbria ed alleanze per il M5S credo che l’abbia centrato Chiara Appendino: “Il nostro problema non è l’alleanza con il Pd ma interrogarsi sul perché Meloni e Salvini abbiano così tanto consenso… ci sono temi che loro pongono e che hanno bisogno di risposte”.

L'articolo L’Umbria non era un test nazionale ma un richiamo alla coerenza. In primis per M5S proviene da Il Fatto Quotidiano.



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