Difficile dimenticare le immagini dell'aeroporto di Kabul nell’agosto del 2021. Migliaia di persone invasero lo scalo della capitale per cercare di fuggire dal Paese, dopo il ritiro degli Stati Uniti, delle forze Nato e il ritorno dei talebani. L’Italia ha aperto le porte a 5.482 profughi, predisponendo corridoi umanitari e velocizzando le procedure per i permessi di soggiorno. L’attenzione sulla crisi afghana e sulla sua diaspora si è poi gradualmente spenta. A distanza di quasi due anni, abbiamo incontrato i rifugiati per capire a che punto sono i loro percorsi.
Tra accoglienza e autonomia: la storia di Safiullah
Secondo i dati forniti dal Ministero dell’Interno a Sky TG24, aggiornati al 19 maggio, sono quasi 3.000 gli afghani che non hanno ancora concluso il percorso nelle strutture della Rete Sai, il Sistema di Accoglienza e Integrazione gestito dagli enti locali. Ogni sei mesi si valuta per ogni nucleo familiare se ci siano le condizioni per concludere il progetto sulla base dell’autonomia raggiunta dagli ospiti. “Quando siamo arrivati in Italia abbiamo cercato lavoro come ingegneri, ma senza titolo italiano è difficile. Alcuni amici mi hanno consigliato di fare un master. Ora io e mia moglie siamo tornati studenti”, racconta Safiullah che è scappato dall’Afghanistan per dare un futuro migliore ai suoi figli ed è iscritto alla magistrale del Politecnico di Milano. “I piccoli hanno imparato velocemente la lingua. Stanno crescendo come bambini italiani. Questo Paese ci ha dato una grande opportunità. Il problema è che, finito il master, se io e mia moglie non troveremo lavoro, dovremo spostarci in un altro Paese europeo”, confessa. Safiullah e la sua famiglia sono al loro ultimo rinnovo. Elisa Antoniazzi, assistente sociale de La Casa della Carità, ci spiega che “molti progetti stanno arrivando a scadenza e tante famiglie affronteranno l’ignoto. L’autonomia abitativa è il passaggio più complicato”.
Gli studi: un percorso in salita
Sebbene siano professionisti che hanno collaborato a più livelli con le forze Nato ed enti internazionali, per gli afghani arrivati in Italia è stato spesso necessario ricominciare da zero gli studi per prendere un titolo riconosciuto e spendibile anche in Europa. È il caso di Mulkara, fisioterapista di 35 anni che in Afghanistan lavorava con la Croce Rossa Internazionale nella riabilitazione delle donne e dei bambini che hanno perso gli arti, una specializzazione molto richiesta in un Paese devastato dalle mine antiuomo. “È difficile ricominciare tutto daccapo a quest’età e riprendere la laurea”, ci racconta. Nel suo caso, la frequenza dei corsi è stata resa più complicata dalla lontananza. Per andare dalla struttura d’accoglienza dove era ospitata alla facoltà impiegava con i mezzi pubblici più di tre ore. Decisamente troppo, considerando che vive con una disabilità motoria: “Era un continuo di metro, bus, metro, bus. Ho deciso di uscire dal progetto di accoglienza e di fare richiesta per una stanza in un alloggio universitario. Adesso mi mantengo con una borsa di studio dell’ateneo e cerco un lavoro che sia compatibile con le lezioni e le sessioni d’esame”. È decisa a continuare con lo sport, la sua più grande passione. Mulkara è infatti una campionessa di basket in carrozzina, stella della nazionale afghana: “Ora non c’è più sport, né più lavoro per le donne”. A Roma ha trovato una squadra con cui giocare. Anche se la mancanza delle sue vecchie compagne si fa sentire, Mulkara sta ricostruendo la sua quotidianità fatta di allenamenti e partite.
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