novembre 2020

La Sampdoria di Massimo Ferrero ha ingaggiato un’azienda cinematografica, la Vici Srl amministrata dalla figlia Vanessa, versando 1 milione e 159 mila euro per ristrutturare gli impianti sportivi del club a Bogliasco. La stessa azienda ha poi usato parte delle somme per coprire i debiti di altre quattro società del gruppo imprenditoriale del “Viperetta”, come è conosciuto il patron dei blucerchiati. Questi elementi, però, non hanno convinto il gup Alessandro Arturi che ha ritenuto l’indagine della Procura di Roma “incompleta, contradditoria e insufficiente” per portare a processo Ferrero. Per questo motivo il gup ha deciso di prosciogliere l’imprenditore romano. Il giudice, nelle 35 pagine con cui motiva la sentenza, scrive che è lecito chiedersi se non sia stata “l’operazione di trasferimento dei capitali per l’estinzione di debiti di società terze, a sottendere una condotta di distrazione dalle casse di Vici-Eleven Finance”. Quindi, con “lo spostamento del baricentro della impostazione accusatoria verso il diverso polo gravitazionale costituito dai rapporti tra la società erogatrice della somma di 1 milione e 159 mila euro e le beneficiarie (Farvem, Cgcs, Film 9 e V Production)”, avrebbe comportato “ulteriori approfondimenti diretti a verificare l’esistenza di eventuali vantaggi”. Ma questo non è stato fatto.

L’inchiesta sui flussi finanziari del “Viperetta” – Il funambolico presidente doriano era accusato di dichiarazione fraudolenta, autoriciclaggio e truffa perché avrebbe sottratto 1 milione e 159 mila euro alle casse della Sampdoria, ovvero parte della somma della cessione di Pedro Obiang, il centrocampista della Guinea Equatoriale, venduto per 6,5 milioni di euro al West Ham nell’estate 2015. Secondo i pm romani, quei soldi sarebbero serviti a Ferrero, in concorso con la figlia Vanessa, il nipote Giorgio, ed altri due uomini di fiducia, per coprire le perdite delle sue società che si trovavano in “pericolose esposizioni debitorie”. La Sampdoria sottoscrive un contratto con la Vici per il centro sportivo “Gloriano Mugnaini” di Bogliasco. I lavori prevedono “una nuova residenza atleti, il rifacimento dei campi di allenamento e della prima squadra, e la realizzazione di nuovi spogliatoi”. Tutte operazioni che però non rientrano del core business della Vici, specializzata in campo cinematografico. Dai conti di quest’ultima partono 17 assegni circolari, per un totale di 805 mila euro alla Livinston Spa, amministrata da Ferrero, che sarebbero serviti a saldare il prestito fatto dalla Farvem Real Estate, altra società del Viperetta. Poi ci sono i 102 mila euro destinati alla Circuito Gestioni Cinematografiche e Sviluppo (Cgcs), e due bonifici da 110 mila euro alla Film 9 Srl e alla V Production Srl.

L’indagine “lacunosa ed incompleta” – Prendendo in esame la scrittura privata tra i blucerchiati e la società della figlia di Ferrero, firmata il 6 giugno, il gup Arturi spiega che la Vici funge da “general contractor”, con il compito di “reperire sul mercato primarie imprese e qualificati professionisti che saranno incaricati di progettare ed eseguire le opere del centro sportivo”. Inoltre la stessa Vici sarà incorporata nella Eleven Finance, altra società di Ferrero, che tra la mansioni ha il compito di gestire, acquistare e vendere proprietà immobiliare di suo possesso o di terzi. E “non dimostra alcunché”, dice il gup, il fatto che sia poi stata la Sampdoria ad affidare direttamente gli incarichi ad altre due società edilizie per realizzare i lavori. Quindi l’operazione appare lecita. Analizzando gli atti, le testimonianze di chi ha poi svolto i lavori, il giudice Arturi ha valutato la pianta accusatoria “lacunosa ed incompleta”, che si sarebbe basata “esclusivamente su asserzioni che, sebbene legittimate da indiscutibili profili di perplessità ricavati dalla singolare tempistica di flussi finanziari tra società dello stesso gruppo imprenditoriale, si presentano eccessivamente sbrigative ed apodittiche”. Però, scrive il gup, “la singolare scansione cronologica del versamento” si “incastra con millimetrica precisione nei termini di scadenza dei pagamenti dei debiti contratti” dalle società del presidente blucerchiato, ma “l’ipotetica ricostruzione alternativa dell’operazione finanziaria interna al gruppo Ferrero non legittimerebbe” il rinvio a giudizio, perché non si può procedere per difetto di querela.

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Un cavillo legislativo, una norma che si presta a troppe interpretazioni. E che ha aperto un lungo contenzioso tra due consorzi, con il rischio di mettere in ginocchio decine di aziende. Molte delle quali considerate un fiore all’occhiello del Made in Italy, di quel tessuto di pmi spesso lodato. Così almeno 2mila persone, tra addetti e lavoratori dell’indotto, potrebbero perdere l’occupazione. La vicenda riguarda le imprese produttrici del film protettivo e adesivo, che spesso viene applicato sugli elettrodomestici o altri prodotti. Ed è l’emblema di come la burocrazia o una legislazione opaca possa frenare l’economia. La storia è quella di un distretto collocato nel Centro-Nord Italia, tra Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna, con una forte vocazione all’export: oltre il 70% della produzione finisce all’estero.

Ma qual è il problema che vede in prima linea il ministero dell’Ambiente nel tentativo di trovare una soluzione? C’è un nodo che appare un tecnicismo, ma ha ricadute pratiche sulla vita delle imprese. I produttori di film protettivo e adesivo hanno sempre versato il contributo per la gestione dei prodotti nel fine vita, introdotto dal decreto Ronchi del 1997, al Polieco, il Consorzio nazionale per il riciclaggio di rifiuti di beni in polietilene. Dopo vari anni in cui tutto è filato liscio, però, è arrivato l’intoppo. Il Conai, il Consorzio nazionale imballaggi, ha presentato il conto: secondo l’interpretazione normativa, infatti, il contributo spetterebbe al Conai e non a Polieco. Il film protettivo andrebbe considerato imballaggio e non un prodotto in polietilene. Dopo un’iniziale fase di confronto, non c’è stato un accordo, soprattutto perché nessuno tra Polieco e Conai ha voluto rinunciare. Di mezzo ci sono finite le imprese: dal Conai sono partite le lettere per riscuotere le somme.

Stando a quanto appreso da ilfattoquotidiano.it il totale che le aziende dovrebbero versare, in caso di condanna, ammonta a circa 40 milioni di euro. Il comparto, nel suo complesso, movimenta 200 milioni. La richiesta è pari al 20 per cento dell’intera produzione. Il punto è che le aziende hanno pagato quel contributo, come riportato dai documenti ufficiali. “Occorre osservare che tali imprese hanno sempre applicato e riversato al consorzio Polieco il contributo ambientale, nel convincimento, tuttora sostenuto dallo stesso Polieco, che non si tratti di imballaggi, e, pertanto, non possono essere considerati inadempienti”, sottolinea un’interrogazione presentata alla Camera dalla deputata della Lega Simona Bordonali. “In altri Paesi dell’Ue – aggiunge la parlamentare – il film protettivo adesivo non è considerato imballaggio e non è ad esso assimilabile e non rientra nell’elenco di imballaggi della direttiva europea”. Il sottosegretario all’Ambiente, Roberto Morassut, ha confermato l‘impegno del governo su questo versante. Del resto la vicenda si trascina da oltre dieci anni.

“Il Ministero ha rilevato che per ragioni di opportunità tecnica sarebbe adeguato procedere mediante la definizione delle esclusioni ovvero anche attraverso l’inserimento di criteri chiari, basati sulle caratteristiche intrinseche dei prodotti in polietilene, secondo un approccio basato sul ciclo di vita del prodotto (durevolezza, riparabilità, riutilizzabilità, riciclabilità, presenza di sostanze pericolose)”, ha risposto al quesito sollevato da Bordonali. C’è quindi tutta la volontà di chiudere la faccenda. Tuttavia, per arrivare a una soluzione servono degli “interventi del legislatore sull’impianto normativo previsto in materia”. La convocazione di un tavolo tecnico da parte del ministro dell’Ambiente, Sergio Costa, non può essere risolutivo. Perché nel frattempo le cause con la richiesta economica vanno avanti.

Le aziende, attraverso Confapi e Unionchimica hanno chiesto di cancellare il debito, chiedendo chiaramente a chi versare i nuovi contributi. “La posizione ufficiale di Conai in materia è di totale allineamento alla risposta del Ministero e di apertura propositiva al confronto. La questione resta tuttavia aperta”, spiegano a ilfattoquotidiano.it dal Consorzio nazionale imballaggi. Quindi “c’è piena volontà di trovare una soluzione. Lo dimostra anche il fatto che durante gli incontri intercorsi tra il Consorzio e le aziende produttrici di film protettivo ed adesivo, intervenute tramite le associazioni Confapi e Unionchimica, sono state fatte contro-proposte, che sono state purtroppo rifiutate”. Nel dettaglio sul tavolo erano state messe iniziative per cancellare le sanzioni: ipotesi che ha trovato contrari gli imprenditori. “Alle imprese non cambia nulla se versano a uno o all’altro Consorzio – spiegano da Confapi – ma la questione è che se davvero i contenziosi dovessero arrivare a sentenza, le aziende dovrebbero chiudere. Perché le cifre richieste non sono sostenibili. E a quel punto la questione del contributo non si porrà più, ma ci saranno migliaia di addetti senza più un lavoro e un settore regalato alla concorrenza estera”.

foto dal sito Polieco

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Una commissione di verifica così “interna” che sembra fatta per assolvere la direzione, piuttosto che far luce sulle criticità denunciate dai medici. Un dato, da confermare, di quasi 400 camici contagiati negli ultimi due mesi che alimenta il sospetto che l’organizzazione interna di reparti possa aver contribuito a falcidiare il personale in prima linea. Poi il niet delle direzioni ospedaliere a una verifica in loco da parte dei consiglieri regionali, che attendono l’autorizzazione da dieci giorni. La vicenda Santi Carlo e Paolo di Milano arriva in Consiglio regionale. In aula, oggi, si svolgerà il question time all’assessore Gallera richiesto dalle opposizioni per fare chiarezza sulla vicenda della famosa “lettera dei cinquanta”, il documento interno in cui medici d’urgenza e infermieri dei due ospedali milanesi descrivevano al loro direttore generale la situazione estrema in cui si trovavano a operare, tra afflusso incontrollato ai pronto soccorso e insufficienza del personale sanitario, al punto di costringerli a “dilazionare l’accesso a terapie e tecniche” e fare scelte “né clinicamente né eticamente tollerabili”.

La reazione della direzione generale è stata molto dura. E’ partita con la sconfessione pubblica dei medici bollati come bugiardi dall’Asst, la repentina rimozione del loro primario Francesca Cortellaro, una campagna di raccolta firme promossa proprio dall’azienda sanitaria che ha trasformato un problema di salute pubblica in un referendum interno sul direttore Matteo Stocco, nominato due anni fa da Gallera. Una situazione di conflitto interno che non ha certo aiutato i medici, sulla quale ha deciso di vigilare anche il ministero della Salute.

La coda della vicenda pone nuovi interrogativi. Il 26 novembre il direttore Stocco delibera la costituzione di una “commissione interna di indagine per la verifica delle cure prestate presso il presidio ospedaliero San Carlo nei mesi di ottobre/novembre 2020”. L’assessore Gallera ha subito fatto sapere che la Regione prenderà posizione sulla vicenda solo una volta che la verifica sarà terminata. Tempistica, oggetto e composizione della commissione però alimentano le domande dell’opposizione che hanno preparato diversi interventi, compresa una mozione per chiedere la commissione appena istituita sia rifatta da capo e affidata all’anticorruzione regionale.

Audit interno, pure troppo
Il problema è che i componenti designati sono otto interni e un solo esterno. Tre, per altro, sono firmatari della “contro-lettera” del 20 novembre che, esprimendo solidarietà alla direzione, sconfessava apertamente quella dei colleghi di cui ora dovrebbero controllare il lavoro, accertando le condizioni in cui operavano, in pieno conflitto di interessi. Rivestono tutti un ruolo importante nell’Asst, lontano dai medici che operano sul campo e vicino alla direzione strategica, cui sono legati a doppio filo proprio per la natura fiduciaria del loro ruolo di “capi dipartimento” e “direttori di struttura complessa”.

L’imparzialità di giudizio, questo il punto, non sarebbe garantita. Lo rilevano anche i sindacati interni della dirigenza medica e sanitaria che due giorni fa hanno sottoscritto una formale contestazione alla direzione, chiedendo che la commissione d’indagine “sia posta nelle condizioni di lavorare in totale serenità ed equilibrio e di presentare un’autorevolezza ed indipendenza indiscutibili, innanzitutto garantendone una più equa ed equilibrata composizione”. Per gli stessi motivi, il Partito Democratico si è fatto promotore di una mozione urgente che chiede di azzerarla del tutto, in favore di una che sia terza e indipendente, con componenti attinti non solo dalla direzione ospedaliera, con consulenti indicati dal ministero della Salute, rappresentanze sindacali dei dirigenti medici e del personale infermieristico. A guidarla, un soggetto terzo che non sia espresso da Regione Lombardia. A capo, l’ex magistrato già numero uno della Cassazione e della Corte d’Appello di Milano Giovanni Canzio. I Cinque Stelle avevano proposto che a occuparsene fosse la commissione d’inchiesta regionale sul Covid.

Il “pac-man” ai tempi del covid
E veniamo al numero di contagi tra il personale medico e infermieristico. La direzione, a precisa domanda, ha preferito non fornirli ma fonti interne parlano di quasi 400 contagi solo nell’ultimo mese e mezzo. Un numero impressionante. Oltre che dal maggior numero di tamponi eseguiti rispetto alla prima ondata, potrebbe dipendere dall’organizzazione interna dell’ospedale. Per capire di cosa parliamo bisogna aprire questo documento. E’ la pianta dei reparti del San Carlo. A guardarla sembra il “pac-man del coronavirus”: vince il gioco chi disegna il percorso più breve verso la salvezza, evitando trappole, giri a vuoto e porte girevoli. Molti non hanno vinto, ma si sono infettati, rischiando la vita, sguarnendo ulteriormente la prima linea dei sanitari impegnati a salvare i pazienti. Quanti, esattamente, non si sa (la direzione, come detto, ha deciso di non rispondere). Per questo il consigliere dei Cinque Stelle Gregorio Mammì ha deciso di depositare una richiesta di accesso agli atti.

I criteri per la riapertura
Regione Lombardia il 7 maggio scorso, esaurito il picco della prima ondata, aveva dato indicazioni di riaprire i reparti per l’attività ambulatoriale, diagnostica e di ricovero programmate che erano state sospese a febbraio. I criteri per le riaperture sono stati definiti dal Comitato Tecnico Scientifico in un documento del 5 maggio che dettaglia le “linee di indirizzo atte a contenere il rischio di ripresa di focolai epidemici da SARS – COV2, mediante misure di prevenzione e protezione di tutti i soggetti che afferiscono alle strutture sanitarie”. Sull’organizzazione delle strutture ospedaliere il documento è tassativo: accessi e percorsi al pronto soccorso e ai reparti devono essere separati in funzione della “certezza o probabilità di pazienti positivi”. Area grigia per i sospetti, verde per i negativi, rossa per covid accertati.

Anche al San Carlo aree e reparti sono stati riorganizzati. Come in altri vecchi ospedali italiani con struttura a “monoblocco” le aree covid sono distribuite verticalmente lungo i 10 piani e orizzontalmente nei vari settori, anziché compartimentate isolandole fisicamente. Il risultato è una divisione a “macchia di leopardo” che facilita la promiscuità dei percorsi. Partendo dall’alto. Al piano 10 c’è il servizio di dialisi (pulita), il blocco operatori e la rianimazione Covid. Al 9 la chirurgia (pulita), ambulatori vari e la medicina covid. Al quarto piano c’è la riabilitazione covid, la riabilitazione pulita e l’oncologia. Al 3 la medicina covid (sez.A) la medicina covid (sez.B) e la cardiologia (sez.D).

Stesso discorso per il reparto d’urgenza (DEA) dove si colloca il Pronto Soccorso. Questa la mappa. Il passaggio dei pazienti dal blocco DEA dove è situato il PS e le aree critiche, avviene attraverso il “Quadrato C” in percorsi non dedicati al solo passaggio dei malati covid ma promiscui. L’accesso degli utenti al Centro di prenotazione (CUP) e agli ambulatori è garantito solo transitando dall’accesso principale del monoblocco, causa i cantieri aperti, che hanno impedito l’accesso direttamente al CUP e a molti ambulatori attraverso il Quadrato C. Anche al San Paolo la dislocazione fa coesistere sullo stesso piano reparti che sarebbe stato meglio tenere del tutto distinti. Al blocco A sesto piano, ad esempio, convivono la medicina III con 24 posti letto covid e la riabilitazione specialista “non covid” da 10 posti letto. Non solo.

Il virus rispetta le linee
I percorsi sporco/pulito separati erano una prescrizione già prima del Covid. Nella prima ondata si è capito quanto fosse necessario dividerli per garantire la sicurezza a pazienti e medici che vi transitano, insieme a carrelli, documenti e macchinari. Oggi, ovunque, dovrebbero essere del tutto separati e circolari. Ma solo nella teoria, nella pratica così non è. “Al San Carlo ancora oggi nello stesso corridoio che porta dal pronto soccorso ai reparti passano utenti esterni, personale, pazienti operati salme di defunti. Lo abbiamo più volte segnalato, ma non hanno mai riorganizzato”, spiega un medico. “I percorsi sporco/pulito non ci sono neanche nella camera operatoria del blocco parto, tanto che gli interventi in urgenza non possono essere fatti lì ma devono portare la partoriente nel blocco operatorio centrale”. In questo quadro di promiscuità, la direzione ha ritenuto però utile e necessario indicare i percorsi dipingendo a terra delle linee: la linea verde indica il passaggio del pulito, la rossa quella dello sporco. Che convivono però negli stessi corridoi, come se il virus rispettasse delle linee disegnate sul pavimento.

L’accesso negato ai consiglieri
Il viceministro Sileri ha ventilato la possibilità di recarsi personalmente nei due ospedali. Anche i consiglieri regionali ci hanno provato, ma l’impresa per ora si è rivelata tutt’altro che facile. Tra questi c’è Carmela Rozza (Pd), ex infermiera ed ex sindacalista della Cgil Funzione pubblica sanità, già assessore alla sicurezza al Comune di Milano. “Volevo andare di persona al pronto soccorso del San Paolo e San Carlo per capire cosa stesse succedendo”, racconta. “A dire il vero volevo andare in tutti gli ospedali, dove sono emerse pesanti criticità: al Sacco, al Policlinico e così via. In un caso la primaria mi ha fatto entrare ma la direzione mi ha poi negato l’accesso dicendo che serve l’autorizzazione preventiva della Presidenza del consiglio regionale. Ho inoltrato la mia richiesta 10 giorni fa, non ho ancora avuto risposta”.

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Un farmaco long acting, vaccini terapeutici in sperimentazione clinica e nuove molecole allo studio che inibiscono l’ingresso del virus. Quello dell’Hiv: il più temuto dagli scienziati prima che meno di un anno fa arrivasse Sars Cov 2. In tempi di Covid-19, tutto il resto sembra passato in secondo piano, come la prevenzione e gli screening, ma la ricerca non si è fermata e prosegue la decennale lotta a una delle più pericolose piaghe mondiali.

Ecco perché quest’anno la Giornata mondiale contro l’Aids assume ancora più importanza: da un lato si vogliono “risvegliare” le coscienze sull’importanza della prevenzione e dello screening e dall’altro si vuole ricordare che la scienza non ha rinunciato alla ricerca di una cura. “Dopo anni di successi – osservano gli esperti – in questi ultimi mesi siamo stati travolti dalla pandemia di Covid-19 che ha rallentato screening e trattamenti”, avverte la Società italiana di malattie infettive e tropicali (Simit). “Abbiamo la necessità, a pandemia in corso e con i reparti di malattie infettive invasi da paziente con Covid-19, di garantire lo stretto necessario per il ricovero delle patologie acute Hiv/Aids correlate – dice l’infettivologo dell’ospedale Sacco e dell’università degli Studi di Milano, Massimo Galli – considerando questa malattia né più né meno delle altre a cui per questo è stato provveduto nel contesto specialistico corretto”.

PASSI AVANTI E NUOVI SCENARI – “La ricerca è andata avanti e lascia intravedere nuovi scenari per il 2021”, sottolinea la Simet. In cantiere ci sono numerose novità. “Gli studi HPTN83 e HTPN84 sono tra i più rilevanti dell’ultimo periodo”, riferisce Antonella Castagna, primario di Malattie infettive all’Irccs ospedale San Raffaele di Milano. “L’introduzione di un farmaco long acting somministrato per via intramuscolare ogni 8 settimane – continua – ha portato a una significativa riduzione delle nuove infezioni di Hiv, sia nelle donne che nei maschi che fanno sesso con maschi: questa è una delle acquisizioni più importati di questi ultimi mesi”. Sono stati fatti tanti altri passi in avanti e l’Italia gioca un ruolo di primo piano.

“Il nostro paese è coinvolto nella sperimentazione di nuove molecole con meccanismi d’azione innovativi tra cui l’inibizione dell’ingresso nella cellula, l’inibizione della maturazione virale e quella del capside virale”, dice Castagna. “Vi è innovazione anche nelle strategie terapeutiche: a fianco della triplice terapia nella sua attuale formula standard, adesso abbiamo la possibilità di proporre ai pazienti una terapia con due farmaci: una grande conquista nella gestione a lungo termine del paziente. In questo scenario – continua – si colloca il parere preliminare positivo di Ema (Agenzia europea del farmaco, ndr) sull’autorizzazione in commercio dell’associazione rilpivirina+cabotegravir, sei iniezioni intramuscolari l’anno nella terapia di semplificazione, una rivoluzione e una sfida che gestiremo nel 2021”. Anche sul fronte vaccini la ricerca continua, ma siamo ancora molto lontani dalla sua realizzazione. “Si sta lavorando, ma quello che di concreto abbiamo sono vaccini terapeutici in sperimentazione clinica che non prevengono il contagio, ma sembrano in grado di ‘potenziare’ il sistema immunitario delle persone sieropositive, aumentando la loro capacità di contrastare il virus”, spiega Giovanni Maga, direttore dell’Istituto di genetica molecolare del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr-Igm).

Ma ogni progresso è subordinato all’attuale emergenza. “Se riusciremo a controllare la pandemia di Covid-19 – dice Castagna – potremo offrire ai pazienti un percorso terapeutico nuovo, di semplificazione nei pazienti in soppressione virologica, di ottimizzazione nei pazienti con opzioni terapeutiche limitate, ponendo più attenzione a quelli che sono gli outcomes rilevanti per la qualità di vita del paziente. Nonostante le difficoltà nella gestione dei pazienti cronici, per la ricerca è un momento di grande fervore”. Pandemia permettendo, anche sul fronte dell’assistenza e dello screening il prossimo anno potrebbe riservare grandi novità. “Il protrarsi della pandemia – osserva Galli – pone la necessità di nuovi strumenti, anche, ma non soltanto, di medicina a distanza, che possano consentire di affrontare le due facce sociali della cronicità: da un lato infatti la terapia ha offerto l’opportunità di poter invecchiare; dall’altro vi è la conseguente necessità di potenziare le reti e i servizi per l’assistenza multidisciplinare delle malattie associata a un invecchiamento talvolta più precoce”.

RAFFORZARE IL SISTEMA DI LOTTA – Una cosa è però certa: “Occorre rafforzare il sistema di lotta all’Aids”, dice il presidente della Simit Marcello Tavio. “Bisogna creare e rafforzare una rete, intesa nel senso di squadra, che possa mettere in contatto istituzioni, amministrazioni locali, medici di famiglia, specialisti infettivologi, community dei pazienti. In particolare – continua – bisogna portare gli infettivologi sul territorio a fianco del medico di medicina generale, in quanto certe patologie infettive come l’Aids non possono essere delegate nella loro gestione territoriale senza interessare ulteriormente l’ospedale e puntando su un modello meno caratterizzato dall’ospedale”. In Italia si tratta di una questione urgente, tanto più in questi tempi di pandemia.

Foto di archivio

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L’epidemia di Hiv non si vede ma non si arresta. Nonostante il progressivo calo delle nuove diagnosi di infezioni dal 2012, confermato anche nel 2019 (2531 rispetto alle 3003 nel 2018 e 4162 nel 2012), che registra il Centro operativo Aids dell’Istituto superiore di sanità (Iss) nell’ultimo rapporto, gli sforzi della scienza non hanno mai portato né a un vaccino né a una cura miracolosa contro il virus. Per Sars Cov 2 invece in meno di un anno siamo a un passo dall’antidoto. “È molto più complicato trovare un vaccino efficace contro l’Hiv – dichiara Massimo Andreoni, direttore scientifico della Società italiana di malattie infettive e tropicali (Simit) e primario di Infettivologia al Policlinico Tor Vergata di Roma -. I due virus hanno caratteristiche molto diverse. Quello dell’Hiv, a differenza del nuovo coronavirus, ha un alto tasso di mutazione e risulta più sfuggevole all’immunità prodotta da un eventuale vaccino. Ce ne vorrebbero tanti, personalizzati, e comunque non basterebbero, perché l’Hiv muta anche all’interno del singolo soggetto infettato tanto da esaurire la capacità di risposta del suo sistema immunitario”.

Un’altra differenza, spiega l’infettivologo, riguarda la modalità di sopravvivenza. “Il virus Hiv tende a integrarsi con il genoma delle nostre cellule risultando perciò meno riconoscibile, mentre Sars-Cov2 si replica costantemente stimolando una risposta immunitaria specifica”. A distanza di quasi 40 anni dalla sua scoperta, il virus Hiv una volta contratto può essere tenuto sotto controllo ma l’idea di una sua eradicazione è ancora molto lontana. “Sono in sperimentazione da un paio di anni, soprattutto negli Stati Uniti, delle terapie genetiche per estirparlo dal genoma cellulare mediante delle forbici molecolari create in laboratorio – spiega Andreoni -. I risultati sono soddisfacenti al momento, ma si tratta di tecniche molto sofisticate e poco utilizzabili in una terapia di massa”.

Se da una parte è vero che sono in costante diminuzione i nuovi casi di Hiv in Italia, con un’incidenza che è inferiore a quella del resto dell’Ue (4,2 nuove diagnosi per centomila residenti contro 4,7), dall’altra si arriva troppo tardi al test. Secondo il rapporto dell’Iss, il 60 per cento delle persone diagnosticate nel 2019 erano già in fase avanzata di malattia pur essendo positive al virus già da molto tempo. E dal 2017 la quota delle diagnosi tardive è in aumento: oggi un terzo scopre l’infezione dopo la comparsa dei sintomi (come febbricola e diarrea persistente, dimagrimento, linfoadenopatia generalizzata). Poi c’è un sommerso che preoccupa. “Oggi calcoliamo 18mila persone che vivono in Italia con l’infezione da Hiv ma che non sanno di averla – denuncia Andreoni -. È necessario intercettare queste persone mettendo in atto nuove strategie di screening, come i camper con test Hiv nelle zone della movida, per favorire diagnosi più precoci in modo che chi si è infettato inizi subito la cura e non trasmetta l’infezione ad altri. Il rischio diversamente è che l’organismo non risponda alla terapia e qualcuno muoia. Se il sistema immunitario è già troppo compromesso è più facile l’insorgenza di polmoniti o tumori correlati all’Aids”.

Le fasce di età più colpite sono quelle tra 25 e 29 anni (10,4 nuovi casi ogni 100mila residenti) e tra 30 e 39 anni (9,8 nuovi casi ogni 100mila residenti), rileva l’Iss. E l’incidenza dei maschi supera di quattro volte quella delle femmine. Inoltre, per la prima volta, riporta l’Istituto, la quota di nuove diagnosi di Hiv tra omosessuali ha raggiunto quella riferibile ai rapporti eterosessuali (42 per cento). “Anche se – osserva il direttore scientifico della Simit – l’incidenza è uguale, c’è una prevalenza più alta tra i maschi che fanno sesso con i maschi perché restano numericamente minori”.

Non esiste un vaccino contro l’Hiv ma l’infezione può essere prevenuta usando il preservativo, l’arma migliore. La maggior parte delle nuove diagnosi (l’84,5 per cento), denuncia l’Iss, è infatti dovuta a rapporti sessuali non protetti. “Il preservativo protegge da tutte le altre malattie sessualmente trasmesse, oltre che dalle gravidanze indesiderate. Per questo motivo – sottolinea Andreoni – sono necessarie campagne di sensibilizzazione tutto l’anno e l’educazione sessuale in classe”. Un altro metodo di prevenzione è la profilassi pre-esposizione (nota come prep). “Viene prescritta dallo specialista negli ambulatori per le malattie sessualmente trasmesse ed è a pagamento. Ma il preservativo – ripete il medico – protegge da tutte le altre infezioni ed è più economico”.

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Altoparlanti “dissuasori” in centro con ingressi contingentati nelle vie dello shopping. E poi centri commerciali chiusi nel weekend e orari dei ristoranti in linea con i decreti governativi. Nonostante i dati confortanti in arrivo dall’ultimo bollettino – la Capitale per la prima volta a novembre sotto i mille contagi giornalieri – Roma e il Lazio non ridurranno le misure restrittive. Almeno finché non arriverà un nuovo Dpcm a ridefinire i criteri per le regioni “gialle”. “A chi dice di riaprire tutto rispondo che errare è umano e perseverare è diabolico”, ha dichiarato il governatore del Lazio, Nicola Zingaretti. E le immagini delle lunghe file provenienti dal nuovo mega centro commerciale “Maximo”, aperto in città da pochi giorni, non hanno fatto che allarmare i responsabili dell’unità di crisi regionale, frenando qualsiasi idea su un parziale allentamento delle maglie anti-assembramento.

Almeno al prossimo fine settimana, dunque, resteranno attive le misure messe in campo dalla Regione Lazio e dal tavolo fra Prefettura e Comune di Roma il 12 novembre scorso. In particolare, la Capitale ormai da tre weekend ha “contingentato” – anche se il termine non piace alle autorità prefettizie – gli accessi al Tridente Mediceo (l’area che comprende via del Corso e le strade limitrofe fra Piazza Venezia e Piazza del Popolo) e le principali vie del rione Prati. Il numero chiuso viene garantito dalla chiusura le stazioni Spagna e Flaminio della metro A, ma anche da check point presidiati dalle forze dell’ordine e attraverso altoparlanti posizionati a bordo delle auto di polizia e carabinieri che chiedono ai cittadini di “circolare” quando si creano assembramenti.

Sempre a metà novembre, la Regione Lazio è dovuta intervenire per “chiarire” i termini delle aperture dei centri commerciali. Grazie a un cavillo interpretativo della norma nazionale, infatti, alcune grandi strutture di vendita al dettaglio, come la centralissima Rinascente di via del Tritone e il punto Ikea ad Anagnina, erano riuscite a rimanere aperte anche la domenica. Un’ulteriore ordinanza firmata dal governatore Zingaretti, tuttavia, ha chiarito i dubbi, intimando la chiusura nel fine settimana di tutte le strutture commerciali (eccetto quelle a vocazione “alimentare”) la cui estensione superi i 2.500 metri quadri. Le indiscrezioni provenienti da Palazzo Chigi, tuttavia, lasciano intendere che questo vincolo – almeno per le regioni “gialle” come il Lazio – possa cadere al prossimo provvedimento, per dare il via libera allo shopping natalizio.

L’ultimo bollettino – condizionato dalla minore attività domenicale – come detto conferma il trend positivo a Roma e nel Lazio. Su 20.000 tamponi si sono registrati 1.589 casi positivi, con 39 decessi e 1.061 guariti giornalieri e un rapporto tra positivi e tamponi sceso sotto l’8%, “il dato più basso del mese di novembre”, sottolinea il comunicato dell’assessore alla Sanità, Alessio D’Amato. Sempre nel Lazio, fa sapere la Regione, il 50% dei medici di medicina generale e il 60% dei pediatri di libera scelta ha aderito al programma di somministrazione dei tamponi rapidi per i loro pazienti.

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VENEZIA – Assembramento. E’ questa la parola che anima gli incubi degli amministratori impegnati a cercare di arginare la diffusione della pandemia. Lo ha detto durante la conferenza stampa nella sede della protezione civile di Mestre Luca Zaia, governatore del Veneto, una Regione che sta vivendo un paradosso. E’ rimasta tra le poche in “zona gialla”, quindi con possibilità di spostamenti tra Comuni e province, con i negozi quasi sempre aperti e con una vita quasi normale. Ma adesso, mentre le altre realtà italiane più inguaiate stanno dando segnali di miglioramento – con declassamento e ritorno da zone rosse ad arancione come Lombardia e Piemonte – il Veneto ha un Rt che si è assestato a 1.20. “Qualche tempo fa era un dato positivo – ha detto Zaia – se rapportato alle altre Regioni, adesso è tra i valori più alti in Italia”. E questo spiega la preoccupazione che si respira in Veneto, dove la zona, in realtà, era stata battezzata “gialla plus” da Zaia, che si era scagliato contro gli assembramenti nei centri storici e nelle spiagge, durante il rito dello spritz e nei negozi. Adesso il Veneto attende il 3 dicembre come data clou in cui si fisseranno, in sede nazionale, i criteri per ridurre gli spostamenti per le festività natalizie.

E lo fa in un clima di apprensione. “Abbiamo raggiunto una fase alta della curva che consideriamo apicale, è una fase nella quale non si cresce e non si cala con i ricoveri, siamo in una fase di stabilità. – ha aggiunto Zaia – Quanto durerà questo stato di ‘pianoro’? Non è possibile stabilirlo. Adesso dobbiamo fare attenzione agli assembramenti. Se si guardano i dati, negli ospedali ci sono quasi 3000 persone ricoverate, la punta più alta di marzo era 2.400, ma va considerato il rapporto positivi-tamponi. Oggi abbiamo meno incidenza dei positivi sui tamponi fatti. E anche abbiamo anche una mortalità minore, +1% rispetto a novembre 2019, mentre a marzo era +32% rispetto a marzo 2019. Ma abbiamo negli ospedali 600 persone ricoverate in più rispetto a marzo”. Perché? “Oggi il virus circola molto di più, siamo tutti liberi mentre a marzo eravamo in lockdown”.

Ecco il problema, circolazione significa assembramento. E questo determina il tasso di infezioni. Ma cosa si è fatto in Veneto, tenendo conto della linea nazionale, con il coprifuoco alle 22 e gli esercizi pubblici chiusi alle 18? Centri storici, trasporti, negozi ed esercizi pubblici sono le principali preoccupazioni. Il 12 novembre la Regione Veneto ha disposto l’obbligo di usare la mascherina al di fuori dell’abitazione. Ha ammesso l’attività sportiva, motoria e le passeggiate all’aperto purché con distanza di sicurezza interpersonale di 2 metri per l’attività sportiva e di un metro per ogni altra attività punto. L’accesso agli esercizi di vendita di generi alimentari è stato consentito a una persona per nucleo familiare punto. Divieto di mercato senza un apposito piano comunale con perimetrazione, un solo varco arco di accesso o di uscita, sorveglianza pubblica e privata per verificare il rispetto dei divieti di assembramento. Nei negozi, raccomandazione di far accedere le persone con più di 65 anni nelle prime due ore di apertura dell’esercizio, in modo da evitare contatti con il resto della popolazione. Nei bar, dalle 15 fino alla chiusura dell’esercizio (le 18) la somministrazione di alimenti e bevande è stata autorizzata “esclusivamente con consumazione da seduti all’interno e all’esterno dei locali”. Vietata la consumazione di alimenti e bevande all’aperto, su area pubblica o aperta al pubblico, salvo che nel posti seduti degli esercizi.

Una stretta anche (nei giorni prefestivi) con chiusura delle “grandi e medie strutture di vendita, sia con esercizio unico, sia con più esercizi comunque collegati, ivi compresi i complessi commerciali”; la deroga riguarda vendita di generi alimentari, farmacie, parafarmacie, tabaccherie ed edicole”. Nei giorni festivi, invece, vietato ogni tipo di vendita anche in esercizi di vicinato. Norme di controllo per il servizio di trasporto pubblico locale. Il 24 novembre, visto che la situazione non migliorava, la Regione ha dato norme più stringenti per la somministrazione di alimenti e bevande, evitando la forma del buffet. E ha indicato dei limiti per l’accesso ai negozi: un cliente in negozi fino a 40 metri quadrati di superficie di vendita, un cliente ogni 20 metri quadrati in negozi fino a 250 metri quadrati, un cliente ogni 30 metri quadrati al di sopra dei 250 metri quadrati di superficie. Nelle code all’esterno, oltre al distanziamento tra le persone, istituito anche l’obbligo per il responsabile dell’esercizio di far rispettare la norma, a pena di sospensione dall’attività, con sistemi di contapersone. Chiusura anche nei giorni prefestivi dei negozi di grandi e medie dimensioni, oltre al divieto domenicale.

Il giorno dopo (25 novembre) sull’onda delle proteste, Zaia ha cambiato i parametri dei negozi, con un cliente per ogni negozio di superficie fino a 40 metri quadrati, ma un cliente ogni 20 metri quadrati per tutti gli altri esercizi. Commento di Zaia: “Abbiamo fatto qualcosa di unico con le ordinanze che hanno chiuso i negozi la domenica e regolamentato gli ingressi, che hanno ridotto gli assembramenti e i passeggi nei centri storici e nelle località turistiche”. Ma non è bastato per invertire totalmente la tendenza.

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“Con il prossimo dpcm, che fisserà le regole per il Natale, ci si vorrebbe fidare dei cittadini. Ma se poi il ritorno che abbiamo dopo il primo allentamento delle misure è questo…”. Achille Variati, il sottosegretario in quota Pd al ministero dell’Interno, ha ben impresse le immagini degli assembramenti che si sono verificati nei centri storici durante l’ultimo weekend, specie nelle città appena uscite dalla zona rossa. E non esclude che quei “comportamenti irresponsabili” ora possano “pesare” sul nuovo provvedimento a cui sta lavorando il governo. “La superficialità non è tanto di chi decide di andare a fare due passi in centro, a maggior ragione se sono stati riaperti i negozi, ma di chi non fa marcia indietro quando vede che c’è troppa gente”, commenta a Ilfattoquotidiano.it. Da un lato serve maggiore consapevolezza dei rischi da parte dei cittadini, quindi, ma dall’altro tocca alle istituzioni adottare le misure necessarie per evitare che scene del genere si ripetano. E Variati, che per 15 anni è stato sindaco di Vicenza (a inizio anni Novanta e poi dal 2008 al 2018), oltre che consigliere regionale in Veneto e presidente dell’Unione delle province, questo lo sa bene. “L’attuale dpcm prevede già che sindaci e Regioni possano intervenire, servono delle ordinanze locali“. Un esempio? “Sembra una banalità, ma prevedere dei sensi unici nelle vie dello shopping aiuterebbe a decongestionare i flussi”.

Sottosegretario, è davvero colpa dei cittadini?
“In un momento in cui la situazione epidemiologica del Paese è ancora grave, con le terapie intensive in difficoltà in molte Regioni, ed essendo ormai noto a tutti che il virus passa da polmone a polmone utilizzando gli assembramenti tra le persone, quei comportamenti a cui abbiamo assistito sono da irresponsabili. Suonano ancora più duri non solo nei confronti di medici e infermieri impegnati in prima linea negli ospedali, ma anche verso quelle attività economiche che stanno pagando un prezzo altissimo, come ristoranti e palestre. I loro sacrifici non vanno vanificati. Però va detta una cosa: è legittimo voler uscire dopo tante settimane di lockdown, soprattutto ieri con l’accensione delle luminarie natalizie in tante città che rappresentano quasi un momento di luce in un momento così buio. Il problema è quando ci si trova davanti a una folla di persone e si decide comunque di restare.

Anche le istituzioni però devono fare la loro parte. Cosa si può fare e a chi spetta decidere?
Quando il governo, ormai diverse settimane fa, ha dato a sindaci e Regioni il potere di emanare provvedimenti più restrittivi rispetto a quelli nazionali è anche perché sono loro a conoscere bene il territorio e a poter valutare le misure più efficaci in ogni circostanza. Viviamo in un Paese dove c’è chi chiede da anni maggiore autonomia, ma questo significa anche assumere decisioni che non portano consenso. Ora intendiamoci: noi non vogliamo tirarci indietro. Il Viminale si è schierato sin dal primo giorno al fianco dei sindaci, mettendo a disposizione la polizia di Stato. La collaborazione tra Stato e Comuni avviene soprattutto nel Comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica, di cui fanno parte anche il prefetto, il questore, i comandanti provinciali. È lì che vanno prese le decisioni.

Ad esempio?
Una soluzione per le vie dei negozi potrebbe essere quella di stabilire un senso unico di marcia. Magari è una banalità, però è già qualcosa: in questo modo si eviterebbe di incrociare i flussi e le forze dell’ordine riuscirebbero abbastanza agilmente a far rispettare l’obbligo. Per introdurlo, ad esempio di domenica, basta una disposizione del sindaco, supportata dalla polizia locale e magari dalle forze di polizia con l’aiuto del questore.

Non possono essere trovati anche dei deterrenti? Ad esempio una maggiore presenza degli agenti, il posizionamento di cartelli come in metropolitana.
Sicuramente, però va anche detto che le forze dell’ordine non possono misurare con il metro se le regole vengono rispettate. Di fronte a folle di cittadini in strade e piazze, gli agenti possono fare poco se non sono supportati da regole comunali o regionali.

Una proposta avanzata dal coordinatore del Cts Agostino Miozzo è quella di introdurre una sorta di “numero chiuso” alle vie dello shopping. Lei che è stato sindaco per tanti anni, cosa ne pensa?
Sulla carta è un’ottima idea, e magari in alcune città potrà essere recepita. Però in tante circostanze è difficile da realizzare. Spesso le vie dello shopping hanno molte strade che si intersecano, servirebbero dei check point degli agenti a ogni accesso, una comunicazione costante per sapere in tempo reale qual è l’afflusso di persone.

Il Viminale invece cosa ha intenzione di fare in vista delle festività?
Innanzitutto le cito un dato: ieri, proprio quando sono stati segnalati tanti assembramenti nelle città, sono stati controllati oltre 79mila cittadini e ne sono stati sanzionati 1.119 (ovviamente gli agenti tendono a rimproverare verbalmente chi non rispetta le regole, le sanzioni vere e proprie scattano quando le persone si rifiutano di rispettarle). 41 i cittadini che hanno violato l’obbligo di quarantena, perché positivi, e per cui è scattata anche la denuncia penale. Gli esercizi commerciali che sono stati controllati ammontano invece a quasi 15mila in un solo giorno. Una sessantina quelli chiusi o sanzionati. L’indicazione del ministero – in attesa che venga approvato il nuovo dpcm – è quella di rafforzare ulteriormente i controlli. Anche se bisogna tenere conto di tanti fattori.

In che senso?
Ci troviamo in una situazione molto complicata. I primi divieti sono scattati a febbraio-marzo, poi l’attenzione si è allentata durante l’estate e ora ne paghiamo le conseguenze. La gente è stanca, i commercianti chiedono maggiori libertà di accesso ai loro negozi. E’ chiaro che la salvaguardia della salute è la priorità, ma il governo è impegnato anche per garantire la sopravvivenza delle centinaia di migliaia di piccole aziende del nostro Paese. C’è un rischio di tensioni sociali che non possiamo trascurare, lo dimostra il fatto che di fronte alle varie manifestazioni di piazza che ci sono state in questi mesi il Viminale ha sempre cercato di evitare scontri. Non vogliamo esasperare gli animi, c’è un delicato equilibrio da mantenere.

Come sarà allora il nuovo dpcm?
È chiaro che ci si vorrebbe fidare dei cittadini, il cui rispetto delle regole ha permesso di contenere la curva epidemiologica e di arrivare a queste prime riaperture. Però se nella prima occasione di minima libertà – penso alle ex zone rosse come Lombardia e Piemonte, ma anche ad altre città – il ritorno che abbiamo è questo, c’è il rischio che comportamenti del genere possano pesare sul nuovo dpcm. In attesa delle regole definitive, al Viminale stiamo comunque elaborando un piano per arrivare preparati. Soprattutto nel caso in cui non ci si potrà muovere tra Regioni se non per giustificati motivi. Ci saranno controlli fortificati nelle stazioni, negli aeroporti, nei caselli autostradali. Controlli severi e razionalizzati su tutto il territorio nazionale.

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Il neopresidente eletto degli Stati Uniti, Joe Biden, si è fratturato un piede mentre giocava con Major, uno dei suoi due pastori tedeschi. I suoi collaboratori lo hanno portato subito dal medico e dovrà indossare un tutore per le prossime settimane. Nonostante questo, il più anziano presidente della storia americana, 78 anni, ha tenuto regolarmente il suo discorso a Wilmington in Delaware, sostenuto da sua moglie e da Kamala Harris.

L'articolo Joe Biden si frattura un piede giocando col cane: l’uscita zoppicante dal centro medico – Video proviene da Il Fatto Quotidiano.



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Ho un’enorme, sincera ed irrefrenabile ammirazione per tutti gli studenti che in questi giorni hanno deciso di protestare facendo lezione al di fuori delle loro scuole superiori.

Mi commuove la loro voglia di scuola, il loro desiderio di farla tornare ad essere ciò che è sempre stata: una relazione tra generazioni, fatta dal vivo, corpo insieme a corpo, per far sì che crescano e diventino autonomi cittadini responsabili, capaci di amministrare questa sfortunata Repubblica in modo migliore di quanto è stato fatto sino ad adesso. Di realizzare davvero quel diritto che è scritto così chiaramente nella nostra Costituzione.

Non posso però fare a meno di notare la loro enorme e disarmante ingenuità nel chiedere, sic et simpliciter, di tornare a scuola, immaginando che la scuola sia un luogo sicuro. Perché non è così: non lo era prima della pandemia (basta dare un’occhiata alle statistiche che ci parlano di un patrimonio edilizio in buona parte deteriorato, insalubre, rischioso, in cui si fanno frequentare classi composte da un numero abnorme di allievi), non lo è stato durante la prima ondata e non lo è adesso.

Le discussioni che pretendono di stabilire se sia il caso o meno di riaprire le scuole rispetto all’andamento della curva dei contagi, o sulla base di un astratto ‘diritto allo studio’ per garantire il quale, in realtà, farisaicamente, nulla si fa, sono oziose e addirittura fuorvianti.

La scuola in Italia è un posto insicuro a prescindere: perché i locali sono clamorosamente inadeguati e spesso al di fuori di qualsiasi norma, perché manca il personale, decine di migliaia di addetti, perché le classi pollaio sono dov’erano anche prima, perché non esiste un piano trasporti dedicato che permetta di ridurre i rischi ad esso correlati e che sono altissimi e perché (non sembri di poco conto) la maggior parte delle lezioni a distanza si svolge su piattaforme giudicate illegali dalla Corte Europea di Giustizia, con la sentenza Schrems II, visto che non garantiscono alcuna privacy dei dati di allievi e insegnanti, come Google Meet, mentre in tutti questi mesi nulla è stato fatto dal Ministero per dotare le scuole di una piattaforma digitale autonoma e sicura. Sarebbe stato più facile di quanto si immagina. Perché in Italia il diritto allo studio, quello vero, senza oneri per i meritevoli e senza oneri per chiunque nella fascia dell’obbligo, non c’è mai stato. Figuriamoci ora.

Dunque, ragazzi cari, invece di fare lezione fuori dagli Istituti, prendendo inutilmente freddo nella nebbia, perché non fate altro, di politicamente più efficace? Negli anni Settanta, quando avevo la vostra età, noi le scuole le occupavamo e gli operai occupavano le fabbriche. Quanta democrazia e giustizia sono nate da tutto ciò!

Ma i tempi cambiano e noi siamo gli sconfitti, infine. Dunque non ci sarebbe ragione di chiedervi di imitarci. Inventate però voi, oggi, nuove forme di lotta, se esistono e se sapete immaginarle, qualcosa di ben più efficace e soprattutto chiaro di quanto state facendo e dicendo, seduti al freddo, a far lezione davanti alle vostre scuole.

Attribuite le colpe a chi vanno attribuite, analizzate con lucidità qual è – realmente – la situazione, non accontentatevi di slogan generici sul diritto allo studio, ma andate a fondo e scovate le contraddizioni e le truffe nascoste in tanti discorsi apparentemente democratici ed aperti. Altrimenti avete già perso. Cosa immaginate di ottenere così, oltre a qualche titoletto sui quotidiani e l’attenzione commossa di questo vecchio poeta e insegnante?

Smettete di prestarvi al gioco di chi vuole che tutto cambi soltanto perché tutto resti come prima, richiamate con forza e chiarezza noi adulti alle responsabilità che ci competono, date voi, per una volta tanto, una lezione: ai vostri insegnanti, ai vostri genitori, ai vostri ministri.

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Dopo giorni di retroscena, voci e tensioni all’interno della maggioranza, con parte del Pd e dei renziani che parlano di rimpasto di governo e il no del Movimento 5 stelle, il Corriere della Sera riferisce di un colloquio con il presidente del Consiglio Giuseppe Conte durante il quale lui avrebbe respinto in modo categorico l’ipotesi di rivedere la sua squadra. Specie in un momento di emergenza come questo. “Non possiamo rincorrere le ambizioni di qualcuno che spera in ruoli più importanti”, dice, ricordando che “stiamo lavorando per impedire che il destino del Paese sia appeso alle sorti dei singoli“. Dichiarazioni che però Palazzo Chigi smentisce, sostenendo che “l’unico tema trattato” con il quotidiano “è stato il Recovery plan. Tutte le altre ricostruzioni contenute nell’articolo, incluse quelle relative al cosiddetto rimpasto e al ruolo di Luigi Di Maio e Matteo Renzi, non solo non corrispondono a parole espresse dal Presidente del Consiglio ma non corrispondono neppure ai suoi pensieri“.

Le attenzioni del premier e del governo sono infatti concentrate sui 209 miliardi in arrivo dall’Ue, dal momento che servirà una struttura manageriale forte per gestire le risorse, fare in modo che i progetti vengano realizzati bene e nei tempi prefissati. A questo proposito, il presidente smentisce le presunte tensioni con il segretario dem Nicola Zingaretti per la governance del Recovery: “Lo sento tutti i giorni e non è vero che non sia d’accordo sulla cabina di regia a tre. Ne avevamo parlato, c’è perfetta coincidenza”. Il riferimento è all’ipotesi che a giocare l’intera partita sarà un comitato collegiale formato dallo stesso premier, il ministro dell’Economia Roberto Gualtieri e quello dello Sviluppo economico Patuanelli, coadiuvati da 6 manager (uno per ogni macrosettore del piano). I dirigenti, continua Conte, saranno “persone con forti competenze e capacità di coordinamento. Dobbiamo coinvolgere il meglio del Paese, individuando 50 nomi per ognuno dei sei team. Non per assegnare centinaia di incarichi, ma per selezionare esperti in grado di seguire passo dopo passo la realizzazione dei lavori“. Come già anticipato, la struttura avrà inoltre “poteri sostitutivi“. Ciò significa che “se un progetto ritarda o rischia di essere realizzato male, subentrano i tecnici e commissariano l’opera“.

Durante il colloquio con il Corriere, il presidente del Consiglio cerca quindi di rassicurare chi lo accusa di voler accentrare su Palazzo Chigi la governance del Piano di resilienza. La cabina di regia “riferirà periodicamente non solo al Consiglio dei ministri ma anche al Parlamento“. Poi c’è il ruolo assegnato al ministro Enzo Amendola, che sarà invitato come “referente dei progetti a Bruxelles“, e l’apertura alle opposizioni: “Ci sarà un grande confronto pubblico e coinvolgeremo tutto il Parlamento. Stiamo anche pensando a un comitato di garanzia, che sovrintenda all’attuazione dei progetti e verifichi che le cose stiano andando bene”. Per quanto riguarda i tempi, Conte assicura: “Non c’è nessun ritardo, siamo in dirittura finale”. La speranza, conclude, è che le personalità “di altissimo livello” che comporranno la nuova task force siano scelte di comune accordo con il capo dello Stato Sergio Mattarella.

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Anche Orietta Berti è positiva al coronavirus. È stata la stessa cantante emiliana, 77 anni, a dare l’annuncio ai suoi followers su Instagram, lanciando un appello: “Care amiche e cari amici – ha scritto Orietta Berti – desidero condividere con voi che ieri dopo un nuovo tampone di controllo sono risultata positiva al covid19. Sono a casa e sono sotto controllo medico. Grazie a tutti per l’affetto e mi raccomando state attenti: indossate la mascherina, mantenete le distanze, lavare spesso le mani”.

Non ho proprio idea di come io possa averlo contratto – ha spiegato poi a Il Resto del Carlino –. Sono sempre stata attentissima a rispettare tutti i protocolli. Ho sempre indossato la mascherina e tenuto le distanze che occorrono. Avevo fatto tamponi e sierologici. Nel corso dei mesi, il lavoro mi ha dato l’energia per andare avanti, con tutte le precauzioni. Scoprire questa positività è stata proprio una doccia fredda. Sia io che la mia famiglia, ci siamo barricati in casa e siamo sotto controllo medico.

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“Se è vero quello che stanno dicendo i giornali mi fa male il doppio, perché non meritava di essere lasciato solo. Non so di preciso cosa sia successo, ma mi auguro che non sia stata trascurata la vita di mio fratello“. Così ha detto tra le lacrime Hugo Maradona, il fratello del “Pibe de Oro” scomparso lo scorso 25 novembre a 60 anni per un arresto cardiocircolatori.

L’uomo è stato ospite in collegamento dall’Argentina dell’ultima puntata di Live Non è la D’Urso per parlare proprio della morte del fuoriclasse argentino, che in questi giorni ha suscitato grande commozione e non poche polemiche per le circostanze in cui è avvenuta: proprio ieri è arrivata la notizia che il medico personale di Maradona è indagato per omicidio colposo e proprio su questo è intervenuto il fratello Hugo.

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Troppe persone in strada a Napoli per Maradona? Bisogna fare attenzione. Napoli sta attraversando un momento difficile e ognuno di noi ha il dovere di fare le cose giuste. Spero prevalga il buon senso“. Così Rino Gattuso ha parlato degli assembramenti visti in questi giorni nel capoluogo campano per la morte di Diego Armando Maradona.

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"Il problema dei trasporti è da risolvere il prima possibile",  perché "se le esigenze cambiano devono cambiare anche i trasporti". Lo dice, ai microfoni di Sky TG24 Antonello Giannelli, Presidente dell'associazione nazionale dei presidi, commentando le problematiche legate al rientro degli studenti tra i banchi durante la seconda ondata della pandemia di Coronavirus in Italia (COVID: TUTTI GLI AGGIORNAMENTI IN DIRETTA). "Il mondo della scuola può adottare forme di scaglionamento",  ma occorre "trovare una sede dove discutere questi problemi", aggiunge.



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Primo giorno di zona arancione in Lombardia e le vie del centro di Milano si sono presentate affollate con persone in coda all’esterno dei negozi che da ieri hanno riaperto le porte. Questa la fotografia del pomeriggio milanese con i cittadini che sono tornati a passeggiare tra le vetrine addobbate in vista del Natale. Complice la scia del Black Friday l’occasione è buona per fare acquisti. Scene simili anche a Torino.

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Sono stato a Bitti nel 2016. Mi hanno raccontato cosa era successo nel 2013 e le discussioni su cosa si poteva fare. Il 28 novembre 2020, a 7 anni dall’uragano Cleopatra ed a 4 da quel confronto, ancora morti per via di un ciclone. Il XXI secolo, e tutto fa pensare anche il XXII, sarà caratterizzato da questi eventi. Ora tutti urlano e sono impegnati nei soccorsi, poi però ci si dimentica della transizione ambientale che dobbiamo per forza realizzare. Europa, Italia e Sardegna sono bravi a parole, ma nei fatti sono bocciati.

Sul suo blog l’ex assessore ai Lavori pubblici della Regione Sardegna, Paolo Maninchedda, racconta di quanto successe in un consiglio comunale a Bitti qualche anno fa e di come intervenire sull’urbanistica significa scontrarsi col “consenso”. Che manca, se metti delle regole. Magari sei anche progressista (a parole), ma se qualcuno ti promette che ti farà aggiungere una stanza in più o ti farà costruire dove c’è qualche problema (ma tu hai il terreno), il voto glielo dai.

Pierluigi Marotto racconta su Facebook come, da sindaco di un comune della cintura cagliaritana, decise di pianificare il territorio (fece il PUC, piano urbanistico comunale) e di utilizzare il principio di precauzione. Non venne rieletto.

Ricordo una ricerca, relativa ai comuni lombardi, per la quale circa l’80% delle elezioni locali si giocano, si vincono e si perdono, sull’urbanistica. In Sardegna non esistono, che io sappia, ricerche simili, ma la percentuale è identica, forse un po’ più bassa perché ci sono comuni così poveri dove neanche l’elemento urbanistico attizza il pensiero di procurarsi una rendita senza fare niente.

A Cagliari, da consigliere comunale, tra il 2011 ed il 2016, io ed altri chiedemmo di adeguare il Piano urbanistico comunale al Piano Paesaggistico Regionale, ma nessuno ci ascoltò. Neanche il sindaco, che infatti venne rieletto. Il PUC di Cagliari ancora non c’è e sono passati 10 anni.

La politica locale dipende dai “favori” urbanistici. C’è chi magari perde le elezioni, ma combatte e oggi può a testa alta affermare che sui morti di Bitti, e su tutti gli altri, non c’entra nulla. Per molti non è così. Molti sono coccodrilli: prima ammazzano il territorio e poi piangono quando il territorio si ribella.

Il problema non è solo locale e non sta solamente in consiglio regionale, dove proprio in concomitanza con la tragedia si presenta un disegno di legge che vuole riautorizzare gli aumenti di volumetrie in zone pregiate.

Il problema è italiano ed internazionale. Lottare contro il cambiamento climatico significa lottare contro il “potere economico” costituito, quello vero, quello enormemente potente. Non basta fare l’occhiolino a Greta Thunberg, non basta citare Papa Francesco e “Laudato Sii”. Il premier Conte, le parti sociali, la commissaria Von Der Leyen finora sono stati col “potere economico”, che bloccherà qualunque transizione ambientale. La politica, invece, dovrebbe prevalere. Altrimenti, a ritmo periodico, torneranno i coccodrilli.

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di Carmelo Zaccaria

Diamolo pure per scontato. Dopo questo periodo deprimente e tormentato ci si attende una promettente stagione di rinascita. Le previsioni su cosa veramente ci riserva il domani variano da un accentuato ottimismo sulle inesauribili capacità di riscatto del genere umano ad un legittimo pessimismo giustificato dalle sue dinamiche più neglette. In ogni caso dopo un brusco capitombolo in cui le persone, rimuginando sulla felicità perduta, ripiegano su sé stessi, d’improvviso, nella nebbia più fitta, si fa strada una nuova luce, riappare una nuova fiducia.

Nel passato le catastrofi e i flagelli erano fenomeni largamente accettati e sopportati come eventi impressi nel circuito della memoria di intere generazioni che ne tramandavano la minaccia e le traumatiche conseguenze. L’attuale pandemia invece, è stata valutata sin dall’inizio come un fastidioso accidente, le cui tracce sbiadite sono state frettolosamente rimosse dal contesto umano. La civiltà moderna, così piena di ottimismo e di compiacimento, non poteva accettare di sottostare alla diavoleria del contagio. L’invasione oscura e violenta del virus ha colto di sorpresa, nel suo picco, una modernità sazia e soddisfatta, in larga parte liberata dal bisogno, che non poteva aspettarsi di peggio che essere costretta a tenere la testa china, obbligata a ripensare sé stessa.

Ad ogni modo la rinascita di una civiltà non può essere pianificata a tavolino, ma cresce e si diffonde travolgendo idee e consuetudini, infrangendo interessi consolidati, modificando nel profondo modi di fare e di vivere. Dal caos e dal disordine sono sempre scaturiti scenari di mondi inattesi, soprattutto laddove si è potuto contare su istituzioni inclusive e su una diffusa concentrazione di saperi. Luoghi questi in cui si è maggiormente dispiegata la potenza della creatività. Einstein diceva che la creatività nasce dall’angoscia, come il giorno nasce dalla notte oscura. Voleva dire che dalla crisi più nera può nascere la spinta necessaria per disegnare nuovi orizzonti, raggiungere mete inesplorate.

Per rinascere dal Covid bisognerà dunque riprendere a volare alto, con valori e bisogni difformi da quelli odierni, far crescere, soprattutto nelle nuove generazioni, quelle spinte motivazionali che favoriscono l’entusiasmo e stimolano la curiosità verso soluzioni mai testate prima. Il livello mortificante raggiunto dal campo dell’istruzione, pensato non più come campo aperto per alimentare sogni imperscrutabili, ma come luogo regolato da logiche convenzionali e burocratiche, non aiuta a ben sperare in nuove forme di socialità.

Jean Piaget sosteneva che l’apprendimento è di per sé un atto creativo. Lanciarsi verso l’ignoto, scrutare da vicino ciò che non si conosce, stimola le funzioni dell’intelletto. Abbiamo appreso dallo psicologo Guilford, che le caratteristiche del pensiero creativo richiamano una stretta combinazione tra il pensiero “convergente” e quello “divergente”, cioè tra il pensiero più ovvio e rassicurante, che si incanala verso le soluzioni più facili e a portata di mano, e quello divergente, meno vincolato e conforme che porta la mente a generare idee originali e dirompenti, accende la scintilla dell’inaccettabile, disarticola l’impossibile. Quest’ultime sono le idee più appropriate che possono scrostare la ruggine del presente.

Purtroppo ultimamente non abbiamo saputo mantenere sgombra e ricettiva la nostra mente, ma l’abbiamo riempita di cose sbrigative e superflue, resa incapace di autoalimentarsi, indebolendo così il demone della creatività. E’ completamente sparita l’attitudine ad osare o a rischiare una brutta figura. Alla fatica e al sudore dell’esperienza diretta, anch’essa fonte di creatività, preferiamo l’accomodante vuotaggine commutata tra le pieghe del digitale.

In realtà lo schermo piatto ammalia e intorbidisce, non contempla lo sforzo creativo e non crea spinte emotive in grado di farci riflettere sulle opportunità che questa crisi ci obbliga ad esplorare.

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Se qualcuno aveva sperato che, sotto gli sguardi del mondo in occasione del vertice del G20 dello scorso fine-settimana, le autorità saudite avrebbero potuto decidere di porre fine all’incubo che da oltre due anni sta subendo la coraggiosa attivista per i diritti delle donne Loujain al-Hathloul, la risposta sprezzante e di sfida non si è fatta attendere.

Il 25 novembre, Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, un giudice di un tribunale ordinario ha deciso di trasmettere gli atti processuali al Tribunale penale speciale, l’organo giudiziario che si occupa di reati di terrorismo e il cui unico scopo è ridurre al silenzio i dissidenti mediante condanne a lunghe pene detentive emesse al termine di processi irregolari.

Fiaccata da un lungo sciopero della fame per protestare contro il divieto di avere contatti regolari con la famiglia, Loujain è comparsa in tribunale stanca e provata e si è limitata a leggere con la voce bassa e tremante quattro pagine di auto-difesa.

Loujain è stata arrestata nel maggio 2018 con altri 12 attivisti e attiviste per i diritti delle donne. La sua “colpa”? Aver rivendicato le riforme adottate in quel periodo: l’abolizione del divieto di guida per le donne e la parziale riforma del sistema del “guardiano”, il maschio di casa sovrintendente a ogni aspetto della vita delle familiari.

Con Loujain sono sotto processo Samar Badawi, Nassima al-Sada, Nouf Abdulaziz e Maya’a al-Zahrani.

Nassima al-Sada e Samar Badawi sono state arrestate nell’agosto 2018. Badawi, oltre ad aver preso parte alla campagna per porre fine al divieto di guida per le donne, si è spesa per chiedere la scarcerazione di suo marito, l’avvocato per i diritti umani Waleed Abu al-Khair, e di suo fratello, il blogger Raif Badawi. Al-Sada ha svolto per molti anni campagne per i diritti civili e politici, i diritti delle donne e quelli della minoranza sciita della Provincia orientale dell’Arabia Saudita.

Nouf Abduaziz, blogger e giornalista, è stata arrestata nel giugno 2018. Lo stesso è accaduto all’attivista Maya’a al-Zahrani, che aveva pubblicato un post per chiedere la scarcerazione di Abdulaziz.

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Gare truccate, frodi nelle pubbliche forniture e corruzione all’interno delle Asl piemontesi. È quanto ritiene di aver accertato la Guardia di finanza, che ha eseguito un’ordinanza cautelare nei confronti di 15 persone – pubblici dipendenti, commissari di gara e agenti e rappresentanti di alcune imprese – al termine di un’inchiesta, coordinata dal procuratore aggiunto Enrica Gabetta e diretta dal pm Giovanni Caspani, che ha riguardato tre gare, per un valore complessivo di 3,5 milioni di euro, bandite da Asl Torino 4, A.O.U. Maggiore della Carità di Novara, Asl di Asti e di Alessandria, nonché dall’Azienda Ospedaliera di Alessandria.

Dalle indagini, secondo gli inquirenti, è emerso un “collaudato e articolato sistema di interazioni fra soggetti privati e commissari di gara finalizzato a truccare le gare d’appalto attraverso la modifica dei relativi capitolati, l’attribuzione di punteggi di favore e la rivelazione di informazioni riservate”. Un quadro, ricostruito anche grazie a intercettazioni telefoniche e pedinamenti. L’inchiesta ha preso il via a seguito dell’accertamento di un ammanco presso l’Azienda Ospedaliera Universitaria “Città della Salute e della Scienza di Torino”, per un valore di circa 300mila euro, di un costoso prodotto farmaceutico, denominato ‘Bon Alive’ (sostituto osseo) causato dalla condotta truffaldina di un’incaricata di un’impresa torinese che si avvaleva della “collaborazione” di un pubblico dipendente infedele che falsificava documentazione amministrativa in cambio di tangenti. Nel corso dell’operazione, i finanzieri hanno sequestrato, altresì, disponibilità finanziarie e beni per quasi 300.000 euro, riconducibili al profitto degli illeciti penali commessi.

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Romain Grosjean, con un video su Instagram, rassicura tutti sulle sue condizioni di salute dopo il tremendo incidente che l’ha visto protagonista nel Gran Premio del Bahrain: “Ciao a tutti, volevo solo dirvi che io sto bene, più o meno bene. Grazie mille per i messaggi. Ero contrario all’Halo qualche anno fa, ma credo che sia la cosa migliore che è stata introdotta in Formula 1. Senza Halo non sarei qui a parlarvi”.

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Gli iPhone non sono sempre resistenti all’acqua come pubblicizzato da Apple, che in alcuni casi non garantisce neanche la riparazione gratuita dei dispositivi. È questo il parere dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato che, al termine di un’istruttoria, ha sanzionato per 10 milioni di euro le società per due distinte pratiche commerciali scorrette. La prima, appunto, riguarda la diffusione di messaggi promozionali di diversi modelli di iPhone – iPhone 8, iPhone 8 Plus, iPhone XR, iPhone XS, iPhone XS Max, iPhone 11, iPhone 11pro e iPhone 11 pro Max – in cui veniva esaltata, per ciascuno dei prodotti pubblicizzati, la caratteristica di risultare resistenti all’acqua per una profondità massima variabile tra 4 metri e 1 metro a seconda dei modelli e fino a 30 minuti.

Secondo l’Autorità, però, nei messaggi non si chiariva che questa proprietà è riscontrabile solo in presenza di specifiche condizioni, per esempio durante specifici e controllati test di laboratorio con utilizzo di acqua statica e pura, e non nelle normali condizioni d’uso dei dispositivi da parte dei consumatori. Inoltre, la contestuale indicazione del disclaimer “la garanzia non copre i danni provocati da liquidi”, dati gli enfatici vanti pubblicitari di resistenza all’acqua, è stata ritenuta idonea a ingannare i consumatori non chiarendo a quale tipo di garanzia si riferisse (garanzia convenzionale o garanzia legale), né è stata ritenuta in grado di contestualizzare in maniera adeguata le condizioni e le limitazioni dei claim assertivi di resistenza all’acqua.

L’Antitrust ha inoltre ritenuto idoneo a integrare una pratica commerciale aggressiva il rifiuto da parte di Apple, nella fase post-vendita, di prestare assistenza in garanzia quando quei modelli di iPhone risultavano danneggiati a causa dell’introduzione di acqua o di altri liquidi, ostacolando in tal modo l’esercizio dei diritti ad essi riconosciuti dalla legge in materia di garanzia ossia dal Codice del Consumo. Per questi motivi l’Autorità ha deciso di irrogare ad Apple Distribution International e ad Apple Italia S.r.l. sanzioni per complessivi 10 milioni di euro e ha disposto la pubblicazione di un estratto del provvedimento sul sito internet dell’azienda fondata da Steve Jobs.

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Con il cambio di colore, si riaprono gli istituti che ospitano gli alunni fino alla terza media. Ancora in didattica a distanza le superiori. Unica eccezione il Piemonte, che nonostante sia passato alla zona arancione, utilizzerà ancora la dad per tutte le classi d'età



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Maxi-moratoria fiscale, con tutte le scadenze di qui a fine anno rinviate a primavera per imprese e partite Iva in difficoltà, con attenzione in particolare ad alberghi e ristoranti. E una nuova tranche di aiuti ai lavoratori precari, dagli stagionali del turismo a quelli dello sport, altre risorse per gli straordinari della polizia impegnata a fare rispettare le norme anti-Covid e un fondo ad hoc per aiutare il settore delle fiere e dei congressi, fermo in sostanza dall’inizio della pandemia. È arrivato nella notte il via libera del Consiglio dei ministri al decreto Ristori quater, che aggiunge altri 8 miliardi alle compensazioni per le le attività chiuse per contenere la seconda ondata dell’epidemia. E cambia il calendario del fisco anche per la rottamazione delle cartelle, fermando peraltro le ‘ganasce’ del fisco e le altre procedure esecutive per chi presenti una domanda di dilazione dei pagamenti per “comprovate difficoltà economiche“.

Le aziende potranno contare innanzitutto sullo slittamento al 10 dicembre degli acconti di Irpef, Ires e Irap in scadenza il 30 novembre: un mini rinvio utile a rifare i calcoli delle perdite del primo semestre e vedere chi rientra nella nuova scadenza di fine aprile, prevista per quelle attività (entro i 50 milioni) che abbiano registrato cali di fatturato di almeno il 33%. Per ristoranti delle zone arancioni e rosse e per tutte le attività chiuse nelle zone rosse indicate nelle liste Ateco per l’accesso al fondo perduto (che dovrebbe allargarsi anche agli agenti di commercio) il rinvio si applicherà a prescindere dai limiti di fatturato e di perdite, estendendo la norma attualmente prevista per i soggetti Isa di queste aree. Alla lista si aggiungono anche alberghi, tour operator e agenzie di viaggio delle zone rosse che potranno beneficiare della moratoria fiscale anche se non sono stati esplicitamente chiusi per Dpcm. Il decreto nella versione finale conterrà anche una norma che farà salve le dilazioni fiscali per le Regioni che hanno cambiato colore giusto il giorno prima della loro entrata in vigore, come Piemonte e Lombardia diventate arancioni.

Non dovrà passare alla cassa nemmeno chi ha fermato i pagamenti delle rate della rottamazione ter e del saldo e stralcio: la scadenza del 10 dicembre viene fatta slittare al 1 marzo 2021 e nel frattempo si concede il rientro ai piani di rate anche a chi era decaduto prima dell’emergenza. Per le nuove domande di accesso alla rateizzazione ci sarà tempo, infatti, per tutto il 2021. Nel frattempo maggioranza e governo stanno lavorando anche a una rottamazione quater, proprio per aiutare chi si ritroverà nuovi debiti da saldare quando ripartirà la macchina della riscossione.

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Da un lato le campagne pubblicitarie “green” e i bilanci di sostenibilità delle grandi catene della grande distribuzione organizzata con pagine dedicate alle iniziative per ridurre l’utilizzo della plastica vergine, dall’altro l’evidenza su banconi e scaffali. Che continuano a riempirsi ogni giorno di imballaggi, ingombranti, inquinanti (nonostante tutto) e non sempre necessari. L’emergenza sanitaria legata al Covid ha peggiorato il quadro, confondendo i consumatori sulla presunta maggiore sicurezza delle confezioni in plastica rispetto allo sfuso. Per quanto riguarda l’offerta, basta guardare il carrello e il proprio sacco per la raccolta della plastica che si riempie sempre più velocemente. La grande distribuzione utilizza sempre di più materiali riciclabili, ma continua a produrre ogni giorno tonnellate di rifiuti plastici (e non). Iniziano a spuntare iniziative che mirano al cuore del problema, ossia la riduzione effettiva degli imballaggi, ma riguardano ancora poche realtà.

GLI EFFETTI DEL COVID SUL CARRELLO – Secondo i dati del Panel Ismea Nielsen, nei primi nove mesi del 2020 la spesa domestica delle famiglie italiane è aumentata del 7% e sono previsti nuovi incrementi in seguito alle nuove restrizioni contro la seconda ondata. A fare da traino fino a giugno i prodotti a largo consumo confezionato (+7,8%), a fronte di una crescita della spesa dei prodotti sfusi del 4,8%. Il 70,6% della spesa delle famiglie è costituita da prodotti confezionati. Esselunga fa sapere a ilfattoquotidiano.it che “causa della crisi pandemica da Covid 19 si è assistito a un maggior interesse del consumatore verso il confezionato a discapito dello sfuso” perché “offre comodità, velocità di acquisto, conservabilità e rassicurazione”. Anche per Carrefour, l’emergenza ha avuto un forte impatto sui consumi degli italiani. “Abbiamo notato – scrivono – come i consumatori si siano orientati, nell’ortofrutta, verso prodotti preconfezionati, prediligendoli rispetto ai prodotti sfusi. I prodotti confezionati, infatti, sono stati percepiti dai clienti come più sicuri, tanto che se prima si stimava intorno al 40-45% il consumo di prodotti preconfezionati rispetto allo sfuso, con il Covid-19 si è arrivati al 60%”.

TREND IN CONTRADDIZIONE – In realtà, negli ultimi mesi i trend sono stati diversi per ciascuna categoria di prodotto. “Durante il lockdown e fino a luglio le vendite di salumi e formaggio ai banchi dei supermercati sono rimaste ferme – spiega a ilfattoquotidiano.it Fabio Del Bravo, responsabile della direzione Servizi per lo sviluppo rurale di Ismea – mentre c’è stato uno spostamento di acquisti sugli stessi prodotti confezionati, tanto che ad un certo punto l’offerta non è riuscita a stare al passo”. In nove mesi i salumi in vaschetta hanno registrato un incremento del 13,9%, le carni confezionate del 14% e i formaggi del 12,5%. Ma il trend non riguarda tutti i prodotti indistintamente. “Probabilmente i consumatori hanno avuto più tempo per lavare l’insalata, invece di acquistare quella in busta: il prodotto fresco di quarta gamma ha registrato una riduzione notevole, oltre il 6,6%, e hanno perso il 2,5% anche gli altri ortaggi freschi confezionati”. Del Bravo, però, spiega che l’aumento degli acquisti di prodotto confezionato “va avanti da diversi anni”. Da un lato c’è “una richiesta di servizio per cui il consumatore è disposto a pagare”, dall’altro “un orientamento della grande distribuzione, che punta a una gestione più semplice dello scaffale e una shelf life più elevata. Perché c’è il tema dello spreco”. Che, però, potrebbe essere risolto con altri strumenti.

LA QUESTIONE DELLA SICUREZZA – Ma se sulla domanda i trend sono diversi e a volte contraddittori, qualche evidenza c’è e riguarda proprio la sicurezza sanitaria. Uno studio dei National Institutes of Health, per esempio, ha stimato che il Covid-19 sopravviva sulla plastica fino a tre giorni. “C’è stato sicuro un tentativo di legare l’imballaggio di plastica e l’usa e getta a una maggiore sicurezza, tentativo che abbiamo anche denunciato”, spiega a ilfattoquotidiano.it Enzo Favoino della Scuola Agraria del Parco di Monza e referente europeo per la rete ‘Zero Waste’. “Sappiamo che il Covid-19 sopravvive 24 ore su carta e acciaio inossidabile e 72 ore sulla plastica. La pandemia non ha reso affatto più rischioso l’uso di oggetti e imballaggi riusabili. Francamente mi sentirei più tranquillo nell’utilizzare la borraccia personale che ho a casa, piuttosto che nel prendere una bottiglia dallo scaffale. Se faccio ricorso al monouso, poi, è maggiore il turnover di prodotti che entrano nella mia sfera domestica”. A giugno 2020, oltre cento esperti di salute pubblica e ricercatori di 18 differenti Paesi hanno sottoscritto una dichiarazione indirizzata a consumatori, rivenditori, aziende e classe politica sostenendo che “i contenitori riutilizzabili sono alternative sicure per la salute durante l’emergenza”.

LE MOSSE DEI BIG – Eppure ad oggi nei supermercati regna l’imballaggio. Al massimo si utilizza (o si mira a utilizzare) meno plastica vergine, sostituendola con quella riciclata (rPec) o con altri materiali, non sempre così sostenibili. Secondo Nomisma, dall’Osservatorio Packaging del Largo Consumo emergerebbe che “la Grande distribuzione organizzata pensa ed agisce green” perché Coop, Conad, Bennet, Esselunga, Despar, Carrefour, Pam, Md e Gruppo Gabrielli si sono impegnate “per ridurre l’utilizzo di plastica vergine cercando di sostituirla con materiali riciclati, riciclabili o provenienti da fonti rinnovabili e a basso impatto anidride carbonica”. In particolare sei insegne hanno ridotto (o sono intenzionate a farlo) l’imballaggio in eccesso o hanno preferito pack in carta. Quali? I nomi sono top secret “per accordi di riservatezza legati al progetto”, ha risposto Nomisma a ilfattoquotidiano.it. Federdistribuzione, dal canto suo, fa sapere che oltre alla sostituzione degli assortimenti di stoviglie in plastica monouso con prodotti in altro materiale ecocompatibile le imprese associate hanno avviato “autonomamente e con accordi territoriali percorsi di recupero e riciclo del Pet, dando ‘nuova vita’ ai rifiuti in Pet trasformandoli nuovamente in bottiglie e contenitori”.

Tra i big, Esselunga fa sapere che “laddove la plastica è necessaria, in quanto non ci sono ancora soluzioni che garantiscano la sicurezza alimentare e la corretta conservazione degli alimenti, si prediligono soluzioni di ecodesign per eliminare l’overpack e favorire il riciclo”, mentre “laddove possibile, la plastica viene sostituita o eliminata”. Oltre alla sostituzione di tutti i prodotti monouso in plastica con omologhi in materiali riciclabili o compostabili (nel 2019, in anticipo di circa due anni rispetto alla direttiva europea) c’è il progetto ‘FeVBio: obiettivo ZeroPlastica’, che prevede di rendere compostabile e/o riciclabile l’imballaggio di 150 articoli del settore frutta e verdura fresca biologica a marchio risparmiando “circa 137 tonnellate di plastica”. Su quante in totale? Il gruppo non ha risposto al fatto.it su questo punto. In compenso il bilancio di sostenibilità 2019 spiega che nel 2018 il materiale plastico è diminuito di 560 tonnellate rispetto all’anno prima. Sono state realizzate nuove bottiglie di acqua a marchio privato trasparenti (più facili da riciclare) e composte per il 50% di rPet, mentre il latte Esselunga BIO “è realizzato con una confezione 100% in materiale di origine vegetale”. Insomma, le direzioni sono quelle della sostituzione e del riciclo. Mentre le cassette in plastica per il trasferimento interno dei prodotti, dai campi di raccolta ai negozi, sono riutilizzabili e vengono lavate e sanificate tramite un circuito che “ha permesso nel corso degli anni di eliminare gli imballaggi secondari a perdere in cartone, legno e plastica monouso”.

Anche Carrefour ha sostituito la plastica monouso in assortimento (piatti, posate, cannucce) “con prodotti usa e getta in materiali eco compatibile”. Per quanto riguarda gli imballaggi, fa sapere a ilfattoquotidiano.it che sta intervenendo per raggiungere gli obiettivi di “riduzione del 5% della quantità di imballaggi immessi sul mercato entro il 2022 rispetto al volume 2018” e di avere “packaging 100% riciclabili, riutilizzabili o compostabili di tutti i prodotti a marchio entro il 2022”. In questi mesi si lavora con i fornitori dei prodotti Carrefour Bio per trasformare i packaging attualmente non sostenibili in 100% sostenibili, per renderli riciclabili, compostabili o differenziabili. Ad oggi circa il 75% dei packaging Carrefour Bio rispetta gli obiettivi.

IL PROBLEMA DELLE ALTERNATIVE – La possibilità di eliminare tout court gli imballaggi incontra ancora molti ostacoli. Il decreto clima ha stanziato 40 milioni di euro (per il 2020 e il 2021) a favore degli esercenti commerciali, sotto forma di contributo a fondo perduto per un importo massimo di 5mila euro per attrezzare spazi dedicati alla vendita di prodotti alimentari e detergenti sfusi o alla spina anche all’interno dei supermercati o aprire nuovi negozi che prevedano esclusivamente la vendita di prodotti sfusi. Su altri campi, anche se molto a rilento, qualcosa sta accadendo nonostante il Covid 19.

Agli inizi di novembre, in piena pandemia, è stata avviata la fase operativa di un progetto per la sperimentazione di una spesa senza imballi usa e getta, partito a febbraio 2020 con il coinvolgimento di una sola famiglia. Si chiama ‘Spesa Sballata’ e oggi si è allargato a 33 famiglie varesine che, fino ad aprile 2021, presso nove punti vendita di Coop Lombardia (due a Busto Arsizio e gli altri a Malnate, Varese e Laveno Mombello) e della stessa Carrefour Italia (a Gallarate, Varese, Cocquio Trevisago e Tradate) potranno portare da casa e utilizzare retine e contenitori riutilizzabili per acquistare ai banchi di panetteria, pescheria, gastronomia e macelleria, ma anche al banco della frutta e della verdura. Il progetto vede come capofila Cooperativa Totem in partnership con Comune e Provincia di Varese e Scuola Agraria del Parco di Monza e la collaborazione di ATS Insubria che ha redatto le linee guida sanitarie per acquisti in contenitori riutilizzabili. E ancora: a settembre 2020 ha aperto a Terni il supermercato ‘Vivo Green’, poi ci sono i negozi ZeroWaste (tra cui NaturaSi e Bio c’Bon che, a seconda dei punti vendita, vendono alcuni prodotti sfusi) e della Rete Botteghe Sfuse Indipendenti sparsi per il Paese. Infine Sigma, Ecu ed Economy sono coinvolti da dicembre 2019 in un esperimento – avviato in Emilia Romagna da Moderna Distribuzione – grazie al quale i clienti possono utilizzare i propri contenitori.

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