Gillian Brockell è una video editor per il Washington Post e la sua è una denuncia che, nella polemica sulla tratta dei nostri dati online, per la prima volta va oltre e pone un problema di contenuto più che di forma. Aspettava un figlio, ha avuto un aborto. Ha sofferto. Ma Facebook&Co., dopo settimane, continuano a propinarle pubblicità per neomamme con annesse immagini di neonati e bambini.
”Lo so che voi sapevate che io ero incinta – scrive in una lettera aperta indirizzata alle grandi compagnie tecnologiche – È colpa mia. Semplicemente non ho saputo resistere a questi hashtag su Instagram: #30weekspregnant, #babybump. Che stupida! Ma vi imploro: se siete abbastanza intelligenti da rendervi conto che sono incinta, siete altresì sicuramente abbastanza intelligenti anche da rendervi conto che il mio bambino è morto”.
Qualcosa, secondo la Brockell, non funziona: la donna racconta di aver fatto anche ricerche online che confermassero la tragedia della sua vita. E se non fosse bastato il silenzio di tre giorni sui social network, sarebbe però magari stato più utile l’annuncio della perdita del bambino con le parole chiave: ‘cuore spezzato’, ‘problema’ e ‘nato morto’. E invece no. Il dolore non è stato rilevato.
In pochi giorni, le segnalazioni di situazioni simili si moltiplicano: Gillian non è la sola, succede a tante tantissime donne, agli uomini, e per i casi più disparati. C’è una sola grande domanda: come è possibile che algoritmi così intelligenti, così bravi a profilare anche le più intime pulsioni degli utenti, capaci di misurare anche le nostre tasche (se glielo si concede) non siano in grado di capire che è accaduto qualcosa di così grave? Come mai non sono in grado di percepire la sofferenza di chi è dietro lo schermo?
Forse non gli interessa. O meglio: non è nel loro interesse. Senza sciacallaggio, non c’è nulla da vendere con profitto sulla disperazione altrui. Un aborto non è remunerativo, la tristezza non paga. Se si parte dal presupposto che siamo numeri che compongono un campione standard da offrire a chi paga per le inserzioni, vien da sé che l’unicità del nostro dolore non può trovare dignità nella compravendita massiva.
Le macchine non pensano, non sentono. Giusto. Ma, vien da dire, non pensa e non sente neanche chi quelle macchine le progetta? Non ci credo alla storia della tecnologia senza umanità: è sempre l’uomo che la crea ed è all’uomo che tocca darle un’etica. Ma l’etica, si sa, non sempre va d’accordo con gli affari.
Così la Brockell alla fine deve fare da sé: accedere alle impostazioni dei social, trovare le opzioni sulla profilazione dei propri interessi e disattivare la voce “genitorialità”. Accendere e spegnere, come a dire che se la macchina non può essere umana è l’uomo a doversi fare macchina. In questo caso, però, non senza dolore.
L'articolo ‘Non ricordatemi che il mio bambino è morto’. Il web e l’incapacità di capire il dolore di chi soffre proviene da Il Fatto Quotidiano.
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