Il mutuo con Amazon, il trasferimento di denaro con Apple, il prestito Google, Facebook o Alibaba, eccetera. Si discute molto del possibile ingresso dei colossi dell’Information Technology nel settore dei servizi bancari. Per guardare il dito si rischia però di perdere di vista la luna. Ossia, come sottolineato di recente anche dal Financial Times, che molti di questi soggetti operano già oggi come banche di investimento e lo fanno con una potenza di fuoco paragonabile a quella dei big della finanza come Jp Morgan, Citi o Bank of America. Per di più senza essere sottoposti alle medesime e stringenti regolamentazioni.
Lo fanno attraverso fondi offshore che si trovano in paradisi fiscali come Lussemburgo, Gran Cayman o Bermuda. Qui le grandi aziende a stelle e strisce hanno ammassato qualcosa come 3mila miliardi di dollari (più o meno il Pil di Italia e Spagna messi insieme) reinvestendo in altri prodotti finanziari circa mille miliardi. Qui confluiscono i guadagni che non vengono utilizzati in operazioni industriali, che non vengono distribuiti sotto forma di dividendi o per piani di riacquisto di azioni proprie, altro modo per distribuire risorse ai soci spingendo le quotazioni. Non solo. Qui, in una seconda fase, arrivano anche i soldi raccolti emettendo obbligazioni a tassi particolarmente vantaggiosi, poiché si tratta di aziende molto solide finanziariamente che possono permettersi di pagare interessi bassissimi a chi presta loro soldi. A maggior ragione in questi anni di politiche monetarie ultra espansive.
Il parcheggio offshore ha innanzitutto finalità fiscali. Una volta che rimpatrieranno questi fondi, le aziende statunitensi dovranno pagare le tasse, ma la scelta del momento in cui farlo può essere rimandata indefinitamente. Ad esempio finché non si presentano condizioni fiscali più favorevoli, come quelle introdotte dalla recente riforma del presidente degli Stati Uniti Donald Trump che, secondo alcune stime riportate dal New York Times, in caso di rimpatrio comporterebbe uno sconto di circa 570 miliardi di dollari rispetto alla legislazione precedente.
Come si sa, però, il denaro non dorme mai e quindi nel frattempo questa montagna di soldi viene reinvestita in altri prodotti finanziari per generare ulteriore ricchezza. Principalmente obbligazioni di altre società (sfruttando la possibilità di emettere le proprie obbligazioni con bassi interessi e incassare quelli più alti dei bond acquistati), titoli di Stato Usa, titoli frutto di cartolarizzazioni e altro ancora. Come fotografato da un rapporto di Credit Suisse diffuso due settimane fa, le prime 10 hanno investito attraverso i loro portafogli offshore 600 miliardi di dollari. Si tratta nell’ordine di Apple (216 miliardi di dollari), Microsoft (109 miliardi), Cisco (60 miliardi); Oracle (48 miliardi); Alphabet ossia Google (43 miliardi), Johnson and Johnson (38 miliardi), Pfizer (35 miliardi), Qualcomm (30 miliardi), Amgen (29 miliardi), Merck (25 miliardi). Impressiona il ritmo con cui questi forzieri sono andati riempiendosi: nel 2008 custodivano “appena” 100 miliardi. Il rapporto va anche a vedere come sono stati reinvestiti questi fondi.
Per la metà (300 miliardi) si tratta di corporate bond, per un altro 40% (240 miliardi) di titoli di Stato Usa prevalentemente con durata da 1 a 5 anni. Più nel dettaglio Apple punta soprattutto su corporate bond, avendone in portafoglio ben 140 miliardi di dollari, a cui si aggiungono 50 miliardi di titoli di Stato e una trentina di miliardi tra titoli frutto di cartolarizzazioni e quote in fondi monetari. Più conservativa la strategia di investimento di Microsoft che detiene principalmente titoli di Stato Usa (100 miliardi). Il portafoglio di Google è più articolato: per metà è investito in titoli di Stato, un quinto in obbligazioni societarie, un quinto in titoli subordinati oltre a diversi FX Swaps, ossia contratti in cui si cambia una valuta con un’altra attraverso cui, probabilmente, Google presta dollari per reinvestire il collaterale in bond esteri.
Il confronto con i portafogli delle grandi banche statunitensi dice molto. Microsoft ha più titoli di Stato di Wells Fargo o Bank of America. Apple ne ha tanti quanti Jp Morgan. Google ne possiede più di Bank New York Mellon. O ancora Apple ha in portafoglio oltre il doppio dei corporate bond di Bank of America e più o meno lo stesso ammontare di Jp Morgan. Oracle non è molto distante da Bank New York Mellon. Si tratta di decine o centinaia di miliardi di dollari che, qualora dovessero essere disinvestiti per essere rimpatriati, potrebbero esercitare pressioni sui tassi di interesse tali da interferire in una qualche misura con le strategie delle banche centrali. Non va tuttavia dimenticato come esista una domanda famelica di titoli da parte di soggetti come i fondi pensione alla disperata ricerca di rendimenti per soddisfare le necessità previdenziali dei sottoscrittori. Alla fine le due istanze contrapposte potrebbero neutralizzarsi a vicenda.
L'articolo Banche d’investimento offshore: così Apple, Google & C usano i 3mila miliardi di dollari parcheggiati nei paradisi fiscali proviene da Il Fatto Quotidiano.
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