I nostri progenitori comuni sono africani. Appartengono all’unica specie non estinta, quella dell’homo sapiens, apparsa in Africa circa 200 mila anni fa e più tardi messasi in marcia, colonizzando il Pianeta, a cominciare dall’Europa, casa nostra.
Il campionato europeo di calcio, appena conclusosi a Berlino, è sembrato una felice eco di quella trasmigrazione, così come lo erano stati i recenti europei di atletica leggera a Roma, come lo saranno tra pochi giorni le olimpiadi a Parigi.
Il Continente Nero
Il nostro sangue arriva dal Continente Nero, anche quello di chi detesta le persone di colore, forse soprattutto il loro, considerata la veemenza sospetta delle posizioni che assumono, forse compensatorie. Konrad Lorenz l’avrebbe chiamata aggressività intraspecifica, tra vicini. Proprio il calcio ci insegna quanto sia improbabile che due tifoserie della stessa città o della stessa area geografica si possano gemellare. Più facile quando i chilometri aumentano. Chi detesta i neri si muove tra paludi interiori inconfessabili, tra fobie di assimilazione rifiutate con violenza, così come chi odia gli omosessuali è facile sia abitato da una qualche forma repressa di omosessualità. Del resto, una persona libera da paure irrazionali non cerca nemici e non cede allo squallore del razzismo o dell’omofobia. Tuttavia, chi coltiva tali ostilità è meglio si rassegni, perché è stato proprio l’arrivo dell’homo sapiens dall’Africa, anzi la sua versione più evoluta, il sapiens sapiens, a contribuire alla scomparsa dell’uomo di Neanderthal, diffuso nel nostro continente in precedenza.
Il seme della compassione
Forse, oltre a imporre i loro caratteri dominanti, sono stati proprio i nostri nonni africani a istillarci il seme della compassione, estensione estrema della natura cooperativa, quella caratteristica alla base di tutti i progressi che abbiamo realizzato. Insomma, quando i nostri ascendenti africani sono arrivati qui per la prima volta, abbiamo ricevuto una specie di scossa elettrica, una spinta evolutiva capace di fare decollare la nostra struttura psichica e la nostra organizzazione sociale, i cui destini sono legati da quei tempi in modo solidale. Si tratta della stessa scossa che sta percorrendo il presente mettendo sottosopra coloro che non si sono mai affrancati dall’istinto territoriale, spingendoli all’angolo, rendendone precario l’annidamento nella vita, additandoli come pericolosi antagonisti del progresso della specie. Se solo avessero voglia di ascoltarsi, di guardarsi intorno, rimarrebbero senza parole, come capitò quella notte ai pochi presenti, quando un rumore assordante squarciò il silenzio.
L'impatto
Qualche centinaio di metri più a nord, un’auto si era appena inabissata nel Naviglio della Martesana. Dopo avere superato un dosso, andando chissà a quale velocità, era “atterrata” sulla strada gelata divenendo una scheggia impazzita che, dopo avere sbattuto contro un muro, carambolò contro il parapetto del corso d’acqua, sfondandolo.
Non c’era anima viva in giro, io e mio figlio maggiore corremmo veloci, a piedi, fino al luogo dell’impatto. La scena era illuminata dalla luce fioca di un lampione e dai fari dell’auto ancora accesi sott’acqua. Sulla banchina, un ragazzo, catapultato fuori dall’abitacolo nell’impatto. Con gli ultimi respiri urlava, bestemmiava, straparlava, sentiva che la vita lo lasciava. Dopo qualche minuto, forse attirate dal botto, erano arrivate due persone, un ragazzo di colore e un uomo dell’est Europa. Due immigrati. Confabulammo su come intervenire, ci serviva una fune. L’uomo dell’est corse a casa e tornò con una corda, il ragazzo di colore si fece legare per la vita e si immerse. Lo tenemmo saldamente ma era lui a rischiare, noi eravamo al sicuro, all’asciutto. Dopo un interminabile minuto riaffiorò, aveva con sé uno degli occupanti, che sembrava morto. Ora il soccorritore, spossato e quasi congelato, non era più in grado di rituffarsi, l’acqua sfiorava gli zero gradi. Dopo l’arrivo dei soccorsi, vidi allontanarsi il ragazzo calatosi in acqua, lo rincorsi, mi fece capire che doveva andarsene perché privo del permesso di soggiorno. Non l’avrei più rivisto. Nessuno degli occupanti dell’auto, tre ragazzi, sarebbe sopravvissuto.
Legami
Penso spesso ai genitori di quei giovani, ma soprattutto alla persona che, con un coraggio molto più grande del mio e senza avere alcun legame, neppure etnico, con le vittime dell’incidente, non esitò a mettere a rischio la propria giovane vita. Si era comportato come se quei ragazzi gli appartenessero, in fondo erano lontani discendenti dei suoi progenitori, partiti dall’Africa a cercare cibo e forse un clima migliore, accelerando le tappe evolutive della nostra specie. L’acqua che scorre nel Naviglio della Martesana, da prima che quel manufatto vedesse la luce, tra la fine del Quattrocento e l’inizio del Cinquecento, era composta dalle stesse molecole che avevano bagnato e dissetato la prima ondata di sapiens sapiens. L’altra mattina ripassavo a piedi nel punto esatto dove il ragazzo africano si è quasi immolato, un quarto di secolo prima. Qualcuno aveva appena legato alla ringhiera un fiore e un bigliettino, scritto a mano, succede di frequente che appaiano segni di pietà. “
Siate rispettosi e gentili, non togliete questo fiore, simbolo d’amore di una madre nei confronti di un figli che proprio qui ha perso la vita in un incidente”. Seguono due cuori.
La madre non credo sappia come sono realmente andate le cose, non immagina che un giovane africano aveva cercato, mettendo a rischio la propria, di tenere accesa la vita che lei aveva dato alla luce. Quella persona sconosciuta mi è balenata alla memoria, con gratitudine, quando domenica sera Lamine Yamal si è inventato l’assist trasformato in gol da Nico Williams. Tutti e due sono figli di genitori africani, come una grande parte dei calciatori dell’europeo disputato in Germania, quelli di Nico si sono attraversati a piedi il deserto, vedendo morire molti dei compagni di viaggio. È stato un gol faticoso, quello del figlio.
Il cammino dell’homo sapiens
Il cammino dell’homo sapiens ci affratella, è la storia, nuda e cruda, della nostra specie a dirlo. Anche la nostra psiche, a sua volta figlia di una lunghissima sequela di incontri e interazioni, si è fatta “normale” proprio grazie alla sua capacità di interfacciarsi coi simili, al punto che secondo Alfred Adler -geniale medico e psicologo austriaco, proveniente dall’Ungheria, migrante anch’egli- l’unico modo di misurarne il grado di normalità consiste nel valutarne l’attitudine alla cooperazione, alla cura dell’altro.
Il razzismo nasce e cresce all’interno di mondi interiori desolati, poveri o addirittura privi di sentimento sociale, i peggiori crimini dell’umanità nascono all’interno di questi inquietanti spaccati, che abilissimi manipolatori trasformano in intenzioni politiche distruttive. Lo sport, almeno sul terreno dell’integrazione razziale, sta diventando la più credibile avanguardia dell’unico futuro possibile, un futuro cooperativo, privo di pregiudizi, capace di attenuare le differenze, un luogo dove anche la psiche può trovare appigli di normalità, allenandosi al sentimento sociale e contagiando senza posa atleti, spettatori e comunità allargate.
Domenico Barrilà, analista adleriano e scrittore, è considerato uno dei massimi psicoterapeuti italiani.
È autore di una trentina di volumi, tutti ristampati, molti tradotti all’estero. Tra gli ultimi ricordiamo “I legami che ci aiutano a vivere”, “Quello che non vedo di mio figlio”, “I superconnessi”, “Tutti Bulli”, “Noi restiamo insieme. La forza dell’interdipendenza per rinascere”, tutti editi da Feltrinelli, nonché il romanzo di formazione “La casa di Henriette” (Ed. Sonda).
Nella sua produzione non mancano i lavori per bambini piccoli, come la collana “Crescere senza effetti collaterali” (Ed. Carthusia).
È autore del blog di servizio, per educatori, https://vocedelverbostare.net/
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