Sogno meraviglioso di una donna che da qualche mese assiste il padre sessantenne, gravemente malato e oramai in una situazione di non ritorno.

Ce lo teniamo per il finale.

La morte, vera signora della vita, ci mette di fronte alla nostra caducità e noi la trattiamo con sufficienza, come i bambini quando non vogliono ascoltare e si tappano le orecchie. Il risultato è che nello sforzo di negarla ci ammaliamo, diventando benemeriti della mia categoria professionale. Molte delle patologie odierne, presunte o reali che siano, partono da una laboriosa relazione con l’idea del confine ultimo. Le patofobie, ossia le paure irrazionali delle malattie, arrivano in quanto percepite come annuncio remoto e sgradito del problema maggiore.
Presenza insopportabile, il pensiero della finitezza, soprattutto in un tempo in cui la finzione della seconda possibilità, cara alle religioni, cede al realismo. Le chiese -rispondo a quei prelati che pongono domande interessate- si sono svuotate anche perché il prodotto di punta, l’aldilà, non trova più mercato. Non si compra più sulla parola, ci si rifugia nella finzione dell’immortalità qui e adesso, spegnendo le antenne che captano segnali minacciosi, così molti malati arrivano tardi alla diagnosi, perché sordi al linguaggio dei sintomi, ancore di salvezza ignorate.

La stessa logica per la quale continuiamo a giocare a pallone, moltiplichiamo spettacoli di ogni genere, come se niente fosse, mentre le giovani generazioni di paesi vicini e lontani si annientano in guerre fratricide. Non se ne parla per non cadere nel panico, meglio ignorare i messaggi di finitezza, sebbene sia impossibile negare questo esito in un Pianeta dove tutto nasce, cresce e muore, ricordandoci tutti i giorni le regole del gioco. Non siamo luminose eccezioni.



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