La vita somiglia alla meccanica quantistica. In fondo gli atomi e le particelle elementari di cui è composta sono gli stessi che conducono l’infinitamente piccolo a muoversi come “nuvole di probabilità”. Eppure, è proprio questo il fascino della vita, la possibilità di scriverla e poi riscriverla, all’infinito, se si vuole.

Tuttavia, perché sia scritta e riscritta deve prima arrivare, deve esserci, e perché questo accada occorre lasciare aperte tutte le porte, evitando dispute ideologiche che ad essa non servono, soprattutto rispettando chi sulla propria pelle fa scelte diverse.

Dico sulla propria pelle perché alla fine i debiti ciascuno se li paga per conto proprio, anche nel silenzio della solitudine, spazi popolati dal dubbio, dal senso di colpa quando non dalla vergogna, perché non tutti i sospesi vengono saldati sui giornali o sui programmi di intrattenimento. Magari con la complicità di chi dovrebbe tenere sigillate certe vicende, evitando di assecondare pulsioni e curiosità inconciliabili con i diritti di chi non vuole finire sotto i riflettori o diventare materia di dibattito tra soggetti che nulla sanno di ciò che accade in quelle bolle.

 

Così è, così sarà, per quella madre che, dopo averlo consegnato alla vita, non si è sentita di prendersi carico del proprio bimbo, perché tale rimarrà per sempre, il “proprio bimbo”. Così lo immaginerà, lo sognerà, lo chiamerà, fino all’ultimo dei suoi giorni. Vi sono legami impossibili da spezzare, comunque vada.

Non credo di avere la minima idea sulla storia che precede quell’ultimo passo, atto terminale di un percorso che vanamente cerchiamo di ricostruire in assenza di indizi, invece di concentrarci sul fotogramma decisivo, rivelatore di un dramma quasi insuperabile, quello di una madre che si separa da ciò che ama oltre ogni cosa. Un gesto che, valutato dalla poltrona sulla quale sediamo comodamente, può apparire innaturale, ma che invece è perfettamente coerente con la trama specifica, quella che noi ignoriamo. Lo stesso vale per l’altra vicenda, quasi identica, verificatasi pochi giorni dopo, sempre in un ospedale milanese, diverso dall’altro. Non saprei se per imitazione, forse solo coincidenze temporali.

Nel racconto di Re Salomone due madri si contendono un neonato, reclamandolo come figlio proprio. Il sovrano e giudice cercava lumi per venire a capo della verità, così decise di tagliare a metà il piccolo, consegnando alle due pretendenti la propria parte. Di fronte alla spada pronta a colpire, una delle due cedette indicando la madre nell’altra. Solo a quel punto Salomone comprese che la genitrice era proprio colei che, pure di non vedere straziato il corpo del bambino, era disposta a perderlo.

Neppure chi, come il sottoscritto, per mestiere vive a contatto con quelle nuvole di probabilità di cui si diceva, è un grado di trovare una sola spiegazione, chissà quante ve ne sono e quanto profondi siano, e speriamo resteranno, i suoi segreti.

Colpisce, però, la decisione di “esporre” quel piccolo. Non da parte della madre, semmai di chi doveva limitarsi ad accogliere l’ospite in una cortina di silenzio, una nuova placenta.

Il tema della vita, purtroppo, da tanti anni è entrato in un binario sbagliato, una disputa muscolare dove l’ideologia e l’integralismo prendono la mano agli attori di ogni parte, rischiando di soffocarla piuttosto che promuoverla, ecco perché la sua difesa è diventata debole se non debolissima, punendo in ultima analisi proprio madri e bambini. Creature fragili, nel deserto, nottetempo, senza cibo né acqua.

 

La difesa della vita, di tutta la vita, è una cosa seria, che si concilia malissimo con lo spettacolo, ma richiede attori discreti e competenti, disposti a lasciare da parte gli eccessi -civili, ideologici, religiosi- per concentrarsi sulla cruda realtà di madri e figli, così come sono quando non li vede nessuno, quando non sono strumento di propaganda o, peggio, di popolarità. Esistenze in marcia verso una vita raramente generosa. Questo è, questo sarebbe, ciò che conta.

Ma è raro che siano loro i protagonisti del dibattito, che pure li riguarda, in genere si fronteggiano visioni rispettabili ma spesso cariche di astrazione.

“Nella mia via c'è un canale irriguo dove spesso si radunano delle anatre. Una femmina era, forse incautamente, salita in strada e ora giaceva priva di vita, investita da qualcuno che andava al triplo della velocità consentita. Una seconda, il maschio, stava in disparte, tra gli arbusti poco distante. Fissava la compagna, immobile, forse malinconico. Sono esemplari monogami. Ho pianto”.

Nei giorni scorsi, un padre quarantenne, estremamente sensibile e impegnato, mi aveva raccontato questo episodio. Una “semplice” anatra morta può smuovere mille domande. Chissà quante dovrebbe indurne una vita umana, se solo la osservassimo con rispetto. In silenzio.

 

 

Domenico Barrilà, analista adleriano e scrittore, è considerato uno dei massimi psicoterapeuti italiani.
È autore di una trentina di volumi, tutti ristampati, molti tradotti all’estero. Tra gli ultimi ricordiamo “I legami che ci aiutano a vivere”, “Quello che non vedo di mio figlio”, “I superconnessi”, “Tutti Bulli”, “Noi restiamo insieme. La forza dell’interdipendenza per rinascere”, tutti editi da Feltrinelli, nonché il romanzo di formazione “La casa di Henriette” (Ed. Sonda).
Nella sua produzione non mancano i lavori per bambini piccoli, come la collana “Crescere senza effetti collaterali” (Ed. Carthusia).

È autore del blog di servizio, per educatori, https://vocedelverbostare.net/



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