Perché un boss di 60 anni, metà dei quali trascorsi in latitanza, dovrebbe iniziare a fare quello che prima di lui non hanno fatto i suoi “maestri”: Riina e Provenzano o i suoi “compagni di scuola”: Giuseppe e Filippo Graviano? Perché un giovane di Castelvetrano, cresciuto dal padre Ciccio seguendo gli antichi riti di Cosa Nostra, poi maturato nell’accademia corleonese con la consegna del silenzio dovrebbe decidere di sedersi a parlare con uomini dello Stato non per trattare ma per raccontare, senza reticenze, quelle verità che per il resto d’Italia sono ancora mistero? I magistrati e i gli uomini del Ros, dopo la cattura di Matteo Messina Denaro, questa volta hanno forse qualche motivo in più per nutrire una speranza rispetto ad una collaborazione di giustizia che avrebbe una portata storica, paragonabile solo a quella di Tommaso Buscetta che disvelò agli occhi del giudice Falcone e di un Paese incredulo il volto di un’organizzazione criminale la cui esistenza fino a pochi anni prima veniva negata, anche da chi aveva il compito di combatterla. 



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