In Qatar stanno per iniziare i primi campionati mondiali di calcio della preistoria.
Dopo la strage di migliaia di lavoratori impegnati nella costruzione degli stadi, nel quasi generale silenzio delle federazioni calcistiche nazionali e internazionali, il Paese della penisola arabica, attraverso il suo ambasciatore presso i mondiali, Khalid Salman, mette le cose in chiaro a proposito di omosessualità, secondo quest’uomo, intervistato dalla televisione tedesca Zdf, “una malattia mentale”. Detto ciò, aggiunge, con notevole zelo pedagogico, che sarebbe meglio se i bambini, per il loro bene, non vedessero gay in giro.
Quando si tocca il binomio maschio-femmina, i turbamenti possono investire, rendendoli ridicoli, anche insospettabili lavoratori del pensiero, come quel professore che rifiuta di accettare la transizione dalla sua studentessa, ora divenuta studente. Non se ne fa una ragione. La parte primitiva, immatura, ossessiva di questi individui, così refrattari, entra in fibrillazione quando qualcuno cambia la disposizione delle matite e delle graffette sopra la loro scrivania, obbligandoli a rimettere ogni cosa dove dovrebbero stare.
Secondo loro, ovviamente.
Alcuni anni fa, un sacerdote, responsabile della pastorale familiare di una diocesi del Nord, mi aveva proposto, a nome del suo vescovo, di occuparmi di un gruppo di omosessuali. Quando gli domandai che tipo di patologie presentassero, mi risposte, non diversamente dal signor Khalid Salman, che erano gay e tanto sarebbe bastato a offrire loro uno spazio di riflessione e, chissà, di cambiamento.
Pare evidente che l’omosessualità semini regressione, anche in soggetti che ricoprono delicati uffici, compresi quelli spirituali. Presso una chiesetta nelle campagne attorno a San Gimignano, il celebrante, grosso modo quarantenne, sembrava in trance mentre, occupando quello che doveva essere lo spazio riservato all’omelia, pronunciava parole violente e involute. Eravamo alla vigilia del gay pride del 2000, organizzato nell’anno del Giubileo.
“Sporcaccioni, depravati, immorali”. Così quell’uomo, dimentico del proprio ruolo e delle delicate responsabilità ad esso collegate, parlava di coloro che l’indomani avrebbero sfilato per i propri diritti.
Nel frattempo, le acque ristagnano, appena un paio di mesi fa, un ragazzino che sente di essere gay e si accingeva a partecipare al pride di Milano, è stato redarguito dal suo parroco con gli stessi toni usati dal collega quasi un quarto di secolo fa. “Non mi dirai che vuoi davvero recarti a quella pagliacciata!”.
Un prelato straniero, proprio in questi giorni, parla della possibilità di benedire le coppie omosessuali. Mi chiedo quanti strali si attirerà, ma almeno ci prova.
Nelle espressioni avventate di cui si è dato conto, è presente il deprecabile catalogo di eccessi che poi finiscono nell’armamentario di chi, ieri nella storia oggi nella cronaca, cerca di lucrare sulla diversità, spacciandola per “irregolarità”, patologia, vizio, attacco alle tradizioni, dimenticandosi dell’unico valore davvero in gioco, ossia la persona e la sua libertà di essere come sente di essere.
L’innesco di tale regressione, perché di questo si tratta, è rintracciabile in un meccanismo arcaico, utilissimo quando siamo bambini e necessitiamo di coordinate semplici per orientarci nei nostri compiti, elementari anch’essi. In quella prima stagione della nostra vita può rivelarsi prezioso uno schema a due binari, che ci aiuti a polarizzare la realtà: destra-sinistra, piccolo-grande, alto-basso, buono-cattivo, giusto-sbagliato e via con le antitesi. Da piccoli abbiamo bisogno di procedere senza troppe complicazioni, ma le sfumature, a quell’epoca non necessarie, saranno indispensabili una volta adulti, anzi diverranno una spia del livello di maturità raggiunto.
Evoluzione non scontata, che può incepparsi interferendo con i processi di maturazione degli individui e con la qualità della loro presenza sociale. Certi vissuti problematici in materia di orientamento sessuale, possono risentire di tale frenata, sia perché l’omosessualità, più di ogni altra caratteristica dell’umano, non è chiaramente collocabile nel primitivo schema bipolare di cui si diceva, vuoi perché stavolta si tratta di un’opposizione, maschio-femmina, culturalmente molto sensibile, capace di toccare corde profonde, confondendo e portando fuori strada chi rifiuta -per ignoranza, fragilità o malafede- la carta più preziosa della natura. La variabilità.
Una mente adulta, arricchita del contributo fecondo delle “sfumature”, tende a valutare un individuo a partire del suo apporto, piccolo o grande, al bene comune, non certo in base all’orientamento sessuale. Era stato Alfred Adler, più di un secolo fa, ad affermare che il “barometro” della normalità, ossia il criterio per misurare il grado di salute mentale di un individuo, è il “sentimento sociale”. Nessuna persona di buon senso potrebbe sostenere che il dosaggio di tale ingrediente, il sentimento sociale, è influenzato dalle preferenze sessuali.
Questo dovrebbe chiudere ogni discorso e spuntare le armi a molti intemperanti, ideologici e religiosi compresi, in perenne conflitto con tutto ciò che non si conforma ai dettami della geometria euclidea, popolata di quadrati e triangoli impeccabili, ma la stessa teoria delle relatività non sarebbe mai nata se non fosse giunta in suo soccorso un’altra geometria, quella dello spazio curvo, grazie al genio di Bernhard Riemann.
Nel frattempo, nessuna teoria sull’omosessualità si è affacciata all’orizzonte né sappiamo di studiosi in grado di dirci parole esaustive, sempre che ne esistano. In compenso si inseguono spiegazioni biologiche, si costruiscono consolatorie finzioni di innatismo, che tranquillizzano quei gay che vorrebbero ridurre i propri sensi di colpa e gridare al mondo che non è “colpa loro”. Finzioni che sarebbero un balsamo anche per le agenzie politiche e religiose, le quali non avrebbero più il fastidio di fustigare “depravati”, così come sarebbero un toccasana per gli eterosessuali più riottosi, finalmente liberi di deporre le armi e trovare il tempo per interrogarsi seriamente sulla vera radice della loro ipersensibilità rispetto alla materia.
Ma nemmeno questa strada, quella dell’innatismo, darà grosse soddisfazioni, si continuerà a brancolare nel buio, fino a quando, finalmente, non si deciderà di
percorrerne di più ragionevoli, come adottare una lettura individuale, perché solo nella biografia del singolo, soprattutto nella sua affascinate “logica privata”, si possono reperire indizi e possibili spiegazioni, che non sono patologia ma, appunto, indizi e spiegazioni, gli unici cassetti in cui è lecito sbirciare.
Il resto è pregiudizio, che tormenta i bersagli e non rende onore a agli attori riottosi, ai quali conviene impiegare meglio le loro povere risorse interiori, giacché, come sosteneva un secolo fa Alfred Adler, ancora lui, nonostante il biasimo e la condanna generale “il numero degli omosessuali cresce”, dunque a nulla serviranno “il divieto e la scomunica di tipo religioso e giudiziario”.
Domenico Barrilà, analista adleriano e scrittore, è considerato uno dei massimi psicoterapeuti italiani.
È autore di una trentina di volumi, tutti ristampati, molti tradotti all’estero. Tra gli ultimi ricordiamo “I legami che ci aiutano a vivere”, “Quello che non vedo di mio figlio”, “I superconnessi”, “Tutti Bulli”, “Noi restiamo insieme. La forza dell’interdipendenza per rinascere”, tutti editi da Feltrinelli, nonché il romanzo di formazione “La casa di Henriette” (Ed. Sonda).
Nella sua produzione non mancano i lavori per bambini piccoli, come la collana “Crescere senza effetti collaterali” (Ed. Carthusia).
È autore del blog di servizio, per educatori, https://vocedelverbostare.net/
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