di Roberto Sormani
E’ il turno di Marco Carta e come sempre si ripropone il dibattito interno alla comunità LGBT+, anche dentro Wake Up Italia. Io sono in minoranza e questo non lo prendo quasi mai molto bene, come ha scoperto chiunque opinasse sui miei folti capelli. La divisione, però, vale la pena di essere raccontata, se non altro per sollevare noi pover* LGBT+ dal peso dell’impressione che si dà di rappresentare sempre l’intero gruppo di appartenenza. Un po’ come quando ci si dice “Ma dai, sei gay? Non l’avrei mai detto!” e manca solo che aggiungano un sentito “Complimenti!”. O come quando si dice che noi gay facciamo tutti un sacco di sesso e siamo un po’ pervertiti (e invece credetemi: ci sono anche dei gay “noiosi”). O come quando ci si chiede “Ma voi come fate questo, e come fate quest’altro? E voi cosa ne pensate?”. Ma io non gestisco un istituto di sondaggi e non sono troppo informato sulla posizione dell’universo gay (figuriamoci poi LGBT+). Per dare la misura di quanto son messo male quanto a omosessualità generale: Marco Carta giuro di non averlo non solo mai ascoltato, ma nemmeno mai sentito per caso alla radio mentre mi radevo la folta chioma. Al più chiedetemi una mozione di minoranza.
C’è grossa divisione, dicevo, sul coming out di Marco Carta. Su un fronte c’è chi dice che sono fatti suoi e non doveva necessariamente fare coming out e chi, invece, dice che doveva farlo prima. Entrambi i campi presentano argomenti condivisibili. Da un lato si nota come il coming out possa essere ancora fonte di disagi, sia in casa sia in famiglia, e non si possa quindi obbligare un uomo gay ad affrontarli. Dall’altro, invece, si sostiene che un musicista è un role model per molte persone e con il suo silenzio sta rinunciando a un potere che potrebbe fare del gran bene alla società e a tanti ragazzi ancora invisibili.
Entrambe le posizioni hanno senso. Io stesso ho avuto un percorso molto accidentato nel mio coming out col mondo e certamente non è bello costringere una persona, anche se ricca e famosa, ad affrontare discriminazioni che non possiamo conoscere, solo per un obbligo morale nei confronti del gruppo di appartenenza. Non abbiamo ancora creato la pink police e non ci sono ancora certificazioni di omosessualità controllata e garantita. Anche uno dei miei idoli musicali, pur non avendo fatto ufficialmente coming out, ha scritto delle canzoni così intrise dell’esperienza del maschio gay nella provincia anni 90 da essere per me un enorme punto di riferimento a quindici anni. Però se si fosse dichiarato mi avrebbe dato forza. Rinunciare al potere che si può avere sulle masse per smuovere le coscienze e dare speranza a chi si sente solo è un peccato e, dunque, sarebbe meglio rinunciare solo se veramente necessario.
Insomma, a ciascuno la sua opinione. Su una cosa, però, dobbiamo capirci. Dobbiamo smetterla di fare finta che “Io non lo dico, ma non lo nascondo”. Vero: nel mondo ideale non ci sarà bisogno di dirlo. Se una ragazza non dice esplicitamente di essere eterosessuale, sarà assolutamente normale pensare che sia lesbica, o bisessuale, o non pensare niente affatto. Allo stesso tempo non ci sarà niente di male nel chiederle se sia lesbica o bisessuale, una volta che ci si è entrati in confidenza, ma guardiamoci negli occhi: quel mondo ideale non è ancora arrivato. Sembra anzi allontanarsi sempre di più se anche nel Regno Unito i reati omo-transfobici aumentano rapidamente. Se vado da uno che mi piace e gli chiedo “Per caso sei gay?” con buona probabilità quello non la prende bene. Siamo tutte e tutti vittime di eterosessualità presunta. Possiamo fingere che non sia così, ma in fondo lo sappiamo che fino a quando non lo diciamo a chiare lettere il mondo ci tratterà come se fossimo eterosessuali. Autoconvincerci del contrario può essere una strategia di sopravvivenza se siamo in situazioni di grossa difficoltà, per esempio se siamo figli di un Mario Adinolfi o qualche altro nemico dei gay. Né possiamo dirci, se siamo effeminati, che “tanto tutti lo sanno”. Per fortuna, ci sono molti eterosessuali effeminati. E’ pieno di uomini famosi molto effeminati, eppure quanti di questi personaggi possiamo dire con certezza che siano gay? Zero.
Allora ha ragione Marco Carta. Il coming out è un atto di libertà e, in quanto tale, dev’essere libero, ma diciamo le cose come stanno: non dichiararsi, nel mondo in cui siamo, vuol dire nascondersi.
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