Se vogliamo parlare in modo serio di razzismo ai nostri figli, l’ultimo posto da cui partire sono gli stadi, così come per parlare di bullismo, cioè di aggressività, è ingannevole partire dalla scuola.

Luoghi ad alta densità sociale dove è più forte la possibilità che un comportamento si manifesti, ma ai quali non possiamo attribuire l’origine dei due peccati capitali dell’umanità, aggressività e razzismo, figli della comune incapacità di vedere nell’altro qualcuno che ci somiglia profondamente. Carenza che spesso si modella grazie a passaggi educativi che trasferiscono sulla prole percezioni distorte.

L’aggressività è all’origine di tutte le grandi tragedie provocate dalla nostra specie, mentre al razzismo si devono atti ignobili e genocidi di massa. Cercarli lontano è ingenuo, perché sono ospiti fissi delle nostre case. Un ragazzo mi racconta che alle elementari un amico di colore aveva organizzato la festa di compleanno nella sua modesta casa popolare. “Ci siamo presentati in quattro su venticinque”. Mi sono chiesto quale scusa avranno preso i genitori per giustificare ai loro figli la scelta di non farli partecipare.

In una scuola elementare, devo parlare agli alunni. Mentre parcheggio mi soffermo davanti ad una scena di maestosa bellezza, i piccoli sono nel campo di ricreazione. Bianchi, neri, meticci, gialli. Giocano senza barriere, con l’innocenza di quell’età.

A pranzo domando al genitore che aveva promosso l’incontro com’è possibile che quei bambini, pochi anni dopo, si divideranno, anche nelle cabine elettorali, in modo netto. In quelle valli è presente un partito a forti connotazioni territoriali, i cui consensi sono sempre alti. “Quella virata -mi dice amaramente- la determina l’educazione familiare”.

Se vogliamo analizzare il fenomeno del razzismo, dobbiamo dimenticare stadi e altri alibi, perché questa ombra nell’animo umano non spunta come i funghi nel bosco ma evoca quadri vicini alla malattia, che si nutrono di paure irrazionali, ignoranza, complessi di inadeguatezza mascherati, conditi da una vera degenerazione degli istinti territoriali, naturali ma pericolosi se istigati.

Il modo in cui trattiamo il razzismo oggi presenta sorprendenti punti di contatto con il bullismo. Vengono affrontati entrambi come si fa in finanza coi cosiddetti titoli tossici, collocati in apposite discariche contabili perché non nuocciano.

Una tecnica elusiva che non ci permetterà mai di venirne a capo.

Col bullismo la tecnica funziona benissimo. Infatti, quando si parla di questo comportamento, il pensiero corre veloce alla scuola, un riflesso automatico e collettivo A furia di insistere scuola e bullismo sono diventati sinonimi. Un falso.

Ora, anche il razzismo sembra avere trovato, finalmente, il suo luogo sicuro, la sua dimora, gli stadi, che generosamente avevano già fatto posto all’aggressività.

Sono bastati alcune telecamere e una decina di esaltati, uno era di colore, che se la sono presa col portiere della squadra ospite, anch’egli di colore, a rimpicciolire un sentimento diffuso, collettivo, confinandolo in uno spazio preciso.

Il razzismo appartiene alla parte più pericolosa e primitiva di noi, quasi nessuno ne è davvero immune, persino chi l’ha subito sulla propria pelle sembra non avere imparato nulla. Se vi fate una chiacchierata con alcuni dei tanti stranieri che vivono in Italia, vi capiterà di sentirli animati da forti sentimenti di esclusione verso chi preme alle frontiere, quand’anche fossero loro connazionali.

Erano razzisti coloro che scrivevano sui muri della stazione di una città veneta “Forza Etna”, a caratteri enormi, così fui accolto la prima volta che arrivai in treno per iscrivermi all’università, è passato mezzo secolo. Ma queste cose accadono dappertutto, parlo di quel caso per l’effetto che ebbe su di me, appena arrivato da sud giovanissimo e convinto di essere ancora a casa mia.

Combattere il razzismo negli stadi è un dovere, ma stabilire un nesso forte tra luogo e comportamento è solo un maldestro tentativo di esorcizzare il problema.

Certo, lo stadio, all’incirca come i social e come i luoghi dove ci si può confondere nel mucchio, disinibisce, apre le porte all’irrazionale, ma esso è solo un importatore e il mondo del calcio non potrà mai risolvere il problema da solo. Si pensi al senso di onnipotenza che scaturisce dalla possibilità di fermare una partita con le proprie intemperanze, si pensi al senso di liberazione determinato dall’opportunità di agire la propria aggressività in un modo socialmente accettato. Allo stadio di può gridare tutto quello che si vuole senza pagare dazio, vomitando insieme alle contumelie tutte le frustrazioni che ci portiamo dentro, e questo atteggiamento non riguarda solo le persone più rozze e muscolari. Anni fa un amico mi ospitò in tribuna centrale presso lo stadio in Lombardia, la squadra locale giocava contro quella della città in cui sono nato. Ero in mezzo a persone in giacca e cravatta, industriali, professionisti, eppure ciò che mi è accaduto di sentire urlare a quelle persone è difficile da dimenticare. In quell’istante, cadute le inibizioni, ognuno manifestava la propria vera natura che in altri giorni è tenuta a bada dalle convenienze sociali. Purtroppo, il calcio esiste anche per questo. Una strana terapia che però non ti fa guarire.

Tuttavia, il razzismo è un tema tremendamente serio per farne una questione di situazioni, vi sono premesse antiche, che nel secolo appena passato si sono fatte micidiali, modellando la politica, la società e l’animo umano.

Verso la fine degli anni Trenta, in Italia sono iniziate le pubblicazioni della rivista “La difesa della razza”, prezzo di copertina una lira.

Il periodico sosteneva tesi aberranti, ma i suoi contributori, tutti accademici, si prendevano molto sul serio, spacciando per scienza contenuti che sconfinavano nella psichiatria, pescati nelle sentine della propria cultura.

Nel numero due, data di uscita 20 agosto 1938, con l’estensione XVI, che immagino significasse sedicesimo anno dell’era fascista, a pagina nove leggo parole molto compiaciute: “Concetto fondamentale per il razzismo italiano è che esiste una netta distinzione tra il gruppo dei popoli ariani e indoeuropei da una parte e il gruppo dei popoli camito-semiti dall’altra”. Naturalmente il secondo blocco rappresentava una sorta di umanità minore.

A pagina sette si dichiara solennemente che non vi può essere più di un ebreo ogni mille italiani. A pagina dieci una foto con la seguente didascalia: “Tipica foto di ebreo con ben manifeste le caratteristiche della sua razza”.

Fa comodo a tutti pensare che la prepotenza abbia una sede precisa e che fuori da quella non se ne trovi traccia, così possiamo evitare di pensare al problema e alle nostre, spesso gravi, responsabilità, ci basta qualcuno a cui indirizzare la colpa.

La società è piena di armadi “dedicati”, che ospitano, in ordine alfabetico, tutto ciò che ci da fastidio vedere in giro. Lebbrosari dove ci piace nascondere le questioni che non sappiamo o vogliamo affrontare.

Tutti siamo intrisi di queste tentazioni, negarlo non ci aiuta a liberarcene, la scuola e gli stadi non c’entrano nulla, non sono la casa di malandrini e razzisti, essi registrano fedelmente e importano le percentuali di competenza. Piuttosto alte, considerato che intorno a quei due mondi girano decine di milioni di persone.

Solo una società incosciente può cedere a un simile, sfacciato, autoinganno distruttivo, che ci impedisce di prendere atto delle vere dimensioni e della natura di questi gravi fenomeni, unica strada per combatterli davvero.

Sempre che lo si voglia.

Domenico Barrilà, analista adleriano e scrittore, è considerato uno dei massimi psicoterapeuti italiani.
È autore di una trentina di volumi, tutti ristampati, molti tradotti all’estero. Tra gli ultimi ricordiamo “I legami che ci aiutano a vivere”, “Quello che non vedo di mio figlio”, “I superconnessi”, “Tutti Bulli”, “Noi restiamo insieme. La forza dell’interdipendenza per rinascere”, tutti editi da Feltrinelli, nonché il romanzo di formazione “La casa di Henriette” (Ed. Sonda).
Nella sua produzione non mancano i lavori per bambini piccoli, come la collana “Crescere senza effetti collaterali” (Ed. Carthusia).

È autore del blog di servizio, per educatori, https://vocedelverbostare.net/



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