Al Salone del Libro di Torino abbiamo incontrato Javier Cercas, uno dei più importanti scrittori spagnoli. Ha chiuso un cerchio con il “Il castello di Barbablù”, edito da Guanda, l’ultimo romanzo della serie incentrata sull’ex poliziotto e accanito lettore Melchor Marín, eroe imperfetto in balia degli eventi. Cercas non ama le categorie in letteratura, tanto è vero che arriva a sostenere che il “poliziesco non esista, come non esistono i gialli” e che “i libri si dividano in buoni e cattivi”. Quelli buoni, secondo Cercas, sono popolari e raggiungono un pubblico vasto. Per scrivere un’opera “rilevante” questa è la condizione da soddisfare.  A Torino, Cercas, editorialista de El País, che ha raccontato a fondo la Spagna sospesa tra franchismo e democrazia, è chiamato in causa soprattutto per riflettere sul ruolo degli intellettuali nel 2023.

 

“Riscrivere il ruolo degli intellettuali” è il titolo di un libro che ha scritto a due mani e di uno degli appuntamenti del Salone del Libro di cui è protagonista. Si tratta di una provocazione?

Mi piace questa definizione, in un certo senso lo è. Gli intellettuali sono una cosa moderna e al tempo stesso démodé. L’aggettivo è antico, ma il sostantivo è recente: non ha più di un secolo. Il prestigio è già venuto meno, ma che cos’è alla fine un intellettuale? Una persona che ha un certo riconoscimento per il suo lavoro e che non si limita ad essere brava nel proprio campo. Si è intellettuali quando si partecipa alla vita pubblica. Io sono un romanziere ma anche un cittadino che esprime la propria opinione. Parlo di politica, che viene dalla parola “città” e la città è di tutti. La politica è troppo importante per essere lasciata in mano ai politici.

 

 



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