Vasco aveva settant’anni, era un contadino dalle mani ruvide, un uomo solido. Mentre chiacchieravamo scoppiò a piangere. Rimasi in silenzio, sospeso tra imbarazzo e rispetto. Non feci in tempo a porgli la domanda sulle cause di quella commozione. Passammo subito alla risposta. Mi condusse in una piccola stalla, c’era solo un vitello, di pochi mesi ma già robusto. “Stanotte lo tengo qui da solo, domani andrà al macello. Mi sono affezionato, gli voglio bene, come a tutte le mie bestie a cui devo la sopravvivenza dell’azienda, ma è il mio lavoro”. Capita a tante persone di porgermi confidenze intime, anche fuori dalle mura del mio studio, pensando che il mio lavoro mi prepari a tutto. Ma non è così. Sono passati 25 anni e continuo a pensarci, spesso. Tutte le volte che qualcuno dice una banalità sugli animali penso a quell’uomo e al suo vitello. È capitato anche in questi giorni, sconfortato e avvilito alla reiterazione di comportamenti delle autorità, incapaci di capire qual è la vera posto in gioco, anche educativa, nel rapporto tra noi e il cibo che consumiamo.
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