Riccardo Faggin e i suoi genitori sono tutti noi. Ci somigliano, però in meglio.
Dopo tanti anni di lavoro, che quotidianamente mi pongono di fronte la mia e l’altrui inadeguatezza, la mia e l’altrui incapacità di tollerare il limite senza cercare uscite di sicurezza. Rimango ammirato da quella mamma e da quel papà che non fanno giri di parole e vanno diritti al punto, senza invocare scuse, senza inventarsi sociologismi e psicologismi, scappatoie attraverso le quali un’infinità di persone comuni, vellicate da noi professionisti della psiche, cercano di confondere le acque, distribuendo i propri gravami a entità collettive, impersonali e anonime.
A casa Faggin non funziona così. Ci sono due genitori che, sebbene travolti dalla disperazione -solo chi è genitore può comprendere- cercano le responsabilità vicino ai propri piedi, scarnificandosi pubblicamente per essere d’aiuto, invitandoci all’ascolto dei figli, prima che sia troppo tardi.
Non abbiamo visto che Riccardo si stava mettendo in una trappola, non ci siamo accorti del suo disagio, dicono, e a me pare musica, abituato come sono ad ascoltare altre spiegazioni, narrazioni in cui la colpa è della scuola, della società, talvolta persino del figlio, mai dei genitori.
Affiderei il destino del Paese a Luisa e Stefano, di sicuro mi permetterei di suggerire a chi organizza corsi per genitori, di desistere dall’abitudine di invitare il sottoscritto o i suoi colleghi e di rivolgersi ai genitori di Riccardo. Ne ricaverebbero vantaggi certi.
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