Poche settimane fa, proprio su questa pagina, avevamo toccato il tema della malattia mentale, dopo che in un centro commerciale alle porte di Milano, un uomo, affetto da una patologia psichiatrica, aveva accoltellato alcune persone, una mortalmente. Provava invida, disse, per le persone intorno a lui, che vedeva felici.

Si era detto della sottovalutazione della malattia mentale, che guadagna le prime pagine solo quando le sue manifestazioni si palesano in atti di violenza.

In questi giorni, a Fidene, vicino a Roma, è accaduto di peggio. Un individuo, durante l’assemblea del consorzio edilizio di cui faceva parte, si è messo a sparare all’impazzata, uccidendo quattro donne, ma i progetti erano più ambiziosi, solo l’audacia di un consigliere del consorzio -sebbene ferito- è riuscito a limitarli.

Ruggini di prossimità, condominiali, esacerbate però da una tragedia sconvolgente, la morte di un figlio quattordicenne a seguito di un incidente sulla neve, dove si era schiantato con il suo slittino, accelerando processi latenti.

La morte di un figlio è un detonatore di sconosciuta potenza, ma deve trovare un terreno fertile per evolvere in comportamenti come quello manifestatosi nella cittadina laziale.

La risposta a uno stress è sempre soggettiva, dipende dal terreno sul quale cadrà. Mi è accaduto, in tutti questi anni, di accompagnare diversi genitori colpiti dallo strazio per la morte di un figlio, sovente bambini. Conservo la foto di molte di quelle creature, una piccola Spoon River celata all’interno del sottomano in finta pelle che tengo sulla scrivania. Talvolta alzo la ribaltina e le faccio passare, col pensiero rivolto alle madri e ai padri. Mi viene spontaneo, da genitore.

L’ospite d’onore è una bimba annegata a tre anni in circostanze talmente banali da aumentare il rimpianto di quella perdita, già irreparabile. Mi occupai con sistematicità della madre, sporadicamente incontrai il padre. Due genitori annientati, mai però sedotti da pensieri violenti. Le condizioni avverse, anche le più estreme, palesano la nostra vera natura.

Walter Lord, in un libro uscito negli anni Cinquanta, “Titanic Latitudine 41 Nord”, racconta le ultime ore sul transatlantico, mostra, attraverso testimonianze dei superstiti raccolte molti anni dopo, come i passeggeri si accostarono alla catastrofe. Leggendo con attenzione, si percepisce come ciascuno dei sopravvissuti, ma anche di coloro che non riuscirono a farcela, l’abbia fatto coerentemente con la propria natura, manifestatasi senza filtri in quei momenti inimmaginabili.

Tecnicamente l’uomo di Fidene non è malato ed è improbabile che qualcuno possa utilizzare il disturbo psichiatrico per spiegare la carneficina. Le prime indagini, tra l’altro, rivelano un disegno omicida lucido, preparato nei dettagli, con tanto di piano di fuga dopo il crimine. Un piano sproporzionato alla materia del contendere, ma apparecchiatosi con la stessa perversa progressione con cui si sviluppano le trame delle serie televisive o le carneficine dei videogames, dove le differenze tra tridimensionale e virtuale possono annullarsi. Sta accadendo con una progressione che continua, colpevolmente, a sfuggirci, perché tutto di normalizza. Appena due anni fa era stato ucciso a calci e pugni, ancora nella provincia laziale, Willy Monteiro Duarte, 21 anni, ragazzino mite, stritolato dai muscoli di due bravacci, fratelli per giunta, senza nessun motivo. Così, vezzi cinematografici.



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