Inutile cercare spiegazioni univoche alla vicenda che conduce fino alla morte della piccola Diana. Ne potremmo ipotizzare quante vogliamo o persino tirare fuori dai cassetti tutte le teorie psicologiche, note e meno note, ma non basterebbe a rompere i catenacci. Inoltre, ammettiamolo con onestà, a nessuno interessa davvero di lei, tutto questo sforzo di cercare ragioni non c’entra nulla con la compassione, appaga solo la curiosità per il finale del giallo o risponde al bisogno di dare a tutti i costi un nome alle cose, che le aiuta a esistere ma non a vivere. Un sasso esiste ma non vive. Diana, venuta alla luce in un bagno e morta in solitudine, era finita in questo limbo tra esistere e vivere, ferma nel mezzo, in attesa che qualcuno la portasse da una parte o dall’altra, ma nessuno la contese alla madre.
Dare nomi alle cose
Dare nomi ci illude di conoscere i nominati. Un giovane paziente, magazziniere presso un’azienda che si occupa di elettronica, conosce i codici di migliaia di “pezzi” presenti negli scaffali, ma ne ignora la funzione. Persino la psichiatria è assetata di nomi, così attraverso la creazione del DSM, manuale-bibbia della disciplina, è riuscita a trasformare la nostra sofferenza interiore, che spesso è esistenziale, in numeri e codici, ma le persone non sono galassie, e poi è impossibile irretire le manifestazioni della mente all’interno di una scatola di fiammiferi. C’è dell’altro intorno alla scatola, a cui non si bada, perdendo di vista l’insieme.
Ogni tanto c’è qualche pentimento, talvolta clamoroso, come quello di Allen Frances, leader della task force che aveva redatto la quarta versione del DSM, dopo avere fatto parte anche del comitato cui dobbiamo la terza. In un volume del 2014, “Primo non curare chi è normale. Contro l’invenzione delle malattie”, il cui titolo sembra già una sentenza, ammette che siamo scivolati su un crinale pericolosissimo. Se lo dice lui che c’era, abbiamo il dovere di credergli.
L'agonia di Diana
Poi c’è Diana. È morta in un modo orrendo, non ci si riesce neppure a pensare, se non augurandoci pietosamente che sia caduta subito in un sonno profondo. Si fosse trattato di un colpo secco, di un infanticidio classico, il tempo di assorbimento dentro di noi sarebbe stato rapido, come accade oramai per tutte le cose, a prescindere dal loro valore.
Invece, quella terribile agonia costringe ognuno di noi a colmare il vuoto tra il momento dell’abbandono e quello dell’ultimo respiro, senza però riuscire a chiudere il cerchio, perché in quella solitudine, che pure ci fa vergognare, c’è qualcosa di noi, contributori di un modello culturale in cui il modo più popolare per dirimere le controversie o superare ostacoli è diventato, in pubblico e in privato, la violenza, di cui l’indifferenza è amica stretta.
Ma questo è niente, perché tale degenerazione subisce un subdolo reclutamento da parte della normalità, finendo per sostituirsi ad essa, lo registriamo anche nelle parole di Alessia, la madre della bimba, quelle pronunciate davanti ai rappresentanti del potere giudiziario, dicono un’infinità di cose, spiegano molto, sebbene non tutto. A cominciare dalla consapevolezza delle conseguenze, “sapevo che poteva accadere”, per continuare con quel conclamato diritto di rifarsi una vita con il nuovo compagno, a cui Diana fosse sacrificabile, meglio se con un costo emotivo ridotto, facendolo accadere in modo naturale. Altre volte, dietro un infanticidio eseguito dalla mano materna, riscontro tale “speranza”, lasciare che accada, aiutando il destino, anche passivamente, per questo talvolta sfuggono i prodromi.
La madre
Alessia questo esito lo cercava, aumentando la pressione sulla piccola a ogni passaggio, sembra cadere in contraddizione quando ci chiede un elogio, raccontando di averle dato anche della Tachipirina prima di lasciarla, perché “La vedevo molto agitata e sbavava, pensavo fosse per i dentini”. In realtà, anche questo potrebbe fare parte della trama, credo non volesse che il pianto della bambina, indotto dal dolore alle gengive, attirasse la curiosità di vicini o passanti, innescando conseguenze a cascata fino a interruzione del fine settimana romantico.
Una bambina mai annidatasi nella madre che a sua volta mai si è annidata nella vita, entrambe prigioniere, come si diceva, nell’enorme magazzino dell’esistenza, ossia un passo prima.
C’è una logica rigorosa nei passaggi di questo calvario di due donne, come in ogni lucido delirio. Un disegno remoto, che prima o poi doveva completarsi, purtroppo, il cui incipit era stato scritto appena dopo il parto, visto che gli abbandoni della piccola erano stati diversi. Ma qui bisogna tornare alle parole e ai comportamenti di questa madre senza maternità, per rispondere, per capire quale fosse il divario tra lei e la realtà. Quella bambina era solo il prezzo pagato dalla madre ad una delle sue storie sfortunate. Lei stessa si considerava un errore e mentiva perché si “sentiva giudicata”. Il giudizio, per una persona che si sente una nullità e non vede speranze di riscatto, è una minaccia intollerabile, bisogna nascondere tutto ciò che può alimentarlo.
Persone del quartiere parlano di evento “inspiegabile”, ma è un errore fatale, l’inspiegabilità vale solo se ragioniamo con le categorie degli scorsi decenni, quando avere pane e companatico bastava e talvolta avanzava. Oggi le attese sono cresciute a dismisura, ma sul disperato bisogno di essere visti, di sembrare come gli altri, si avventano le fabbriche dei sogni, aperte 24 ore al giorno, che impazzano sui social e arricchiscono pochi spregiudicati affabulatori, testimonial di stili di vita irraggiungibili per la grande parte delle persone, soprattutto da quegli invisibili cui appartengono Diana e Alessia.
Sull’ingenua credulità di questo pevere creature, vengono rovesciati ogni giorno uragani di seduttivi messaggi pubblicitari, nascosti sotto tappeti di ipocriti bombardamenti d’amore Istigazioni emotive, tollerate da tutti noi e soprattutto da norme inadatte ai tempi, sebbene sappiamo che esse sono in grado di generare rovinosi incrementi del sentimento di inadeguatezza, alimentando la disperazione e il senso di impotenza dei vinti.
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