Ha lasciato un posto a tempo indeterminato nella sanità pubblica, accettando l’offerta di un dottorato di ricerca in Belgio, e si è trasferita a Bruxelles. “Ma mi sono ritrovata a fare ciò che facevo in Italia”, dice al ilfattoquotidiano.it Chiara Senti, ventinovenne di Castell’Arquato (Piacenza), una laurea a Brescia in Biotecnologie mediche. “Ho scoperto troppo tardi che ero finita lì solamente perché c’era da coprire un posto da laboratorista. Se l’avessi saputo prima…”. Se l’avesse saputo prima, Chiara non avrebbe mai lasciato l’Italia. E così, due anni dopo, ha scelto di tornare. Perché non è tutto rosa e fiori quello offre l’estero, anzi. “Non hanno manifestato interesse per il mio progetto in campo oncologico – confida Chiara -. Per due anni, per via della cattiva gestione del mio progetto, il lavoro assegnatomi è stato fare il tecnico di laboratorio per seguire progettualità di altre aziende o di interesse dei miei referenti a scapito del mio”, mentre lei era lì per un dottorato in scienze biomediche e farmaceutiche. “Non mi è stato nemmeno assegnato il supervisor che deve avere ogni dottorando, in quanto studente”. E sì che due anni fa non aveva esitato a partire: “Ero fiduciosa che, con un curriculum come il mio, non mi mancasse alcuna competenza”: biotecnologo medico, sette anni di lavoro nell’ambito oncologico a gestire i progetti di ricerca clinica e preclinica, diventando una figura di riferimento per medici sulle consulenze di genomica.

Nonostante l’esperienza lavorativa nel più importante centro di ricerca del Belgio sia stata deludente, Chiara non la rinnega. Non solo per l’aspetto retributivo (“i dottorandi in Belgio sono tra i più pagati in Europa, nulla di paragonabile con l’Italia”), ma soprattutto per l’arricchimento professionale e personale avuto nel corso del biennio: “Ho imparato due lingue e avuto modo di scoprire abilità lavorative che non pensavo di avere. Mi è dispiaciuto tanto non aver concluso il dottorato, ma questa esperienza mi ha dato l’occasione di ottenere una posizione di rilievo in Italia che non ho potuto rifiutare. D’altronde – ammette Chiara – anche alla mia età non si può perdere troppo tempo”. Verrà ora assunta da una società di Torino che non chiede l’esperienza ma guarda il curriculum e le darà la possibilità di formarsi direttamente in azienda. “Imparerò da zero una professione in una realtà che terrà conto del mio background scientifico applicato alla ricerca. Mi occuperò di sottoporre le sperimentazioni cliniche nei campi di oncologia, cardiologia e chirurgia alle autorità italiane ed europee come ministero della Salute, Aifa e Ema, e sarò una figura di riferimento per aziende farmaceutiche e ospedali coinvolti nei progetti al fine di testare nuovi farmaci o dispositivi medici. C’è tanto da imparare, confida la biologa, ma “trovo questo nuovo lavoro molto stimolante e di grande responsabilità”. Si parla tanto di meritocrazia. Sul tema Chiara è esplicita: “Si è portati a pensare che l’Italia non sia meritocratica e invece i Paesi esteri, per esempio del Nord Europa, lo siano. Non è così: l’unica differenza sono le maggiori risorse che fuori dall’Italia vengono dedicate alla ricerca”. Due anni in Belgio, in tutto. Il primo particolarmente difficile sul piano sociale: “Sono arrivata un mese prima della pandemia, sono rimasta sola e per lunghi periodi non sono potuta rientrare in Italia. Stavo cominciando ora a crearmi un po’ di vita sociale. Mi dispiacerà tanto non vivere il Belgio senza restrizioni”.

L'articolo “Per lavorare in Belgio ho lasciato un posto a tempo indeterminato. Ma dopo due anni sono tornata. Ecco perché” proviene da Il Fatto Quotidiano.



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