Nove anni dopo è arrivato il giorno del verdetto: l’Ilva gestita dai Riva ha davvero causato un disastro ambientale? E quante sponde politiche e nelle istituzioni aveva la famiglia che dai rottami in Lombardia era arrivata a fare suo il più grande impianto siderurgico d’Europa? Interrogativi che oggi verranno sciolti dalla Corte d’Assise di Taranto dopo giorni e giorni di camera di consiglio al termine del dibattimento che ha coinvolto 47 imputati (44 persone fisiche e 3 società) con la procura che ha chiesto 35 condanne per un totale di 400 anni di carcere. L’inchiesta Ambiente svenduto sull’ex Ilva di Taranto esplode nel lontano 2012 quando il gip Patrizia Todisco accogliendo la richiesta della procura ionica dispone il sequestro senza facoltà d’uso dei sei impianti dell’area a caldo che, secondo quanto accertato in due maxi-perizie, una ambientale e una epidemiologica, attraverso le emissioni generavano nella popolazione “eventi di malattie e morte”. La procura sostiene che terreni, animali, prodotti caseari, come denunciato diversi anni prima dall’associazione ambientalista Peacelink, è contaminato da diossina e non solo.
Gli arresti e l’addio alla monocultura industriale – Insieme al blocco degli impianti ci sono anche i primi arresti: ai domiciliari finiscono i vertici dell’azienda tra i quali Emilio Riva, patron del Gruppo scomparso un anno dopo, suo figlio Nicola (la procura ha chiesto 28 anni di carcere) e diversi dirigenti. Le accuse sono di disastro ambientale, omissione dolosa di cautele sui luoghi di lavoro e avvelenamento di sostanze alimentari. Secondo i periti e i carabinieri del Nucleo Operativo Ecologico, ogni anno dalla fabbrica si sollevano oltre 700 tonnellate di polveri che si abbattono sul vicino quartiere Tamburi e su altre zone della città. La città si divide: da un lato il mondo ambientalista manifesta a sostegno dei giudici e del diritto alla salute, dall’altro ci sono gli operai che aizzati dall’azienda scendo in piazza per difendere il diritto al lavoro. Il blocco degli impianti, però, viene poco dopo riformato dal Tribunale del Riesame che concede la facoltà d’uso ai fini dell’ammodernamento. Ilva continua a produrre e quindi – secondo l’impostazione dell’accusa – a inquinare. I sindacati metalmeccanici scendono a Taranto per difendere il lavoro: il comizio dei principali leader sindacali viene però interrotto da un gruppo di operai a bordo di un Apecar, stanchi dell’atteggiamento servile nei confronti dei padroni dell’acciaio. Nasce in quel 2 agosto il Comitato cittadini Liberi e Pensanti che sarà una delle principali espressioni dell’esasperazione tarantina rispetto alla monocultura industriale del territorio.
La rete di contatti del deus ex machina Archinà – A novembre la questione deflagra nuovamente. Un’indagine della Guardia di finanza svela attraverso 11mila telefonate intercettate la rete di contatti intessuti dai vertici dell’impresa con la politica e la stampa tarantina per tenere la situazione “sotto coperta”. L’allora potentissimo responsabile delle relazioni istituzionali dell’Ilva Girolamo Archinà parlava con tutti: amministratori del quartiere Tamburi, forze dell’ordine, l’allora sindaco di Taranto, i sindacati, i parlamentari ionici e persino con il consulente della procura, Lorenzo Liberti, che ne 2010 stava preparando una relazione sulle emissioni del siderurgico. Non solo. Centinaia di pagine sono dedicate alle frequentazioni con alcuni giornalisti locali: ciò che emerge dalla lettura delle trascrizioni, è un quadro di assoluta “sudditanza” nei confronti dell’Ilva da parte di alcuni operatori dell’informazione locale. “Io ho sempre sostenuto che bisogna pagare la stampa. Pagare la stampa per tagliare la lingua”, afferma al telefono ignaro di essere ascoltato dai finanzieri.
Le accuse al perito della procura e a Vendola – Ma da quelle conversazioni emerge anche come l’Autorizzazione integrata ambientale concessa dal ministero dell’ambiente all’Ilva sia frutto, per l’accusa, di un’azione illegale: l’avvocato dell’Ilva Francesco Perli, infatti, a Fabio Riva annuncia l’arrivo della commissione ministeriale affermando: “Non avremo sorprese e comunque la visita della Commissione allo stabilimento va un po’ pilotata”. Archinà finisce in carcere. Fabio Riva, ex vice presidente del Gruppo Riva Fire per il quale i pm hanno chiesto 25 anni di reclusione, invece, sfugge alla detenzione in cella perché si rifugia all’estero. Le accuse si aggravano: la procura contesta l’associazione a delinquere e persino la corruzione in atti giudiziari. Dalle attività investigative, infatti, emerge l’incontro tra Archinà e il consulente della procura Liberti alle spalle di un autogrill nell’autostrada tra Taranto e Bari durante il quale l’ex dirigente Ilva avrebbe – secondo i pubblici ministeri – versato una tangente da 10mila euro per “ammorbidire” la relazione a favore della fabbrica. E da quelle telefonate spunta anche la voce di Nichi Vendola, l’allora governatore di Puglia e leader di Sinistra Ecologia e Libertà, che in una telefonata parla con Archinà: “Dica ai Riva che il presidente non si è defilato”, diceva.
I decreti Salva Ilva e il ‘governo ombra’ – Il governo, intanto, vara il primo dei numerosi decreti ribattezzati Salva Ilva che neutralizzano l’azione dei giudici: la fabbrica, in attesa di essere ammodernata, può continuare a produrre. La questione finisce dinanzi alla Corte costituzionale che dà ragione al governo sostenendo che c’è un tempo accettabile perché Ilva si adegui alle migliori tecnologie disponibili. Passa qualche mese e a maggio 2013 arriva la terza ondata di arresti: finiscono in carcere i “fiduciari” e l’ex presidente della Provincia Gianni Florido. Quest’ultimo è accusato di aver fatto pressione sui dirigenti della sua amministrazione perché concedessero l’autorizzazione all’Ilva per l’utilizzo della discarica interna alla fabbrica: l’autorizzazione, in realtà sarà concessa qualche mese dopo il suo arresto con un nuovo decreto del governo. I fiduciari, invece, per i finanzieri costituivano una sorta di “governo ombra” dello stabilimento: direttamente alle dipendenze dei Riva impartivano ordini all’organigramma ufficiale dell’azienda seguendo la logica del “massimo profitto con il minimo sforzo”. Una modalità che avrebbero consentito al Gruppo Riva di risparmiare la somma di 8 miliardi di euro tra il 1995 e il 2012: il gip Todisco firma il maxi-sequestro che qualche tempo dopo sarà annullato dalla Cassazione.
Il lungo processo, tra perizie e difese – A Taranto, nel frattempo, il contenuto delle indagini segna tra gli operai un cambio di passo: un sentimento diverso dalla difesa del diritto al lavoro a ogni costo si fa strada nell’animo dei lavoratori. A ottobre 2013 la procura chiude le indagini: tra le oltre 50 persone coinvolte figura anche Vendola, imputato per concussione (5 anni la richiesta di condanna) sull’ex dg di Arpa Puglia Giorgio Assennato accusato di essere troppo duro con l’Ilva. A luglio 2015 gli imputati vengono rinviati a giudizio: comincia il processo dinanzi alla Corte d’assise che tuttavia viene annullato qualche mese più tardi. Tutto da rifare. Si torna in udienza preliminare per un nuovo rinvio a giudizio. Il secondo processo comincia nel 2016. Dopo quasi 4 anni, centinaia di udienze e di testimoni, migliaia di parti civili e una mole incredibile di documenti, le contro-perizie dei principali imputati e la difesa di tutti gli altri, è arrivato il momento del verdetto.
L'articolo Ilva, è il giorno della sentenza nel maxi-processo alla gestione dei Riva. Il sequestro del 2012, le perizie e le ‘sponde politiche’: le tappe del caso proviene da Il Fatto Quotidiano.
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