“I Led Zeppelin sembrano quelli che sono, ma anche quelli che non sono. Sembrano una blues band inglese. Sembrano un branchiosauro a sangue caldo. Sembrano Annibale all’assalto delle Alpi. Sembrano sexy e sessisti e senza sesso. Sembrano cupi e strafatti; sembrano intelligenti ma cretini: sembrano più vecchi di te, ma di poco. I Led Zeppelin sembrano i gesti di un tipo fico. O, più precisamente, i Led Zeppelin sembrano un tipo fico ben preciso: sembrano il genere di tipo fico che ogni uomo crede vagamente di poter essere se solo alcune cose al mondo fossero in qualche maniera diverse”.

Ventun giorni in viaggio attraverso l’America di inizio terzo millenio. Diecimila chilometri a bordo di una macchina a noleggio, con seicento cd, un po’ d’erba e l’obiettivo di portare a termine quello che la rivista Spin gli ha commissionato: una serie di reportage sui morti illustri del rock’n’roll. Questo in sintesi. Morire per sopravvivere. Una storia vera all’85%, di Chuck Klosterman, uno dei più apprezzati critici musicali e conoscitori della cultura pop (testo tradotto da Maurizio Bartocci; Minimum Fax).

In realtà il libro è molto di più, perché da New York alla costa del Pacifico all’autore capiterà non solo di riflettere su Sid Vicious e Nancy Spungen (“l’essere umano più fastidioso del 20esimo secolo”), John Lennon, Kurt Cobain, il rogo di West Warrick, il campo di fagioli dei Lynyrd Skynyrd, Duane Allman e Berry Oakley, morti in motocicletta a soli tre isolati e un anno di distanza l’uno dall’altro, ma di ribaltare le certezze dell’America, sia quella delle metropoli che quella rurale, e il sogno che questa si porta dietro dalla sua fondazione: “I miei ricordi dell’11 settembre 2001 sono – credo – del tutto irrilevanti. In parte perché all’epoca vivevo nell’Ohio, ma soprattutto perché tutti, negli Stati Uniti, hanno un aneddoto su ciò che stavano facendo quel giorno, e quasi tutti quegli aneddoti sono diventati di una noia mortale”.

E tra riflessioni sulle profezie accidentali di Thom Yorke nell’album Kid A sul lutto nazionale, la rivalutazione dei Kiss come colonna sonora di una formazione sentimentale, le gelosie di Eric Clapton e l’originale banalità alcolica di Rod Stewart, l’autore racconta la propria esistenza tra Minnesota, North Dakota e Big Apple, e la sua rocambolesca vita amorosa: le tre donne del passato e del presente, epoche che si mescolano in un tempo musicale, a volte cacofonico, in una sinestesia sincopata, celestiale, dura, lenta, veloce.

Quello che ho apprezzato di più di questo testo è il coraggio di Chuck Klosterman nel dare giudizi su ogni cosa senza mai cedere al pressappochismo ed entrare nell’insignificante Facoltà di Tuttologia. C’è sempre un motivo, un connettivo sul perché le cose gli piacciano o meno. Per parafrasare il titolo: l’85% delle volte non sono stato d’accordo con i suoi giudizi musicali. Distrugge i miei eroi ed esalta band che personalmente non digerisco, ma questo non mi ha reso meno godibile la lettura. Ho trovato originale l’idea di mischiare la musica rock con le frustranti e note delusioni sentimentali di ognuno di noi, l’erba e il viaggio in luoghi fuori dalle rotte e le elucubrazioni sugli aeroplani e le cameriere del Montana lettrici di Kafka.

Un libro per chi ancora è convinto che, malgrado tutto, “rock and roll can never die“, capace di farci sentire meno soli durante le nottate di lucciole psichedeliche, giradischi acceso e pensieri che spaziano tra amici che non ci sono più, principesse scappate in India e cronici mal di testa da dopo sbronza: “Mi sembra che l’amore e la morte e il rock’n’roll si fondano nella medesima esperienza (…) Non posso sganciarmi dal passato. Posso solo esistere nel passato e nel futuro”.

L'articolo Chuck Klosterman, morire per far sopravvivere il rock proviene da Il Fatto Quotidiano.



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