di Riccardo Pariboni e Pasquale Tridico*, Università Roma Tre
Negli ultimi quattro decenni, molte economie avanzate hanno subito cambiamenti significativi nelle loro strutture produttive e nelle loro strategie industriali. Mentre il periodo di espansione dopo la Seconda guerra mondiale – qualificato da alcuni studiosi come “l’età dell’oro del capitalismo” – vide l’industria manifatturiera giocare un ruolo predominante, negli ultimi quaranta anni si è messo in moto un processo di profonda mutazione. Assistiamo, infatti, ad un costante calo della quota dei lavoratori impiegati nella industria manifatturiera e ad una decisa transizione verso il settore dei servizi.
Figura 1: Quota di occupazione nella manifattura sul totale dell’occupazione 1970-2012. Fonte: EU KLEMS e OCSE
Questo cambiamento strutturale è stato spesso raccontato come una naturale transizione verso una società post-industriale, dedita ad attività creative e ad alto contenuto di capitale umano. Tuttavia, sotto questa superficie di ottimismo, la letteratura economica aveva individuato da molto tempo dei potenziali problemi insiti in queste traiettorie di de-industrializzazione. Già Baumol e Kaldor negli anni 60, infatti, notavano come il trasferire risorse dalla manifattura ai servizi potesse costituire una minaccia per la dinamica della produttività del lavoro, soprattutto quando questa transizione avviene verso specifiche industrie di servizi non orientate all’innovazione ed al progresso tecnico, con un basso livello di specializzazione della forza lavoro.
Esempi classici in tal senso sono rappresentati dal turismo, il settore alimentare, l’accoglienza (hotel e ristoranti), i servizi alla persona, la logistica a basso contenuto tecnologico. Molte industrie di servizi hanno un potenziale limitato di guadagni di produttività e sono definite da processi produttivi ad alta intensità di lavoro. Inoltre, come messo in luce da Wölfl (2005), potrebbero essere gravate da una serie di fattori che strutturalmente limitano l’innovazione: una più piccola dimensione media delle imprese (con le collegate difficoltà di finanziarsi sul mercato) può portare a minori investimenti, specialmente in asset ad alto rischio ma ad alto contenuto tecnologico. Altre spese generalmente sotto-finanziate sono quelle in Ricerca e Sviluppo e nella formazione della forza lavoro. Complessivamente, questo può condurre molte imprese del settore dei servizi ad utilizzare tecnologie e conoscenze “non-firm specific”.
Ci sono ovviamente alcune industrie, appartenenti alla macro-categoria dei servizi, che hanno un’elevata produttività del lavoro e livelli di investimento sostanziosi. È questo il caso, ad esempio, dei settori finanziario ed immobiliare. Questi ultimi, tuttavia, oltre ad avere un limitato impatto in termini di occupazione totale, sono attraversati da forti spinte speculative, possono dar vita a fenomeni perversi nella distribuzione del reddito e trascinano poca innovazione tecnologica. In particolare, molti studi recenti dimostrano che la finanziarizzazione dell’economia, che ha avuto luogo energicamente nella maggior parte delle economie avanzate negli ultimi due/tre decenni, sembra aver avuto un impatto negativo sulla produttività del lavoro, perché i grandi manager delle società finanziarie sono più interessati a massimizzare i dividendi degli azionisti e le loro compensazioni finanziarie piuttosto che avviare strategie di investimento in capitale fisico, orientate verso attività produttive. Strategie a breve termine, quindi, possono prevalere su una visione di lungo periodo che privilegi processi di espansione degli investimenti, miglioramenti dell’innovazione e guadagni di produttività del lavoro.
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[1] Questo articolo è una sintesi di un lavoro più ampio dal titolo: “Structural change, aggregate demand and the decline of labour productivity: a comparative perspective” di Pasquale Tridico e Riccardo Pariboni, Working Paper 221, 2017, Dipartimento di Economia Università Roma Tre.
* Indicato da Luigi Di Maio come ministro del Lavoro di un governo 5 stelle
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