La maggior parte delle quasi due milioni di vacche da latte italiane sono allevate a “pascolo zero”, ovvero in sistemi intensivi che le confinano in stalla per tutta la vita. Separate dal proprio vitello subito dopo il parto, vivono per pochissimi anni (rispetto alla loro aspettativa di vita) producendo quantità innaturali di latte. Queste condizioni di allevamento si applicano purtroppo in gran parte anche alle vacche che producono latte per i formaggi delle “grandi eccellenze” italiane, come il Parmigiano Reggiano e il Grana Padano. Di certo, standard di benessere animale, nei loro disciplinari, non ci sono.
La mia associazione, CIWF Italia Onlus, ha voluto approfondire la questione. Per questo, insieme a IRPI (Investigative Reporting Project Italy), abbiamo condotto una investigazione in 9 stalle che forniscono il latte ai due formaggi.
I risultati li abbiamo pubblicati qualche giorno fa. Innanzitutto, nessuno degli allevamenti visitati allevava le vacche al pascolo. Una situazione che conferma quanto aveva già riportato nel suo ultimo libro, Dead Zone, il direttore internazionale di CIWF, Philip Lymbery, con una intervista ai due Consorzi.
Oltre mezzo milione di vacche fanno parte della filiera dei due grandi formaggi. Tanti animali e per questo un potenziale di tanta sofferenza, se tenute a pascolo zero.
Nella nostra investigazione, gli animali stavano come stanno le vacche stanno negli allevamenti intensivi: con corpi ossuti si trascinavano a fatica nei corridoi delle stalle e nelle cuccette. I pavimenti delle stalle, di cemento, erano ricoperti di feci e urina; alcune vacche presentavano ferite alle zampe.
La nostra campagna per portare le vacche del Parmigiano e del Grana Padano al pascolo, lanciata in 7 paesi europei, ha avuto una visibilità incredibile. In pochi giorni ha raggiunto 39 paesi, un pubblico di 200 milioni di persone, con decine di migliaia di cittadini che dicevano #notonmypasta e sottoscrivevano il nostro appello ai Consorzi: dare alle loro vacche almeno cento giorni di pascolo all’anno.
Dare cento giorni di pascolo a degli erbivori ruminanti: sì, questa è la idea tanto rivoluzionaria da suscitare la reazione dei due Consorzi. Leggiamo, nelle note stampa di Parmigiano e Grana Padano, che hanno grande attenzione per il benessere animale, che le stalle visitate sono eccezioni, che le leggi sono rispettate nella loro filiera. Il Parmigiano ha anche precisato che i loro allevamenti non sono intensivi e che «non c’è una correlazione diretta tra pascolo e “vita felice “ della bovina».
Mi fa (tristemente) sorridere che ancora una volta si parli di “casi isolati”. Evidentemente siamo davvero sfortunati, noi delle associazioni di protezione animale! Ci imbattiamo sempre negli allevamenti peggiori.
Quello che è certo è che gli argomenti addotti dai Consorzi per difendere lo status quo non reggono. Conformità alle leggi sul benessere delle vacche? Ma se non esistono. La vacca da latte è purtroppo uno dei grandi esclusi dalla legislazione specie-specifica europea. Per loro valgono solo le disposizioni generali (troppo generali) della Dir. 98/58/CE sulla protezione degli animali negli allevamenti. Una normativa che di fatto non viene implementata correttamente negli Stati membri, perché se lo fosse (pensiamo all’articolo 3) gli allevamenti intensivi non esisterebbero.
Parliamo di controlli? Sono anni che, materiale video alla mano, le associazioni denunciano che in Italia controlli sul benessere animale negli allevamenti non funzionano e per questo abbiamo chiesto a gran voce che vengano fatti più stringenti.
Entrambi i Consorzi si riferiscono poi alla imminente introduzione di un sistema di certificazione sul benessere delle vacche. Benissimo, se questo sistema includesse la fruizione del pascolo per gli animali. Peccato però che il sistema citato sia quello del CReNBA (Centro di Referenza Nazionale per il Benessere Animale), che, invece, non è garanzia di rispetto del benessere animale. Il protocollo del CReNBA, infatti, si limita a mappare lo stato di una stalla. Ma tra fare ciò e parlare di benessere animale c’è molta differenza.
Dire poi che le filiere in cui le vacche non vengono mai condotte al pascolo non siano intensive è veramente azzardato. Non importa se in un allevamento di vacche ce ne siano 500 o 50. Se le metti chiuse in un capannone a produrre latte per tutta la vita di produzione intensiva si tratta. Forse una stalla al chiuso con pochi animali è meno “industriale” ma resta pur sempre intensiva.
Nella nota stampa del Parmigiano Reggiamo leggiamo poi che non vi è correlazione diretta tra pascolo e vita felice della bovina. Come si fa a sostenere questo? Il pascolo è imprescindibile per il benessere delle vacche. Solo con il pascolo questi animali possono esprimere i loro comportamenti naturali. Ed è anche fondamentale per la loro salute. Dire poi che le vacche in Italia non possono essere tenute al pascolo per il caldo estivo non regge: il clima italiano può essere mite anche nei mesi più freddi e quindi il numero di mesi al pascolo può essere maggiore che in altri paesi, aumentando così il benessere delle vacche.
E’ quindi deludente constatare che, come prima reazione, i due Consorzi abbiano voluto difendere l’indifendibile: lo status quo dell’allevamento intensivo. Ma noi non demordiamo e speriamo che le voci di decine di migliaia di cittadini di tutto il mondo, che stanno continuando ad arrivare, facciano loro cambiare idea e che quindi possa svilupparsi un dialogo sulle possibili soluzioni per introdurre il pascolo nelle loro filiere. Perché, come dice il nostro slogan italiano, non c’è eccellenza senza coscienza.
L'articolo Allevamenti, la nostra battaglia per portare le vacche di Parmigiano e Grana Padano al pascolo proviene da Il Fatto Quotidiano.
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