Il tempo di avere paura e sono già in terra. Il terreno è umido, le foglie cadute hanno l’odore dell’assenza del sole tra le frasche. Ho piante alte sulla testa, sembrano ancora più alte di quanto lo siano realmente. Fitte sulle estremità e più rade alla radice, tanto che il mio corpo non ne schiaccia nemmeno una. Come ci fosse lo spazio necessario, come se fosse terra di nessuno, pronta, fatta a posta, predisposta. Intorno niente. Solo loro.
Solo un’immagine mi arriva come un meteorite sulla testa, fracassa il cranio e lo riempie di una vita intera. Mezza vita in realtà. Ma quando si è giovani si pensa esista solo quella. Una vita intera in un’unica impressione. Scivola via e si perde, consapevole d’esser finita in un istante. A rischio pratico, ma non solo. Se me la cavo, è finita ugualmente. Ma non c’è il tempo di pensare. È un’impressione appunto. Un quadro animato che ripercorre ogni momento felice e infelice, ogni progetto futuro, ogni idea di te nei giorni a venire. Da quell’istante in poi non sarà più la stessa cosa. È finita. Le gambe aperte, la schiena schiacciata sotto un peso che non è solo corporeo ma di prepotenza. Di sottomissione. I pugni chiusi ma inermi. La voce non esce. “Perché non hai urlato?”, Non mi avrebbe sentito nessuno. “Perché non hai chiesto aiuto?”, L’ho fatto, ma senza fiato. La voce è fioca, perde d’intensità e potenza. Perde la partita. Perde il respiro che permette di ricominciare.
“Ti prego” “Ti prego” “Ti prego” “Ti prego”
Ci sono momenti nella vita in cui ti affidi all’umanità dell’altro, in cui disperatamente ti affidi alla possibilità che esista un angolino di coscienza e ragione in qualunque essere umano che nasce, vive e poi muore. L’esistenza necessita per forza di umanità e pietà. Pietà. Abbi pietà di me. Della mia preghiera. Del mio sguardo. Non può accadermi questo. Non può finire così. Eppure il tempo non passa. Istanti, secondi interminabili, fermi. Siamo fuori dal tempo e dal mondo.
Porto una grossa cintura in vita. Anni Sessanta, di quelle larghe e bianche, era di mia madre. Solitamente la stringo stretta perché sono magra, e i pantaloni li porto larghi. Così io cedo e lei invece resiste. È il caso, il destino. È certamente la mia salvezza. Ho un telefono tra le mani e lui è giovane. Più giovane di me. Forse si spaventa, forse non è in grado di farlo davvero. Non so. Forse torna umano. Forse prova pietà. Forse ascolta la mia preghiera, si accorge del mio sguardo. Corro tanto, corro veloce. Mi guardo le spalle, la testa girata, e inciampo. Corro senza sapere dove andare. Vedo una strada là in fondo, riconosco una casa in lontananza. Nel cortile, dietro un’alta rete verde, tre bambini giocano con il pallone. Uno pedala impacciato su un triciclo. Come si fa ad arrivare su quella strada? I bambini sono ancora umani. Mi indicano la direzione e riprendono a giocare. Ce l’ho fatta, ma è stato il caso. Non è merito mio. Non è una battaglia vinta. Non si vince contro la violenza. La violenza si previene, si denuncia, si racconta, ma non si vince mentre agisce. Non dico niente. A nessuno. Mi lavo più volte ma non va via. Sono una donna fortunata, penso. Poteva andare peggio. Non ne voglio più sapere. Dimentico. Poi invece non accade.
Te la sei cercata. Solo a te poteva accadere. Eri consenziente. Te ne fossi stata a casa… Ti sei messa da sola nei guai. A me non poteva accadere. Se un uomo arriva a questi punti evidentemente lo hai provocato. E tu perché eri lì? Cosa ci facevi?
Ecco la violenza perpetrata, oltre quella fisica.
No alla violenza sulle donne.
No alla depenalizzazione del reato di stalking.
No alla narrativa con cui stupri e omicidi diventano un processo alle vittime.
La violenza sulle donne è una sconfitta per tutti. Riprendiamoci la libertà.
Firma l’appello e oggi, 30 settembre, scendi in una delle 100 piazze d’Italia
L'articolo Violenza sulle donne, io mi sono salvata. Ma è stato un caso proviene da Il Fatto Quotidiano.
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