di Viviana Langher *
Quella della signora cui è stato diagnosticato un malessere psicologico al posto del cancro di cui invece soffriva è una storia triste e brutta. Quanto sconforto, mentre ripetutamente cerca aiuto perché non si sente bene, e invece viene rimandata a casa, forse è “esaurita” o “depressa”.
Provo pena però anche per i medici che sono incappati in questo errore madornale. I medici si trovano oggi al minimo storico della loro popolarità: c’è un pensiero comune sciatto che li priva di prestigio, di potere, li sospetta di scarsa competenza, iperspecializzati e incapaci di vedere una persona nella sua interezza, insensibili, quando non assoggettati alle lobby farmaceutiche, e via così. Se sono solidale con la signora che ha subìto un pessimo servizio, voglio anche ricordare che il medico fa un lavoro difficilissimo, analizza complesse configurazioni di informazioni, prende decisioni colme di responsabilità: riducendo la questione alla sua ultima essenza, ha per le mani salute e malattia, gioia e dolore, vita e morte di una persona. Non è facile, pensiamoci.
La domanda che il paziente rivolge al medico è sempre complessa. Il paziente, laico di scienza medica, è a suo modo esperto del proprio corpo. Racconta il corpo ed i segnali che manda con un suo lessico che il medico deve sforzarsi di decifrare. Il paziente riporta a volte un dolore preciso, uno stato febbrile quantificabile, una disfunzione evidente. Altre volte prova a descrivere qualcosa per cui non trova parole esatte, è vago, usa metafore: descrive uno stomaco “pesante come il piombo”, un dolore “lancinante come una coltellata”, sente “una spina in gola”. Il medico deve destreggiarsi in questo lessico poetico, immaginifico, o al contrario coartato, minimalista (“non mi sento bene, non so dirle esattamente come”) e trarne tutte le informazioni possibili affinché lui possa comporle in un quadro che gli consenta di fare un’ipotesi chiara, riconducibile a categorie di lettura inequivocabili. Deve saper andare dritto al punto, se non al primo tentativo, deve riuscirci al secondo. Perché è preso tra due fuochi: davanti a lui c’è l’urgenza di salute del paziente, ma dietro di lui c’è un sistema che gli impone di essere efficiente, di non prescrivere troppi approfondimenti diagnostici, perché c’è un costo economico reale e significativo a coprire le sue incertezze, ed è tempo di necessario taglio alla spesa.
Il paziente del XXI secolo è informato. Precisiamo: la sua conoscenza è mediocre, approssimativa, spesso una sommatoria di “sentito dire”; quanto basta però ad esser spesso in prima battuta diffidente di ciò che il medico afferma. È dubbioso, francamente inquisitorio, si affida meno allo sguardo ed al responso del medico, può entrarci in contrapposizione; ed è tuttavia esigente, perché lui stesso sente la fragilità della sua conoscenza e la complessità della domanda che fa al medico; e ha bisogno del medico, perché in lui ripone, in ultima analisi, la speranza di guarigione; ma lo fa con molta paura, perché il suo corpo malato gli evoca profonde angosce di morte.
I medici sono investiti da queste domande cariche di emozioni, e se attribuiscono al paziente, magari impropriamente, un problema psicologico è perché esprimono la loro fragilità, ed il senso di impotenza che li spinge a dare un nome proprio a ciò che più li inquieta perché non è neanche illusoriamente sotto il loro dominio. Quando il medico individua la malattia di cui il paziente soffre, considera le emozioni del paziente come una fisiologica reazione a quella malattia. Ma quando il medico non vi riesce, può trovarsi nella posizione scomoda di sentirsi lui incerto e dubbioso e, come medico, impotente. La forte pressione sociale sul suo mandato gli impone di dare una risposta al paziente, gli impedisce di dire “non lo so”. Se rimanda al paziente una diagnosi psicologica, raramente lo fa per tracotanza; piuttosto è il suo tentativo, certamente inopportuno, di trovare una risposta rassicurante alla sua stessa incertezza.
Una persona che sente il proprio corpo malato, inquieto, sofferente, avrà sicuramente un tono emotivo alterato, depresso, rabbioso, o ansioso e per forza porta la sua emozionalità nello studio del medico; se il medico la sente come un elemento di disturbo deve avere in mente che può non sentirsi solo, in questa difficoltà, ed affidarsi a sua volta alla consulenza di un professionista diverso, uno psicologo, che fonda la sua specifica azione professionale sulla presa in carico delle emozioni dell’altro. Chiedere aiuto a qualcun altro non è un segno di capitolazione, ma dimostrazione della saggezza di pacificarsi con la propria conoscenza imperfetta.
* Psicologa e Consigliera Ordine Psicologi Lazio
L'articolo ‘È depressa’, invece ha il cancro. Quando è il medico ad aver bisogno di aiuto proviene da Il Fatto Quotidiano.
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